Emanuele Piccardo_Biennale luci e ombre
Padiglione Italia
Mai come quest’anno la crisi della politica culturale del belpaese è stata così evidente. Un esempio significativo è la cura del padiglione Italia all’Arsenale a Vittorio Sgarbi che ha invitato intellettuali bipartisan a selezionare, si fa per dire, gli artisti del padiglione. Il risultato è sconcertante e umiliante. Ma partiamo dal titolo “L’arte non è cosa nostra” risulta quanto più veritiero se riferito al curatore e alle modalità con le quali ha ricevuto l’incarico: l’imposizione del ministro. Uno spettacolo indecoroso che fa precipitare l’arte contemporanea italiana al livello di paesi in cui non vi è storia. Sgarbi ha costruito un gigantesco baraccone da luna park, fatto di quadri e presuntuose pseudo installazioni più simile ai mercatini dei pittori domenicali che ad un’esposizione internazionale. Unica eccezione la sezione dedicata alla fotografia italiana, curata dallo storico della fotografia Italo Zannier, relegata però in uno spazio stretto e dal quale non si ha la percezione ottimale delle ricerche dei fotografi invitati. Tra di essi unica nota di attenzione è il lavoro di Guido Guidi sulla Tomba Brion, opera dell’architetto Carlo Scarpa, che avrebbe meritato la sezione internazionale. Magra consolazione per un Padiglione Italia sempre inadeguato a rappresentare il contemporaneo in arte e in architettura.
Padiglione Italia,lo spazio esiguo dedicato alla fotografia
Le colpe sono equamente suddivise tra il committente, ovvero il Ministero dei Beni Culturali, il curatore e il sistema dell’arte italiana. Da una parte c’è una inadeguatezza della politica nella gestione della cultura, arte compresa, che spiega il coinvolgimento di tuttologi alla Sgarbi, liberi di imporre il proprio pensiero devastando la seppur fragile immagine degli artisti nostrani. Dall’altra il sistema dell’arte non ha mai espresso una forte opposizione alla Biennale decidendo di non partecipare fatto salvo per alcuni artisti tra i quali Luca Vitone che figurava tra gli invitati senza esserne informato. Come l’artista Rossella Biscotti che ha rifiutato la partecipazione al Padiglione Italiano della Biennale di Venezia, un’operazione populista volta a rappresentare il nostro governo berlusconiano, lanciando anche un appello agli artisti, attraverso le pagine di Facebook, a rinunciare a partecipare al padiglione italiano
Siamo in Italia dove la cultura non è al centro dell’agenda politica di nessuna parte destra, sinistra, centro ma viene sviluppata da ricchi collezionisti come il francese Pinault, la torinese Sandretto, i milanesi Prada e Trussardi e qualche sparuto museo pubblico come nei casi di Rivoli e Museo Pecci che hanno rappresentato l’avanguardia museale italiana del contemporaneo e i neonati MAXXI, e MACRO che dovrebbero rappresentare il futuro; unici musei in grado di concorrere con i grandi centri internazionali di cultura. Come per tutte le altre discipline artistiche quali architettura, fotografia e cinema non vi è sostegno dalle istituzioni che non fanno massa critica per incentivare le produzioni culturali ed i giovani autori sia nella dimensione locale che internazionale.
Cosa ci possiamo aspettare da una Biennale che vuole trarre linfa dal passato, esponendo i quadri del Tintoretto, come esaltazione dello spettacolo, a cui gli artisti tentano, nelle parole della curatrice, la svizzera Bice Curiger, di relazionarsi rimanendo però pesantemente schiacciati? Nonostante le buone intenzioni e il titolo sempre accattivante “Illuminazioni” non si riesce a scorgere la luce nei lavori presentati. Uniche eccezioni i grandi classici come il sempre straordinario James Turrell, delicato nel costruire spazialità con la luce, il fotografo Luigi Ghirri con le sue poetiche visioni, lo spazio elastico dello storicizzato Gianni Colombo. Un lavoro interessante lo propone l’artista francese Cyprien Gaillard dove esplora il collage di fotografie e cartoline unite da marchi adesivi di brand commerciali, tra memoria e contemporaneo. E ancora una volta la provocazione estrema di Cattelan con l’installazione di duemila piccioni imbalsamati che guardano dall’alto i visitatori del Padiglione centrale ai Giardini. Il resto è un corpus di lavori e ricerche deboli, deja vu, che hanno bisogno della didascalia per essere compresi.
Maurizio Cattelan
L’incapacità di cambiare il display espositivo rimane il grande limite di Venezia, che non riesce ad imparare da altre grandi manifestazioni come Documenta nel costruire un palinsesto tematico e politico funzionale alla società e alle sue repentine trasformazioni. Questa Biennale con poche luci e molte ombre appare astratta da ciò che accade nel mondo devastato dalle guerre e dalle migrazioni forzate. L’arte ha sempre anticipato il futuro e discusso criticamente il presente. Un’arte dove il progetto politico non è centrale non serve alla società. Più volte, riferendomi alla biennale di architettura, ho auspicato una trasformazione dell’evento in fiera più realistica ed efficace anche per le gallerie e gli artisti; ciò rimane valido anche nel 2011. Occorre ripensare la formula affinché la Biennale possa essere quel luogo dove presentare le vere sperimentazioni che sono, invece, sempre più scarse. Pensare ad un nuovo progetto culturale che sappia interpretare la società coniugando il consenso popolare con la qualità delle opere. Ma forse è una richiesta troppo estrema.