Giacinto Cerviere_L’isola delle rose
Quando alla fine degli anni Sessanta i nuovi temi sul futuro della città e dell’architettura scuotevano in Italia le riviste, le università, perfino le Triennali, per allinearsi e cercare di superare le sperimentazioni utopistiche provenienti dai paesi iperurbanizzati e sovrappopolati del Primo Mondo, parallelamente a ciò che emerse dalle battaglie culturali di De Carlo oramai lontano dai CIAM e dall’attivismo eterodosso dei gruppi radicali fiorentini, si verificò un importante avvenimento al largo di Rimini, in Adriatico, a dodici chilometri dalla costa, che suscitò molta curiosità nell’opinione pubblica nazionale e di cui molto presto si smarrì il ricordo.
Un anarchico ingegnere bolognese tuttora vivente, Giorgio Rosa, un tecnologo distante da tutti i circuiti artistici d’avanguardia dell’epoca, rese concreta applicazione di un’idea rivoluzionaria sorprendente quanto impossibile: costruire un’architettura non assoggettata alla giurisdizione italiana, appena in acque internazionali, che prese le fattezze di una vera e propria micro-nazione divenuta nota come L’Isola delle Rose. La sua indipendenza, seppure durò pochi giorni, simboleggiò il desiderio di una generazione di considerarsi di fatto libera di disegnare la propria idea del mondo, di sentirsi spiritualmente simile a quella singolare e acerba architettura post-territoriale sfuggita al controllo statale. L’Ingegnere Rosa già dal 1958 sperimentò in mare aperto un innovativo tipo di struttura galleggiante in acciaio tubolare che potesse resistere alla forza delle onde. Tramite la sua società SPIC (Società Sperimentale per Iniezioni di Cemento) iniziò le ispezioni dei fondali. Mise così a punto un brevetto che nel 1968 si materializzò con i lineamenti di una spartana piattaforma di calcestruzzo armato e acciaio di 20×20 metri, sospesa a otto metri dal livello marino, sostenuta da nove pali cavi di 630 millimetri conficcati per quaranta metri di profondità.
Fu prevista un’elevazione di cinque piani, così da mettere in piedi anche un ristorante e un albergo, oltre che la lottizzazione di una parte del manufatto per consentire ad altri di aprire negozi, ma di impalcati ne saranno costruiti soltanto due di 400 metri quadrati ognuno. La perizia dell’ingegnere Giuseppe Lombi dichiarò che quella struttura avrebbe potuto sopportare fino a cinquanta piani. La piattaforma fu fissata in prossimità di Torre Pedrera dove l’ingenere Rosa trovò una falda di acqua dolce, più o meno dove oggi si situano le piattaforme metanifere dell’Agip, posizione ora riportata anche su Google Maps. Certo, L’Isola delle Rose sorse per creare non soltanto un’oasi artificiale in Adriatico, a due passi dalla riviera romagnola, dove il suo fondatore poeticamente desiderava “veder fiorire le rose sul mare”, come fece scrivere sul motto della “Repubblica esperantista de la Insulo de la Rozoj”, così da dimostrare le intenzioni pacifiche del nuovo Stato, ma anche nuove forme di commercio libero dalle imposizioni fiscali e dalla burocrazia.
Un po’ tutti erano invogliati ad attraccarvi per acquistare souvenir e a bere qualcosa al bar, osservando le navi che viaggiavano anche a cinquanta metri di distanza da quel curioso luogo: dagli intellettuali locali ai playboy accorti; dai borghesi alla ricerca di emozioni forti ai turisti; dai consumatori di sigarette e alcolici a chi voleva rifornirsi di benzina senza versare accise all’Italia. Si racconta che perfino politici, magistrati e agenti segreti frequentassero l’Isola. Rosa tenne sempre a precisare che non cedette alle tante offerte indecenti che gli arrivarono, come quelle riguardanti l’installazione di basi spionistiche, radio pirate o night club. Il 24 giugno del ’68, un mese dopo che a Milano la protesta degli studenti e degli artisti devastò le installazioni alla XIV Triennale dedicata al Grande numero, risvegliati dai pensieri torpidi a cui li aveva appiattiti una cultura massificatrice internazionale che non lasciava nessuno spazio all’idea di autonomia territoriale e di isolamento spaziale dell’individuo, si tenne una conferenza stampa sull’Isola e si issò la bandiera del nuovo Stato.
