Luigi Manzione_Musica come spazio abitabile
L’apertura verso altri discorsi e altre pratiche feconda il lavoro dell’architetto, suscitando nuovi interrogativi e direzioni di ricerca. Non è facile per lui parlare dei rapporti con le discipline e i saperi che circondano la propria pratica artistica. Ancora più difficile è discutere della relazione tra architettura e musica, se si vuole uscire dai recinti rassicuranti delle partizioni storiche, delle tipologie, dei domini puramente tecnici (o tecnologici). Se si vuole, insomma, abbandonare il campo di certe convenzioni per cogliere il senso e le ragioni del progetto e della costruzione. È questa riflessione che vorrei svolgere qui, senza alcuna pretesa di sistematicità, assecondando il flusso di un “pensiero del frammento” come quello che dà vita al Prometeo di Luigi Nono.
Sulla labile linea di confine tra autonomia ed eteronomia si pone, per l’architettura, la questione della pluridisciplinarità (e della transdisciplinarità). In questa prospettiva appare in tutto il suo interesse lo studio delle “spazio musicale” progettato tra il 1983 ed il 1984 da Renzo Piano per il Prometeo.
Senza addentrarmi nella costruzione teorico-filosofica e nella composizione musicale dell’opera, focalizzerò i temi dello spazio, del luogo, dello sguardo. Non mi limiterò, però, ad osservare questo “spazio musicale” nella sua consistenza materica e nel suo progetto tecnico, ma cercherò di collocarlo nel lavoro complessivo da cui ha avuto origine. Lavoro appunto pluridisciplinare, condotto da una équipe di notevole spessore: Massimo Cacciari per i testi, Claudio Abbado per la direzione, Renzo Piano per lo “spazio musicale”, Emilio Vedova per gli “interventi luce”, Hans-Peter Haller per la regia del suono. Da questo lavoro derivano, come vedremo, convergenze e sconfinamenti nei quali prende corpo una singolare esperienza di frontiera.
L’ascolto come tema: abitare la musica, accordare lo spazio.
“Tragedia composta – nelle parole dell’autore – di suoni, con la complicità di uno spazio, senza alcuna facilitazione scenica o visuale” il Prometeo propone come tema dominante l’ascolto. La rottura con la tradizione consumata dalla “tragedia dell’ascolto” è liberazione dalle “catene idolatriche” dell’immagine, del discorso, del racconto, dell’intrigo nelle sue sequenze causali e temporali, secondo una linea di pensiero che si richiama a Michel Foucault e a Jacques Derrida. Ciò che resta è il suono, e l’ascolto così liberato. “Occorreva – scrive Cacciari – un luogo per questo ascolto. Uno strumento che lo rendesse possibile, (…) che ‘liberasse’ l’ascolto da quella servitù al ‘vedere’ (alla dimensione ottico-aptica) che domina nelle sale e nei teatri d’opera normali. Uno strumento, da cui il suono non fugge via, ma in cui possa abitare.”
Questo luogo-strumento è lo “spazio musicale” realizzato da Renzo Piano per il Prometeo. Seguendone il percorso progettuale, ci accorgiamo che l’ascolto non è un tema esclusivamente musicale, ma anche architettonico. L’attenzione verso lo spazio, il tempo, la memoria è – per l’architetto – ascolto di un luogo specifico per modificarlo, per imprimere nuovi segni su un palinsesto che il passato e il futuro si contendono incessantemente. Quello pensato per le esecuzioni veneziane del Prometeo del settembre 1984 nella chiesa di San Lorenzo è uno spazio nato con l’opera e per l’opera. Nelle intenzioni di Nono è una non-scenografia, un dispositivo che, superando l’inadeguatezza del teatro d’opera tradizionale, deve costruirsi in base ad una logica propria alla musica stessa: a quella musica specifica per quel luogo specifico. La scelta di Piano da parte di Nono mi sembra perciò esemplare, almeno per due ragioni. In primo luogo, perché l’architetto, consapevole dell’assoluta centralità dell’ascolto, sceglie con coerenza la strada della “modestia”, evitando ogni protagonismo e lavorando in perfetta sinergia con gli altri membri dell’équipe. In secondo luogo, perché Piano sembra capace più di ogni altro di spazializzare l’intento che anima Nono al momento della composizione del Prometeo: superare una visione totalizzante del mondo, porsi fuori dagli ultimi “grands récits” di lyotardiana memoria, senza derive storiciste.
