Massimo Ilardi_Il contesto politico italiano dei ‘60
Il sociologo urbano Massimo Ilardi per archphoto 2.0 dedicato alla Radical City affronta la questione del contesto politico italiano degli anni sessanta.
Una trasformazione sociale e antropologica travolgente quella esplosa nella società italiana tra gli anni ’50 e ’60 del Novecento quando il paese fu spinto da una forte crescita dell’apparato produttivo a mutare completamente ‘volto e anima’. Il cambiamento profondo da paese prevalentemente agricolo a paese prevalentemente industriale, con la formazione di grandi concentrazioni urbane e produttive e con gli imponenti movimenti migratori dal sud verso il nord, dissolse abitudini e costumi antichi, modificò culture e mentalità, impose figure e aggregati nuovi, significò, pur tra mille squilibri sociali e territoriali, per le classi popolari e contadine, una integrazione senza precedenti nel corpo sociale del paese pagata al prezzo altissimo ma necessario della perdita dei tratti essenziali della loro identità storica.
Al centro di queste trasformazioni stava appunto il grado superiore del capitalismo industriale, e cioè la grande fabbrica meccanica che diventava un punto di riferimento irrinunciabile per qualsiasi analisi sul mutamento. Ma al centro ci furono anche le formidabili lotte operaie che iniziarono alla Fiat nel ’62, si protrassero per tutto il decennio fino a culminare nell’autunno caldo del ’69 provocando una rottura definitiva nel vecchio equilibrio politico e sociale. Alla testa di queste lotte c’era la nuova figura dell’operaio-massa, dequalificato e senza professione, che ridimensionava drasticamente l’importanza politica e l’entità numerica dell’operaio professionalizzato. All’interno della fabbrica veniva attaccata e demistificata l’etica del lavoro e la sua gerarchia: gli operai chiedevano aumenti salariali uguali per tutti, la categoria unica, la parità con gli impiegati. L’identità operaia è data dai comportamenti di lotta e non più dal mestiere o dal ruolo svolto dentro il ciclo della produzione.
Questa forte conflittualità operaia dilagò presto negli altri settori della società, trascinò tutto il paese ad allinearsi a questa seconda rivoluzione industriale, e infine coinvolse un forte movimento studentesco che cominciò a funzionare come cassa di risonanza di quelle lotte. La grande fabbrica fu quindi il motore di questo processo di trasformazione che spezzò le inerzie di un sistema produttivo arretrato che fino a quel momento riproduceva al proprio interno modi di produzione e di consumo analoghi a quelli delle strutture precapitalistiche.
Di fronte a questa rivoluzione sociale innescata dalla classe operaia e dall’iniziativa di un capitalismo dinamico e aggressivo, alcuni settori del movimento operaio cercarono di rinnovare i loro strumenti teorici per essere in grado di leggere questa fase e di tradurla in azione politico-istituzionale. Da qui la riscoperta della teoria marxista portata avanti in quegli anni da alcune riviste (Quaderni rossi e Classe operaia) che si posero in maniera critica nei confronti dell’esperienza politica e ideologica del movimento operaio organizzato, con l’obiettivo di ritornare alla vera essenza del marxismo “spogliandola di tutte le mistificazioni che un uso puramente filosofico vi aveva incrostato, e rifacendone uno strumento teorico per la prassi.” (A.Asor Rosa). La tesi era che “quanto più avanza lo sviluppo capitalistico, cioè quanto più penetra e si estende la produzione di plusvalore relativo, tanto più necessariamente si conclude il circolo produzione-distribuzione-scambio-consumo, tanto più cioè si fa organico il rapporto tra produzione capitalistica e società borghese, tra fabbrica e società, tra società e Stato.” Di conseguenza, “è lo stesso sviluppo capitalistico che tende a subordinare ogni rapporto politico al rapporto sociale, ogni rapporto sociale al rapporto di produzione, ogni rapporto di produzione al rapporto di fabbrica.” Allora, l’unica contraddizione insolubile del capitalismo stesso “è la classe operaia dentro il capitale: o meglio lo diventa, dal momento in cui si autorganizza come classe rivoluzionaria.” Il rafforzamento organizzativo della classe operaia è dunque essenziale perché “la catena si spezzerà non dove il capitalismo è più debole, ma dove la classe operaia è più forte.” (M.Tronti).
Ma l’ipotesi, che vedeva la classe operaia, nei punti più alti del suo sviluppo, un soggetto capace di varcare quel passaggio storico e politico che si chiama rivoluzione, fallì. Che le lotte operaie determinassero lo sviluppo capitalistico non voleva dire che quelle lotte potessero aprire un processo rivoluzionario. Né che si presentava agli operai la possibilità concreta di farsi Stato o partito. Non sono stati né l’uno né l’altro. Il forzare questi passaggi, il piegare a un uso strategico la lotta operaia andava proprio contro “ciò che é” la classe operaia. La “rude razza pagana” non fece il salto oltre il meccanismo della rivendicazione salariale non perchè le mancò la forza ma perchè il suo nemico vero era il lavoro e non il capitale, o, meglio, il capitale in quanto lavoro. In quegli anni, la sua stessa fuoriuscita politica dal capitale, la sua trasformazione da forza-lavoro a classe operaia, si é dispiegata tutta dentro la fabbrica proprio perchè la sua soggettività si esprimeva nella intensità delle forme di lotta (passività, assenteismo, cortei interni) che nascevano all’interno del rapporto di produzione, dentro l’organizzazione della catena di montaggio. La fabbrica e solo la fabbrica era il suo terreno di lotta, la “messa in forma” operaia della organizzazione politica. Non a caso, la rivolta di Piazza Statuto rimase un episodio isolato che confermava la regola. Il ‘rifiuto del lavoro’ e il ‘salario come variabile indipendente’, e cioè le pratiche della sua autonomia rispetto al capitale, si esprimevano, dunque, sul terreno della fabbrica e si misuravano sui risultati materiali che riuscivano a raggiungere (più salario e meno lavoro).
