Antonio Tursi_Lo spazio di McLuhan
Prosegue la pubblicazione dei saggi apparsi sul numero 01 di archphoto 2.0 dedicato alla Radical City.
Pubblichiamo qui il saggio di Antonio Tursi in occasione dell’anniversario della nascita di Marshall McLuhan.
Ricorre il centenario della nascita di Marshall Herbert McLuhan, teorico dei media (Edmonton, 21 luglio 1911). Essendo un autore difficilmente inscrivibile dentro le discipline consolidate, essendo un ironico provocatore, utilizzando formule frammentate e a volte oscure, la conoscenza di McLuhan si è rivelata spesso pura e semplice incomprensione. In Italia, soprattutto, dove per esempio già la traduzione del titolo di uno dei suoi lavori più importanti rivela l’incapacità della nostra cultura a confrontarsi con il lascito più profondo e produttivo dello studioso canadese. Gli strumenti del comunicare neutralizza un approccio che proprio nella confutazione dell’interpretazione strumentale dei media trova la propria base. Infatti, per McLuhan i media non sono semplici strumenti di comunicazione, bensì complessi e articolati ambienti di servizi e disservizi, ambienti di vita in cui noi siamo immersi quotidianamente. Già questa visione dei media come ambienti provoca l’architettura e l’urbanistica a farsi carico della responsabilità nei confronti della nostra vita quotidiana tramite i media. Oggi che almeno il trenta per cento del budget di ogni edificio deve essere indirizzato alle sue reti energetiche e telematiche, questa responsabilità è ormai evidente. È ormai diventato impossibile progettare e costruire senza l’utilizzo dei media e senza tener conto del ruolo dei media come ambienti in cui abitiamo. McLuhan perciò dovrebbe essere un riferimento costante per chi pratica l’architettura. Vale questa indicazione fondamentale circa il ruolo dei media, ma valgono anche altre due indicazioni specifiche che permettono di confrontarsi con i problemi contemporanei del progetto.
In primo luogo, l’analisi mcluhaniana del concetto di spazio. Nel descrivere lo sviluppo delle civiltà analizzando un fattore spesso rimasto inosservato, i media appunto, McLuhan si sofferma a lungo sulle diverse concezioni e percezioni dello spazio che emergono all’interno di una storia imperniata su due grandi fratture e di conseguenza costituita da tre grandi epoche. La prima frattura è rappresentata dall’invenzione della scrittura alfabetica che ha separato l’epoca dell’oralità dall’epoca della scrittura, che iniziata con l’alfabeto greco ha raggiunto il suo pieno dispiegamento grazie alla stampa a tipi, formando quella che lo stesso McLuhan ha chiamato “galassia Gutenberg”. La seconda frattura è quella dovuta all’elettricità che ha permesso il configurarsi di una nuova epoca. Le due fratture mediali si legano per McLuhan a particolari modalità percettive dello spazio, il che equivale all’affermare che la scrittura alfabetica e la stampa a tipi hanno condizionato una modalità di percezione dello spazio affatto diversa da quella condizionata dall’elettricità. Ancora più precisamente, i diversi media condizionano ovvero evidenziano equilibri sensoriali differenti che conducono a diverse considerazioni dello spazio. Su questo punto McLuhan procede con chiarezza estrema: da un lato, individua l’equilibrio squilibrato sul senso predominante della vista e caratterizza su questa base lo spazio come visivo e il tempo come lineare; dall’altro lato, individua un equilibrio tra i sensi (a suo dire naturale, a nostro avviso squilibrato sul binomio tatto-udito) e caratterizza su questa base lo spazio come acustico e il tempo come simultaneo. “Lo spazio visivo, creato intensificando e separando questo senso [la vista] dall’interazione con gli altri, è un contenitore infinito, lineare e continuo, omogeneo e uniforme. Lo spazio acustico, penetrato costantemente dalla tattilità e dagli altri sensi, è sferico, discontinuo, disomogeneo, risonante, e dinamico” (M. McLuhan, E. McLuhan, Laws of Media, Toronto UP, Toronto 1988, p. 63). Il primo spazio è quello di Euclide e della prospettiva su cui si è basata, soprattutto dopo la sua matematizzazione rinascimentale, tutta la pratica del progetto moderno. Lo spazio acustico invece è fatto dalle interazioni tra i suoi elementi e perciò è tensivo e in continua metamorfosi. Richiede un progetto liquido, adattabile e appropriabile.