Chiamare Piano significava allora scegliere un’architettura a suo modo debole, non allineata ad alcuna mitologia (moderna o postmoderna che fosse). Distante da furori ideologici – se si intendono certe sue opere, e tra queste il Centre Pompidou a Parigi, nella loro autonomia rispetto alle tendenze dominanti dell’architettura dell’epoca – Piano incarna la figura del “costruttore” e dell’anti-teorico per eccellenza. Egli declina nella specificità del suo lavoro la direzione di ricerca seguita a partire dal 1978 da Nono, sollecitato da Cacciari: anzitutto l’idea che, per dirla con Jurg Stenzl, la verità non può che essere ormai “incertezza, ricerca, frammento”.
È Nono stesso, con Cacciari, a tracciare l’ambito entro il quale dovrà inscriversi la progettazione dello “spazio musicale” per il Prometeo. Esso deve essere “strumento”, “pietra che canta” – Goethe definiva, specularmente, l’architettura come “musica pietrificata” – elemento integrante dell’evento musicale capace di inverare la “possibilità di un nuovo spazio della musica stessa”. Una forte attenzione verso il tema dello spazio si coniuga, nella concezione dell’opus, ad un vivo interesse verso l’ascolto. Il Prometeo si genera progressivamente intorno ad una serie di trapassi e di opposizioni. Il passaggio decisivo è dall’idea iniziale di una “integrazione delle arti” alla “tragedia dell’ascolto”. Qui l’immagine e il testo – in quanto segni – si oppongono al suono, alla musica come “phenomenon”; e l’ascolto fronteggia lo sguardo come dimensione propria del visivo (inteso come figurativo). In reazione ad una idea di spazio come forma pura, a priori, emerge l’intento di restituire lo spazio stesso alla dimensione dell’ascolto, di questo ascolto che deve aver luogo nel San Lorenzo a Venezia. Occorre depurare dunque l’opera di ogni apparenza figurativa, lasciando affiorare in tutta la sua pienezza l’”invisibile del suono”.
Come si traduce questa opposizione costitutiva tra rappresentazione e astrazione nel contesto concreto dell’opera? Per cercare di sciogliere il nodo, dobbiamo risalire alla metafora essenziale strutturante il Prometeo: quella dell’arcipelago. Non è un caso che si tratti di una metafora ancora di tipo spaziale. Cacciari concepisce l’opera come un arcipelago formato da cinque isole non identificabili fisicamente, ma “aeree”. Isole anch’esse ancora metaforiche, quali concetti, allegorie, emozioni che si illuminano nella reciproca interdipendenza, così da portare in superficie “infiniti possibili” percorsi di conoscenza e di esperienza. Sarà una “mappa” ad indicare la rete che connette le isole, ed il testo sarà costituito da un insieme di citazioni. Lo spettatore (o, meglio, l’ascoltatore) sarà quindi indotto a navigare ai confini del suono e del silenzio, e la sua navigazione immaginaria non potrà che avvenire, come vedremo, per mezzo di un’arca. Enunciato in tali termini il piano dell’opera, sembra che il lavoro progettuale di Renzo Piano abbia già delineati davanti a sé con chiarezza i principali caposaldi.
Come le citazioni – unità minime della costruzione testuale – sono, secondo Cacciari, “dis-locuzioni”, le isole – unità minime della costruzione spaziale – appaiono, a mio avviso, come “dis-locazioni”, punti singolari della più grande “isola delle isole” che è l’arcipelago, dove l’arca naviga esplorando le frontiere della percezione possibile e, nel contempo, “suona” lo spazio musicale delle isole stesse – “espaces acoustiques différenciés”, secondo Jurg Stenzl – tra i quali l’esperienza acustica si associa in forma problematica a quella visiva. Stante la sovrapponibilità delle dimensioni testuale e spaziale del Prometeo, la citazione dell’arca come spazio sonoro gioca anche il ruolo di “dis-locuzione”.
Nel suo riferirsi, nelle forme spaziali, alla chiglia di una nave e, insieme, alla sagoma di un liuto, quella citazione può essere letta come un ritorno all’origine stessa dell’“invisibibile del suono”, origine intesa come “dimensione di silenzio da cui si produce ogni parola, ogni suono, ogni senso” (Cacciari).
