Francesco Ranieri_Mutazioni tra architettura e urbanistica
Aldo Rossi, La città analoga, Biennale di Venezia 1976
Se diamo uno sguardo ad un passato non troppo remoto, la parola d’ordine riguardo allo sviluppo delle nostre città era “costruire”, non importa come, né dove e in che modalità, l’importante era costruire. Costruire case, negozi, attività commerciali, residence e quant’altro, non tenendo minimamente in considerazione due fattori che divengono fondamentali nella prospettiva di sviluppo futuro: la salvaguardia del nostro benessere e il consumo di suolo, oramai divenuto oggetto di numerosi interventi in ambiti più o meno interagenti tra di loro, al fine di tutelare il suolo stesso.
La “politica” del “laissez-faire” oggi come oggi diviene pratica assai controversa nella situazione italiana, deleteria per il rinnovamento funzionale e strutturale delle nostre città, nonché per quegli standard di benessere che ci permettono di condurre una vita sociale “sana”.
Patrick Geddes in uno dei suoi numerosi scritti cita i termini “semi slum, slum, super slum”, facendo riferimento a quella condizione per la quale si sono formate città che non corrispondono al senso “funzionale” del termine, ma puramente a quello materiale: aggregati di edifici pubblici e privati che generano degrado e stress perché privi di un assetto organico atto allo sviluppo e all’evoluzione dei suoi abitanti.
Oggi come oggi non possiamo più permetterci di continuare questa politica egoista, basata solamente sul profitto materiale e quindi sulla produzione, servono figure nuove, che abbiano ben chiaro il significato e lo scopo di un nucleo urbano. Servono attori che governino il territorio cercando di operare essenzialmente su due filoni: la tutela e il riassetto dell’esistente e la progettazione responsabile dello sviluppo delle città che andranno a formarsi e ad evolversi.
Tali attori dovranno essere i protagonisti di scelte spesso difficili e talvolta drastiche, privilegiando quello che è il fondamento stesso dei primi nuclei urbani: la socialità, l’istituzione di rapporti intersoggettivi tra persone e artefatti da esse create. Personalmente attribuisco queste capacità di scelta e “comprensione” del territorio alle figure dell’urbanista e dell’architetto, che dovranno quindi saper esprimersi e saper giudicare nonché determinare il futuro stesso delle attività atte allo sviluppo di quel “turbine” di azioni-reazioni che è il continuo convergere e scambiarsi informazioni atte a sviluppare la stessa vita sociale dei cittadini.
Non si tratta di governare il territorio dal punto di vista puramente materiale, serve una figura nuova che vada oltre, che recuperi l’essenza del “vivere comune”.
Credo che in Italia questa figura attualmente manchi, a differenza di altre realtà europee che hanno già adottato da diversi anni scelte di tipo “funzionale” più che “commerciale”.
La tutela del paesaggio non è cosa da poco e va necessariamente studiata ed elaborata, cogliendone i fattori positivi e negativi, al fine di improntare una nuova pianificazione che tenga conto in primis del fabbisogno “intrinseco” del cittadino, che non è certamente quello di essere soffocato dal cemento, ma quello di vivere nel progresso in modo etico e responsabile verso di se e verso l’ambiente che lo circonda, al fine di ottimizzare la condizione di benessere e lo stile di vita che oggi appare “mediocre” e “asettico”, proprio per la mancanza di una vera e propria identità del contesto dove noi abitiamo e svolgiamo ogni giorno le nostre funzioni.
Iniziamo dunque a ripensare le città e il modo di governare il territorio che la circonda, solamente adottando questa “chiave di lettura” riusciremo a pianificare un futuro migliore per noi, i nostri figli e le nostre città.