In secondo luogo, il concetto ridotto a slogan di villaggio globale. Per comprendere cosa McLuhan intenda con questo sintagma, bisogna considerare l’ottica ecologica con la quale egli considera il mondo nell’era dei media elettrici. Con i satelliti riconosciamo il pianeta Terra come un tutto, come una navicella in viaggio nell’immensità dell’universo, una navicella della quale ormai non possiamo considerarci più semplici passeggeri ma verso la quale dobbiamo assumerci tutte le responsabilità proprie dell’equipaggio. Quest’ottica ecologica soggiace alla definizione di villaggio globale. L’espansione di un forma tribale dell’abitare alla dimensione del globo è resa possibile dalle tecnologie elettriche, meglio dallo spazio tattile e acustico che esse generano. Tale spazio è fatto di interazione e contatti che avvengono lungo intervalli e confini. “Noi tutti sappiamo che una frontiera, o confine, corrisponde a uno spazio fra due mondi, creando una specie di intreccio duplice o parallelismo che evoca un senso di moltitudine o universalità. Quando due culture, due eventi, due idee, vengono collocati uno accanto all’altro, avviene un’interazione, un mutamento magico. Più le interfacce differiscono, maggiore sarà la tensione dell’interscambio” (M. McLuhan, B.R. Powers, The Global Village, Oxford UP, New York 1989, p. 22). Il concetto di confine è l’elemento che struttura dividendo e ricucendo il villaggio globale, il villaggio e il globo. “Il confine è un’area di ripetizione a spirale e di riproposizione, sia di input che di feedback, sia di interfaccia che di intreccio, un’area dove si congiungono gli estremi, di rinascita e di metamorfosi” (ivi, p. 209). Si può ben dire che su tale area abrasiva avviene l’azione, che il confine è dotato di un potere “aggiornante” delle strutture sociali esistenti.
Assistiamo ogni giorno di più alla sostituzione delle metropoli del moderno da parte del villaggio globale. Addirittura al loro interno possiamo scorgere l’emergere di dinamiche tribali, il delinearsi di nuovi confini. Infatti, accanto a una tendenza di apertura dello spazio, di aggregazione tra spazi ormai globali, è visibile una tendenza alla loro chiusura, alla loro recinzione, alla loro segmentazione. Gated communities e slums diventano impermeabili tra loro e il confine che li separa rischia di diventare non il luogo del contatto e dell’interazione, ma unicamente un luogo di violenza (effettiva o potenziale) che va sorvegliato e difeso. Come McLuhan preavvertiva, preoccupandosene, il villaggio globale rischia di presentarsi come un campo di battaglia permanente, un campo di scontri più che di incontri. Su questo l’architetto e, ancor di più, l’urbanista sono chiamati a dare un contributo affinché i nuovi spazi che emergono sotto i nostri occhi abbiano confini porosi e aperti alla proliferazione delle differenze e non chiusi e tali da rendere immuni rispetto a qualsiasi elemento eterogeneo.
english version
2011 marks the centenary of the birth of media theoretician Marshall Herbert McLuhan (Edmonton, 21 July 1911). Being hardly ascribable to any established discipline, as well as an ironic agent provocateur who used fragmented and sometimes obscures formulas, the study of McLuhan has often turned out to be pure and simple incomprehension. That is particularly true in Italy, where for example the translation of the title of one of his main works already reveals our culture’s inability to confront the Canadian scholar’s deepest and most productive heritage. Gli strumenti del comunicare [or The tools of communication, Italian translation of Understanding Media: the Extensions of Man] neutralizes an approach that was actually based on the very denial of the media’s instrumental interpretation. For McLuhan, the media are not mere tools of communication but complex and articulated environments of services and disservices, life environments that surround us daily. Such view of the media as environments already demands that architecture and urban planning take the responsibility of organizing our daily life through the media. Today, with at least thirty per cent of any building’s construction cost taken up by its energy and communication networks, such responsibility is unavoidably clear. Designing and building without using the media or taking in due account their role as our life environments has become impossible. Therefore, McLuhan should be a constant reference for architects. Besides such fundamental indication related to the role of the media, there two other, equally valid, specific indications that are key to address today’s design problems.