La metafora del liuto – ancora un’immagine che sfugge al bando programmaticamente enunciato da Nono e da Cacciari – costituisce letterale traduzione dell’idea di musica come “spazio abitabile” e del suo corollario: l’architettura come strumento musicale. Queste metafore richiedono al progetto architettonico di farsi carico di un sostanziale nascondimento; richiedono una estrema modestia da parte dell’architetto. Anche per Renzo Piano, che della modestia ha fatto una delle qualità chiave del suo lavoro, è stato difficile riuscire in una impresa che, a rigore, avrebbe condotto alla vera e propria scomparsa dell’oggetto architettonico convenzionalmente inteso.
Nelle sue estreme conseguenze, la “tragedia dell’ascolto” avrebbe comportato la scomparsa della scena, anche di quella costituita dai musicisti in movimento lungo le pareti dell’arca; e la stessa arca avrebbe dovuto essere celata alla vista dello spettatore, che sarebbe quindi diventato puro ascoltatore. Occultare la scena, negare l’immagine alla radice avrebbe reso la fruizione del Prometeo un’esperienza di completa radicalità ed eversione. L’itineranza della scena, il muoversi dei solisti e dei cantanti intorno al pubblico permangono, nell’opera di Nono, ancora come tracce: non di moderazione, ma piuttosto di realtà. Voluto dall’autore, quel movimento si pone – come nota Michele Girardi – come simbolo del rapporto tra l’ordine della costruzione ed il caos del movimento stesso. Tale rapporto rimanda peraltro, a mio modo di vedere, alla relazione tra il progetto architettonico e la sua realizzazione, al nesso tra un “sapere” e un “saper-fare” che mette in gioco la componente decisiva dell’improvvisazione. L’improvvisazione, un altro punto di contatto tra musica e architettura…
Lo spazio letto dal suono, il suono disvelato dallo spazio.
“Ascoltami poi: / navi non spingere / nei gorghi del Ponto, / quando cadono le Pleiadi / fuggendo la furia selvaggia di Orione. / Tirale a secco / Fa nella chiglia un foro / perché non marcisca alla pioggia / E ATTENDI.”
(Prometeo, Quarta isola, “I Nomi”)
All’inizio, Piano raccoglie le indicazioni di Nono e di Cacciari, immaginando uno “spazio musicale” – arca e liuto insieme – che naviga nell’arcipelago-Prometeo, dove le isole sono sospese negli spazi e nelle cantorie di San Lorenzo, mentre una rotta luminosa viene proiettata sulle pareti e sul pubblico, come nelle mappe del XV-XVI secolo. Lo spazio è l’elemento decisivo sul quale opera Nono nella ricerca del Prometeo. Le metafore spaziali sono numerose e confermano – pure in senso letterale – il fatto che, come sostiene Akira Asada, “Nono’s music is possessed of a deep spatial sense, and that spatiality is if anything intensive rather than extensive”. Quello spazio vive, tuttavia, in una continua tensione tra evocazione e occultamento.
La condizione dell’ascolto, anche come lettura e disvelamento, è costitutiva della elaborazione del Prometeo. Luigi Nono considera essenziale la relazione tra suono e spazio. “(…) come il suono si compone con altri suoni nello spazio; come quelli si ri-compongono in questo… Il che significa: come il suono legge lo spazio, e come lo spazio scopre, svela il suono”. La riproduzione standardizzata dell’esperienza musicale nelle sale da concerto e nei teatri tradizionali ha suscitato, secondo lui, la rimozione della spazialità propria dei luoghi dell’ascolto, incoraggiando la supremazia del vedere.
In questa prospettiva, l’invenzione del teatro moderno rientra anch’essa tra quelle che Foucault definiva “hétérotopies” – l’ospedale, l’ospizio, il carcere (o anche il Panopticon di Bentham) – che sanciscono il dominio dello sguardo. Cacciari precisa che nelle eterotopie destinate all’ascolto musicale “la concentrazione e l’omogeneizzazione dello spazio, la perdita della multispazialità possibile del fatto musicale si saldano strettamente alla riduzione netta della possibile polivocità, multivocità dei ‘sensi’ d’ascolto: in tale costruzione incrociata, ascolto e spazio dell’ascolto vengono concepiti, risaputi insieme”.