Presto venne aperto un ufficio postale e stampati finanche i francobolli che andarono immediatamente a ruba (si narra che perfino l’ambasciata americana a Parigi ne chiese degli esemplari e che tuttora la Regina d’Inghilterra ne collezioni un pezzo). Si adottò il sistema monetario Mills. Si scelse come lingua ufficiale l’Esperanto su consiglio del padre francescano riminese Albino Ciccanti. Giornali di mezzo mondo e gli italiani Il Messaggero e Panorama, ma anche i meno compassati rotocalchi Sorrisi e Canzoni ed Epoca, si interessarono all’insolito caso scoprendo che l’ingegner Rosa aveva fatto tutto sul serio dilapidandosi cento milioni di lire per quell’impresa “folle” e, soprattutto, seguendo le leggi vigenti. Qualche interrogazione parlamentare iniziò ad informare il Governo per porre fine alla cosa. I Servizi gli misero sotto controllo il telefono. Il professor Angelo Sereni, docente di diritto internazionale alla Hopkins University di Baltimora, disse a Rosa che era possibile la nascita di una struttura non soggetta a dogana in acque internazionali, quindi di fatto di un nuovo Stato, ma a patto che le merci si importassero solamente. Facendo il contrario si sarebbe generato contrabbando. Non fu però dello stesso avviso il governo italiano. Il 25 giugno le motovedette della Guardia di finanza iniziarono così ad interrompere il già significativo flusso di traffico bloccando le imbarcazioni dirette sulla piattaforma. Seguì l’accerchiamento e l’assalto alla costruzione di Polizia e Carabinieri, che peraltro non usarono violenza e non contestarono agli abitanti reati, illeciti o violazioni, mentre la neonata autorità dell’Isola delle Rose mandava a Roma un ultimo appello al presidente della Repubblica Giuseppe Saragat affichè l’Italia cessasse l’invasione.
La Capitaneria di Porto di Rimini notificò così alla SPIC un ordine di demolizione dell’opera. La società presentò immediatamente ma senza successo un ricorso al Consiglio di Stato. Il 22 gennaio 1969 la Marina militare piazza 120 chili di esplosivo per far saltare in aria la repubblica indipendente. Il parallelepipedo corpo abitativo, retto benissimo dalla rigida struttura tubolare portante, si deforma ma non cede. Pochi giorni dopo una burrasca termina il lavoro di abbattimento. Un anno fa l’ingegnere Rosa dichiarò al Corriere di Romagna che a boicottare la sua creatura furono la Chiesa, la Democrazia Cristiana e anche i comunisti, concludendo amaro con una considerazione scioccante: “se avessi chiesto l’aiuto della Mafia o della Massoneria l’Isola delle Rose sarebbe ancora lì”.
Certe architetture per la loro audacia hanno un destino ineluttabile: se l’Isola delle Rose non fosse scampata negli anni Sessanta alla soppressione statale italiana, voluta di fatto dal ministro dell’Interno Taviani, oggi non sarebbe sopravvissuta alla facile retorica demolitrice dei contemporanei movimenti ambientalisti, che nel migliore dei casi l’avrebbero con leggerezza liquidata come “bruttura” ideologica. Il suo brevetto consentì all’ingegnere bolognese di ottenere quanche piccolo successo professionale, come la progettazione di un trampolino per tuffi al largo della Tunisia e un albergo in Veneto. Il creatore dell’Atlantide degli esperantisti si occupò perfino di concepire seppure in embrione utopiche mega-opere di ingegneria come una enorme versione della sua prima piattaforma, su cui potessero atterrare anche gli aerei, o la creazione di una immensa diga in grado di abbassare le acque dell’Adriatico così da recuperare nuove terre coltivabili alla stregua di quanto fece prima di lui Herman Sörgel col progetto Atlantropa.
Il mito e il ricordo di questa piccolissima nazione si è amplificato dopo quarant’anni dalla sua scomparsa e la caccia ai ritrovamenti dei resti si è fatta più intensa tanto che lo scorso luglio sono stati confermati rinvenimenti da un club subacqueo riminese che sta già organizzato visite guidate. L’Isola delle Rose è entrata a pieno titolo a far parte di una cultura della micro-utopia possibile, immortalata perfino in testi teatrali e documentari cinematografici come quello recentemente prodotto dalla casa riminese Cinematica. E’ stata oggetto nel 2008 di un’installazione al museo di Vancouver e ha ispirato un episodio del fumetto di fantascienza Martin Mistère oltre che, probabilmente, la verde isola galleggiante di Robert Smithson.
L’articolo è stato gentilmente concesso dall’autore e da Abitare