First of all, McLuhan’s analysis of the concept of space. In describing the development of civilizations by analyzing an often undetected factor such as the media, McLuhan thoroughly examines the different views and perceptions of space emerging within a history revolving around two major breakthroughs and consequently made of three major ages. The first breakthrough is represented by the invention of alphabet writing separating the ages of oral and written communication that, started with the Greek alphabet, reached its full achievement with type print, giving place to what McLuhan defined as the “Gutenberg galaxy”. The second breakthrough was due to electricity that in turn marked the configuration of a new age. For McLuhan, these two media breakthroughs are connected to particular ways of perceiving space, which means that alphabet writing and type print induced a way of perceiving space altogether different from the perception of space induced by electricity. Even more precisely, the different media influence, or enhance, different sensorial conditions that lead to different ways of considering space. On this point McLuhan proceeds with the utmost clarity: on one side, he underlines the unbalanced balance founded on the prevailing sense of sight and on this basis characterizes space as visual and time as linear; on the other side, he finds a balance among the senses (in his view natural, in our opinion dominated by touch-hearing) and on this basis characterizes space as acoustic and time as simultaneous. “Visual space, created by intensifying and separating that sense [eyesight] from the interplay with the others, is an infinite container, linear and continuous, homogeneous and uniform. Acoustic space is always penetrated by tactility and the other senses; it is spherical, discontinuous, non-homogeneous, resonant, and dynamic” (M. McLuhan, E. McLuhan, Laws of Media, Toronto UP, Toronto 1988, p. 63). The first space is the space of Euclid and perspective on which, particularly after its mathematization during the Renaissance, the entire modern design practice is based. Acoustic space, instead, is made of the interactions between its elements and is therefore tensional and in constant flux. It requires a liquid, adaptable and appropriable design.
Secondly, the concept, now a mere slogan, of global village. In order to understand what McLuhan means with this syntagma, it is necessary to consider the ecological view he applies to the world in the age of the electrical media. Seen from the satellites, the planet Earth is recognizable as a whole, a spaceship travelling across the immensity of the universe. We can no longer consider ourselves as mere passengers of such spaceship and should rather take full responsibility as crew members. Such ecological view underlies the definition of global village. The expansion of a tribal form of living to the global dimension is made possible by the electrical technologies, or rather by the tactical and acoustical space they generate. Such space is made of interaction and contacts occurring in intervals and boundaries. “We all know that a frontier, or a boundary, corresponds to the space between two worlds, and creates a sort of two-fold network, or parallelism, that evokes a sense of multitude or universality. When two cultures, two events, two ideas, are placed side by side, there is an interaction, a magical change. The more different the interfaces, the greater the tension of interchange” (M. McLuhan, B.R. Powers, The Global Village, Oxford UP, New York 1989, p. 22). The concept of boundary is what structures, in that it divides and puts together again, the global village, the village and the globe. “The boundary is an arena of spiralling repetition and reply, both of input and feedback, interlace and interface, in the area of an imploded circle of rebirth and metamorphosis.” (ivi, p. 209). One may well say that action occurs on such abrasive surface, that the boundary is provided with the power to “update” existing social structures.
Every day we see the global village increasingly replace the modern metropolis. We see tribal processes emerging, new boundaries established even within the metropolis. In fact, while space tends to open up, enabling the aggregation of new global environments, at the same time it also tends to close, to become fenced and segmented. Gated communities and slums become mutually impervious with the boundary between them becoming not a place for contact and interaction but merely for (actual or potential) violence that must be watched and defended. As McLuhan warned, and feared, the global village threatens to become a permanent battlefield, a ground for clashes rather than exchanges. On this architects, and even more urban planners, are called to act so that the new spaces now emerging in front of us acquire porous borders enabling the multiplication of differences and avoid becoming resistant to the penetration of any heterogeneous element.