Dalla fabbrica al territorio: negli anni ’70 il passaggio non sarà in mano alla classe operaia. Altre figure sociali, altrettanto rudi e pagane, attraverseranno la metropoli ma non avranno più né la fabbrica né il lavoro al centro della loro azione. Per questo il ’77 non chiude la stagione dei movimenti ma apre il tempo delle rivolte metropolitane sul consumo. Ma dire consumo non vuol dire, anche qui, rinchiudere quei soggetti dentro puri meccanismi economici. C’é tutto un lavoro da fare sul rapporto ostile e non risolto tra mercato e consumo, sui conflitti che scatena, sulla crisi che produce nelle regole e nell’ordine del sistema.
english version
It was an overwhelming social and anthropological transformation that swept through Italian society between the ‘50s and ‘60s when the robust growth of its industrial system completely changed the country’s ‘face and soul’. The radical passage from mainly rural to mainly industrial country, with the establishment of large urban and industrial agglomerations and the massive south-north migrations, erased ancient habits and customs, changed cultures and mindsets, imposed new patterns and aggregations and, all while producing a myriad social and geographical disparities, brought an unprecedented integration for the lower and rural classes into the country’s social body, an integration that came at the very high but necessary cost of losing the essential features of their historical identity.
The core of such transformations was precisely the top tier of industrial capitalism, or the engineering factory that became an unavoidable reference for any analysis of the transformation itself. That core, however, was also inhabited by the extraordinary working class struggles that began at FIAT in 1962, went on through all the ‘60s and culminated in the hot autumn of 1969 that put an end to the old political and social order. Those struggles were led by a new figure, the unqualified and unskilled “mass worker”, whose emergence drastically reduced the political importance and sheer number of skilled workers. The ethics and hierarchy of work was attacked and demystified within the factory: the workers demanded the same wage rises for everyone, just one class for everybody and the same treatment as office workers. The workers’ identity was measured by how they behaved in their struggle and not by their skills or roles within the production cycle.
Soon the heated conflicts in the working world overflowed into other fields of society and led the entire country to experience this second industrial revolution, finally finding a connection with a student movement that started to function as a sounding-board for those struggles. The factory was thus the engine of this transformation process – it broke the inertia of a backward production system that still reproduced production and consumption patterns similar to those of pre-capitalist structures.
Faced with the social revolution started by the working class and a dynamic and aggressive capitalism, some sectors of the labour movement tried to renew their theoretical tools in order to be prepared to respond to this phase and translate it into political-institutional action. This resulted in the rediscovery of Marxist theory then promoted by some magazines (Quaderni rossi and Classe operaia) that criticized the political and ideological experience of the organized labour movement in order to recover the true essence of Marxism “by stripping it of the mystification that a purely philosophical use had laid upon it so that it can return to be a theoretical tool for action.” (A. Asor Rosa). The argument was that “as capitalist development advances, and thus penetrates and expands the production of relative surplus value, the production-distribution-exchange-consumption circle necessarily comes to an end, and the relationship between capitalist production and bourgeois society, between factory and society, between society and State becomes more and more organic.” As a consequence, “capitalist development tends to subordinate any political relation to the social relation, any social relation to the production relation, any production relation to the factory relation”. That means that the only unsolvable contradiction of capitalism itself, “is the working class within the capital: or, in other words, it becomes so once it organizes itself as a revolutionary class.” The organizational consolidation of the working class is thus essential because “the chain will not break where capitalism is weaker, but where the working class is stronger.” (M. Tronti).
But the argument that saw the working class, at its most developed, as a subject that could achieve that historical and political breakthrough called revolution failed to materialize. The fact that the workers’ struggles were the source of capitalistic development did not mean those same struggles could start a revolutionary process. Or that the workers might actually become the State or a party. They became neither. The imposition of an agenda, the strategic use of the workers’ fight indeed ran counter to what the working class “truly was”. The “rugged pagan race” failed to grow out of the wage claim phase not because it lacked the strength to do so but because its true enemy was work, not the capital, or, rather, the capital as work. During those years, its very political exit from the capital, its transformation from work force to working class, took place entirely within the factory precisely because its subjectivity expressed itself in the intensity of fight forms (passivity, absenteeism, in-factory marches) that resulted from the production relationship, from the assembly line itself. The factory and only the factory was its fighting ground, the working class “shaping” of political organization. Unsurprisingly, the revolt in Piazza Statuto remained an exceptional event that proved the rule. The ‘refuse to work’ and ‘wage as an independent variable’, or the practices of its independence from the capital, were therefore acted out on the factory’s ground and measured by the material results they achieved (more wage and less work).
From factories to society: during the ‘70s the shots would not be called by the working class. Other social players, equally rugged and pagan, would emerge in the metropolis and they had nothing to do with the factory or had work as their main focus. For this reason 1977 does not close the season of movements – it inaugurates the age of metropolitan consumption-centered revolts. But consumption does not mean, again, that those players could be boxed into purely economical cages. There is very much to be said about the hostile and unsolved relation between market and consumption, the conflicts it unleashes, the crisis it produces in the system’s rules and order.
translation by Antonella Bergamin