Ora, è proprio la multispazialità del suono e multivocità dell’ascolto che il Prometeo intende recuperare. In che modo? Non mediante operazioni astratte, ma procedendo dalla concretezza del luogo dell’ascolto. Per far ciò è necessario anzitutto appropriarsi dello spazio reale dell’opera, del luogo in cui questa si dà. Non è chiaro perché Nono abbia scelto la chiesa di San Lorenzo; nessuna testimonianza precisa sembra sussistere al riguardo, ma si sa, invece, che nell’idea originaria il Prometeo doveva essere eseguito nella basilica di San Marco. Nono richiama le ricerche di Giovanni Gabrieli e di Adrian Willaert per una scrittura musicale pensata ad “altezze variabili” e per geometrie specifiche di luoghi concreti, citando peraltro un’opera come i Mottetti per due cori di Johann Sebastian Bach, composta per la Thomas-Kirche di Lipsia, in funzione della conformazione spaziale e della geometria di quella chiesa. Il Prometeo è concepito dunque in relazione alla chiesa di San Lorenzo a Venezia. Nono testimonia della sua ricerca: “La mia condizione attuale che attende al Prometeo è appunto la condizione di chi sta nell’interrogazione: ‘Come realizzare in San Lorenzo gli infiniti possibili di San Lorenzo: quei possibili che sono appunto irrealizzabili…?’ (…) D’altra parte, l’eventuale dell’opus (…) quel ‘compossibile’ (…), quella compartecipazione nel silenzio… è già aperto qui e ora! San Lorenzo ha porte e finestre nette e aperte…”.
Che l’ascolto sia un’attitudine comune alla musica e all’architettura è circostanza ritrovabile anche nella elaborazione del Prometeo: come attenzione allo spazio proprio del suono, ma anche al luogo e alla città. Una strategia dell’ascolto lega, insomma, il lavoro dei membri dell’équipe. Nono pensa Venezia come soundscape, “multiverso acustico”, avente nel San Lorenzo un punto di riflessione e di irradiazione sonora (del suono della città, dell’acqua, delle voci, delle campane). Da parte sua, Piano immagina la struttura dell’arca non senza un preciso riferimento alla iconografia del luogo. Se consideriamo, infatti, il dipinto di Gabriele Bella Vestiario di una Nobil Dama a San Lorenzo possiamo renderci conto di come l’impianto dell’arca sia già lì delineato in nuce: gli invitati occupano lo spazio centrale, mentre lungo le pareti trovano posto i cantanti e i musicisti su scanni ad altezza diversa.
Lo schizzo iniziale di Piano recupera, forse ancora in maniera inconsapevole, quella disposizione e la coniuga con l’idea dell’arca, sollevata rispetto al pavimento della chiesa.
Si può dire, in generale, che il Prometeo prende forma secondo una successione di contesti e si svolge precisamente all’interno di tale successione. Il “multiverso acustico” della città, la chiesa di San Lorenzo, l’arca, sono i contesti dai quali l’opera si costruisce e che, a loro volta, vengono modificati dall’opera stessa. Il rapporto musica-architettura si pone qui nei termini di una dialettica dei contesti che circondano lo spazio dell’opera. Se il Prometeo si rapporta nel contempo alla città e all’architettura, l’arca intrattiene invece una relazione pressoché esclusiva con il contesto architettonico di San Lorenzo. Da tale angolazione, l’arca può ben dirsi architettura della architettura (o architettura nella architettura) e non, in senso proprio, architettura della città. Essa è quindi atopica, e non solo eterotopica secondo l’accezione prima mostrata nel riferimento foucaultiano; è autorefenziale, anche se si carica di rimandi diversi (storici, geografici, figurativi).
Lo spazio come fattore compositivo, luogo di “infiniti possibili”
“Suoni architettura spazi percorsi erranti itinerari programmati e naturali, continua mobilità, mutazione e trasformazione, e puramente ‘live’”. L’arca, voluta da Nono come una “non scenografia”, è un’architettura-dispositivo pensata in funzione di un’opera-evento. Lo “spazio musicale” traduce l’idea dell’arcipelago per mezzo della collocazione al centro del pubblico, circondato da una scena musicale che non può mai essere percepita nella sua globalità attraverso lo sguardo, ma solo grazie all’ascolto. La mobilità della scena, con il movimento dei solisti e dei cantanti intorno al pubblico, su una immaginaria linea d’orizzonte dell’arcipelago, può essere colta rimanendo seduti su poltrone parzialmente ruotabili in senso orario e antiorario e basculabili avanti e indietro, in modo da poter guardare verso l’alto lo spazio scenico nel suo intero sviluppo in altezza.
