Alessandro Lanzetta_Macro&Maxxi
Come uno scherzo del destino, negli stessi giorni in cui si hanno notizie dei drastici tagli alla cultura italiana attuati dal governo Berlusconi, si inaugurano ben due musei di Arte Contemporanea a Roma. La stessa città, che vivacchia addormentata e ripiegata su se stessa da molto tempo, sembra incredibilmente diventare la capitale dell’arte contemporanea mondiale. Ciò accade con due architetture moderne dure, senza sconti né compromessi formali tipici dell’ambiente romano, fatte per di più da architetti donne. Di questo c’è da andarne fieri, Roma si dota delle strutture adeguate al suo ruolo di doppia capitale, aumentando e diversificando l’offerta culturale che finalmente abbraccia senza riserve la contemporaneità.
Fatte queste giuste e non scontate considerazioni, rimane qualche timore sulla gestione degli eventi che una così alta quantità di spazi di pregio comporta: se aggiungiamo ai due nuovi edifici la Gnam, gli spazi museali dell’Ara Pacis, il rinnovato Palazzo delle Esposizioni e tutte le iniziative private e semi pubbliche sorte negli ultimi anni (il Vittoriano, le varie fondazioni lungo Via del corso, il Chiostro del Bramante…) si rischia un’inflazione di arte moderna e contemporanea. E’ un dolce rischio che vale sicuramente la pena correre. Quello che va discusso fino in fondo è la qualità architettonica dei nuovi musei romani e la politica culturale che li ha espressi. Sul Maxxi c’è poco da dire, può anche non piacere, ma è una grande prova di architettura. Un’opera d’arte bella, forte, magistralmente disegnata e incredibilmente ben eseguita, con una concezione spaziale innovativa chiara e potente che trasmette pienamente la poetica progettuale di Zaha Hadid. Una cosa non da poco per questa città, che negli ultimi anni ha prodotto spesso architetture stravolte dai compromessi e corse al ribasso, ben al di sotto delle possibilità espressive e costruttive dei pur bravi architetti che le hanno firmate. Finalmente la capitale ha un’opera che sta al passo della sua pesante tradizione, qualcosa che la colloca alla pari delle altre capitali della cultura mondiale, nell’arte e nell’architettura contemporanea.
Per il Macro, invece, il discorso è più complesso, e qui si evidenziano tutte le perplessità espresse sopra; addirittura non sembra troppo eccessivo chiedersi come e perché si sia arrivati a realizzare un edificio siffatto. Ovviamente è ingeneroso paragonarlo al Maxxi, che è l’espressione di un importante sforzo nazionale, con capitali assai più ingenti, e tuttavia le architetture non si possono misurare con i budget. Non si apprezzano solo per le dimensioni e la ricchezza, ma per quello che comunicano con la loro funzione e con il loro linguaggio, nel contesto culturale e materiale che le produce. Macro è il risultato del quindicennio di amministrazioni di centro sinistra della città il cui esito è deludente.
Al contrario il Maxxi ci mostra che una scommessa enorme, quasi arrogante per la sua grandiosità, si può vincere persino a Roma, se si sceglie un progetto figlio di una ricerca artistica matura e compiuta. Il Macro invece indica chiaramente i rischi che si corrono aggiudicando un concorso di architettura seguendo le mode del momento, con un’operazione molto simile all’importare le varie « nuit blanche », « paris plage»…
Infatti, l’impressione che si ha entrando nei nuovissimi spazi di via Nizza è vedere uno spazio già vecchio. L’edificio sembra già consumato, una moda che poteva affascinare negli anni Novanta perché “esotica”, ma che non resiste al terribile destino delle architetture italiane che sono realizzate in tempi biblici. Un’ architettura, figlia della prima ondata della rappresentazione digitale, che non solo creava perplessità all’epoca – non sembrava l’opera migliore delle cinque finaliste del concorso- ma che, realizzata, mostra tutti i limiti di quel periodo e di quel linguaggio effimero.
Quello che rimane impresso dopo la visita è un percorso ipogeo gotico, completamente nero, frantumato da un bel sasso rosso che però non comunica il motivo della sua esistenza. Un museo indifferente al suo ruolo istituzionale, poco allestibile, simile ad un’architettura del consumo di media qualità.Uno spazio che cerca di sfuggire a questo palese gusto commerciale attraverso banali geometrie bizzarre, ribadite fin nei banconi del bar. Irregolarità portate senza un reale motivo dentro le sale espositive, e che creeranno sicuramente molti problemi ai futuri curatori e allestitori.
E ancora più impressionante è il tetto, che doveva essere uno spazio urbano per i cittadini del quartiere, invece è cupo come l’interno, pieno di aguzze vetrate, scure ed irregolari, urla a tutto il quartiere la sua totale estraneità. Una completa alterità che ha addirittura bisogno di colorare di nero la preesistenza della fabbrica Peroni, un elemento grottesco ed inquietante che riporta tutto l’edificio all’immagine di partenza: un render postmoderno fine anni novanta, molto glamour e poco credibile.
È tuttavia molto interessante visitare nello stesso giorno i due edifici, e confrontare il lavoro di Odile Decq con quello di Zaha Hadid. Percorrendoli sembra quasi di stare altrove, in una di quelle opulente capitali europee dove le molteplici occasioni per la cultura e l’architettura contemporanea non fanno pesare gli inevitabili passi falsi. Ma a Roma, Italia, negli stessi giorni in cui si tagliano del cinquanta per cento i fondi statali alla cultura, fa invece una certa impressione.