L’arca è organizzata su tre livelli – tanti sono anche i livelli degli scanni che figurano nel dipinto prima citato di Gabriele Bella – con passerelle soprapposte e scale di collegamento. Le pareti sono costituite da pannelli lignei intercambiabili con moduli in tela, in maniera da bucare il perimetro in certi punti e permettere sia l’uscita del suono verso gli spazi retrostanti la chiesa, sia l’attenzione del pubblico nei confronti dei suoni esterni. La struttura è realizzata in legno lamellare: il riferimento alla chiglia di una nave e ad uno strumento musicale si manifesta proprio nella consistenza materica. Ma vi sono anche altre ragioni per questa scelta: di tipo pratico, perché il legno è facilmente ignifugabile e non produce fumi nocivi; di tipo progettuale, per la flessibilità costruttiva e la risposta acustica del materiale; di tipo simbolico, in quanto il legno è materia che evoca la continuità storica ed emotiva tra la musica contemporanea e gli strumenti del passato. Sul legno ricurvo, ricorda Piano, “il suono si apre e si sparpaglia come avviene con la luce quando incontra il cristallo”.
Abbiamo visto finora come Nono e Cacciari intendono l’arca; è adesso interessante vedere come la immagina Piano, per evidenziare le differenze tra lo sguardo rivolto dall’architetto sul proprio lavoro e quello degli ideatori del Prometeo. Piano sottolinea alcuni caratteri della struttura: l’interazione dello spazio con l’evento musicale, la modularità, la smontabilità/dislocabilità, il ruolo dei materiali, il riferimento alle tecniche della costruzione navale e dell’artigianato degli strumenti musicali. Nella sua descrizione l’arca diviene un’architettura teatrale a tutti gli effetti, reinvenzione della sala da concerti tradizionale. Il suo approccio però resta sempre contenuto nel rispetto di un ruolo che egli stesso si attribuisce come “costruttore” dell’arca. La dimensione artigianale informa tutto il suo lavoro: “La più bella avventura, per un architetto, – ha dichiarato Piano di recente – è quella di costruire una sala per concerti. Forse è ancora più bello per un liutaio costruire un violino; ma si tratta (con tutte le differenze di dimensione e di impegno) di attività molto simili. In fondo si tratta sempre di costruire strumenti per fare musica o per ascoltare musica. È il suono che comanda, è la cassa armonica che deve saper vibrare con le sue frequenze e la sua energia.”
L’invenzione di Piano non si caratterizza negli aspetti esclusivamente costruttivi. È anche al senso metaforico del frammento e del divenire che egli guarda quando immagina l’arca: “Il luogo-strumento di Prometeo appare (…) quasi una nave, non finita: una nave in cantiere, non uno spazio perfetto e irremovibile. In effetti, questo è uno dei temi del lavoro di Nono: il rapporto tra ordine e disordine, tra regola e trasgressione, tra interezza e frammentarietà. La nave è intera, perché è un unico sistema; ma è anche frammentata, perché è in costruzione. Le chiglie sono come in attesa di ricevere il fasciame, che non c’è tutto perché la nave appare ampiamente perforata, così da lasciar passare il suono, non rifletterlo immediatamente”.
La sala da concerti resta una cassa armonica destinata non a produrre il suono, ma ad accoglierlo e diffonderlo. È rilevante l’interesse di Piano verso le qualità acustiche dell’arca. Egli ha lavorato a lungo alla progettazione di spazi musicali: al momento dell’esperienza con Nono aveva difatti già realizzato l’IRCAM a Parigi (1971-77) – in collaborazione con John Cage, Pierre Boulez e Luciano Berio – e, dopo il Prometeo, sarà impegnato nella ideazione di architetture come l’Auditorium del Lingotto a Torino (1983-95), il Centro culturale “Jean-Marie Tjibaou” a Nouméa in Nuova Caledonia (1991-98), il teatro Potsdamer Platz a Berlino (1992-2000), l’Auditorium di Parma (1997-2001), l’Auditorium-parco della musica a Roma, inaugurato nel dicembre 2002. In ciascuna di queste opere Piano si è trovato a dover risolvere specifici problemi legati all’acustica, ed il progetto ne è risultato profondamente influenzato. In particolare, nei progetti del centro culturale a Nouméa e dell’auditorium di Roma, si nota un ritorno alla metafora dello strumento musicale, al lavoro artigianale del liutaio. Nel caso dell’arca per il Prometeo, Piano opera in primo luogo alla costruzione di un ambiente di ascolto virtuale, in cui gli “infiniti possibili” ricercati da Luigi Nono possano materializzarsi nei sorprendenti e inattesi spazi acustici creati nella struttura in legno, oltre che nel rapporto tra questa struttura e l’ambiente di San Lorenzo che, come rilevava il compositore, possiede peculiari qualità acustiche, che l’opera deve esplorare (e restituire).
L’arca si fa quindi il luogo proprio del Prometeo, lo spazio di un’“altra percezione possibile” secondo Nono, il quale già la definiva come un “fantastico strumento musicale ligneo”. La consonanza tra le idee di Nono e di Cacciari e la concretizzazione di Piano è di tutta evidenza. Si pensi, ad esempio, all’esito del progetto: uno spazio sonoro indeterminato che nega il “fronte a fronte” dell’opera tradizionale, privilegiando la dispersione dei suoni. Da tale punto di vista, si realizza la lettura dello spazio da parte del suono e, insieme, il disvelamento del suono da parte dello spazio. Nel Prometeo si dà pienamente la “messa in scena” della produzione sonora. Ci si può chiedere se tale messa in scena sia del tutto intenzionale. Aver eliminato, di fatto, gli elementi narrativi e visivi della tradizione è condizione necessaria, ma non ancora sufficiente, perché il suono riemerga nella sua consistenza di ascolto. È stato rilevato peraltro che la “visibilità” del suono, anche in senso tecnico (riferita ai musicisti, ai cantanti, alle macchine), costituisce ancora un elemento di disturbo nel tentativo di conseguire una sorta di “ascolto totale”.
L’abolizione del visuale – che resta incompleta nel Prometeo – trova una sua trascrizione anche nelle tavole di progetto di Renzo Piano. Nelle piante e nelle sezioni, infatti, gli spettatori seduti negli spazi definiti in rapporto alla posizione centrale dell’altare di San Lorenzo si danno le spalle, volgendo tutti lo sguardo verso il perimetro dell’arca, verso il movimento dei musicisti sulle passerelle e sulle scale, verso le luci proiettate sulle pareti. In ciò si può cogliere l’intento dissolutorio della tradizione scenico-narrativa e la tensione in direzione dell’“ascolto liberato”. Nei grafici di sezione Piano indica, con la consueta precisione, non solo gli elementi materiali del progetto – la struttura in legno lamellare con le sue costole, i teli amovibili, le scale, le passerelle, le controventature in acciaio, etc. –, ma anche gli elementi immateriali, come le direzioni della luce, del vento e del movimento dei musicisti, oltre che le sorgenti di diffusione dei flussi sonori organizzati da Hans Peter Haller. L’assenza della scena nel Prometeo non significa, tuttavia, il rifiuto dell’intento solitamente perseguito nella progettazione delle sale da concerto di avvicinare il pubblico all’orchestra. Si può dire che un ri-avvicinamento sia invece riproposto qui in maniera radicalmente nuova: è l’orchestra a muoversi intorno al pubblico e al di sopra di esso, secondo la rilettura contemporanea da parte di Nono delle ricerche di Gabrieli e di Willaert.
Altre arche, altri arcipelaghi
“MA / basta / per far SALTARE un’epoca / dal corso della storia, / un’OPERA / dal movimento delle opere, / una VITA / dalla sua epoca, / il cristallo di un MATTINO / dal ripetersi dei giorni / un VOLTO / dal lutto dei passanti / un FIATO SEGRETO / un’INTESA PROFONDA / ASCOLTALI.” (Prometeo, Secondo stasimo, “Il maestro del gioco”, XII)
Nel Prometeo è leggibile un ribaltamento della tipologia tradizionale della sala da concerti, in particolare di quella a scena centrale, proprio nel fatto che non è più l’orchestra ad essere circondata dagli spettatori (come nella Philarmonie di Berlino di Hans Scharoun del 1956-63), ma è il pubblico ad essere circondato dai musicisti. L’arca non appartiene ad alcuna delle tipologie classiche: non è del tutto frontale, né ad emiciclo, e non poteva essere diversamente, del resto, per un’opera che si poneva programmaticamente in rottura rispetto alla continuità dell’ascolto frontale e “idolatrico”. Quali sono i riferimenti dell’arca? Difficile individuarli con certezza, trattandosi di una struttura che nasce con/per il Prometo e partecipa della concezione stessa dell’opera. Nono ricordava nei suoi Frammenti di diari i progetti di Nicolas Cohin II, di Walter Gropius, di Srymon Syrkus, di Barchin e Wachtangoff, oltre che la Philarmonie di Scharoun. Riferimenti significativi, certo, ma di fatto inutilizzabili per ritracciare una genealogia dell’arca. Un più diretto riscontro può essere tentato con l’Auditorium sferico di Karl Heinz Stockhausen per l’esposizione universale di Osaka del 1970. Ma se si vuole ritrovare un esempio di collaborazione tra un musicista e un architetto è al rapporto tra Jannis Xenakis e Le Corbusier che occorre guardare, in particolare al progetto del padiglione Philips per l’esposizione universale di Bruxelles del 1958.
Il fatto che l’arca sia stata pensata specificamente per il Prometeo induce a riflettere non solo sulla difficoltà di ritrovare modelli per la sua invenzione, ma anche sulla trasmissibilità di un’esperienza progettuale e costruttiva di questo tipo. Piano è abbastanza esplicito al riguardo, e sembra negare un rapporto esclusivo dell’arca con l’opera di Nono, quando lascia intendere che la struttura è stata concepita per allestimenti anche in luoghi diversi dalla chiesa veneziana e che, pertanto, essa può sopravvivere come un “laboratorio musicale permanentemente disponibile alla sperimentazione e al lavoro creativo”. Non è contraddittorio questo proposito? Probabilmente lo è se si pensa che, in realtà, l’arca è stata utilizzata solo a Venezia e a Milano. Negli anni scorsi si è discusso del futuro della struttura, che – adesso smontata in un deposito della Brianza – potrebbe trovare a Monza una sua collocazione. Ma una riutilizzazione dell’arca in senso proprio, ossia in piena coerenza con gli intenti noniani, non potrebbe avvenire, a rigore, se non nel quadro della esecuzione del Prometeo.
Che l’arca sia stata progettata anche per essere ospitata in “contenitori” diversi dal San Lorenzo a Venezia è indubbio, ma pur sempre nel contesto dell’opera di Nono. Renzo Piano, infatti, si preoccupava già nel 1984 di assicurarne un’adeguata variabilità acustica – ottenuta mediante adattamenti nella disposizione dei pannelli amovibili –, variabilità necessaria per poter “funzionare” in ambienti diversi da quello originario. Ma allora per quali ragioni non è stata riallestita in occasione delle esecuzioni del Prometeo successive al 1985? A causa della difficoltà di trasportare e montare una struttura di quel genere in luoghi diversi come Francoforte, Parigi, Berlino, Akiyoshidai? Per i problemi di acustica legati al variare dei contenitori stessi? Anche in questo caso, dare una risposta non è facile ed occorre indagare su un ordine di questioni che si allontana, per certi versi, da considerazioni meramente pratiche.
Può aiutare a tale proposito l’esame delle rappresentazioni dell’opera fuori dai confini italiani. Mi riferirò, in particolare, alla esecuzione giapponese del 1987, basandomi sulla testimonianza dei partecipanti al Symposium Luigi Nono and Prometeo del 1998. In quella occasione venne realizzato un nuovo “spazio musicale”, il cui progetto fu affidato ad Arata Isozaki, che aveva peraltro già conosciuto Nono, in quanto entrambi membri della giuria del concorso per il Parc de la Villette a Parigi del 1983. Isozaki ricorda che fu André Richard (direttore artistico) ad avergli chiarito come interpretare le strutture spaziali nel Prometeo, illustrandogli quella che definisce “the ‘archipelago’ thesis”. Per Isozaki, “the time-space arrangement of theses ‘islands’ forms the composition of Prometeo ”. La lettura da parte dell’architetto giapponese appare quindi assumere un senso ben diverso da quello esposto da Massimo Cacciari. Isozaki “spazializza” le isole: le immagina come isole nello spazio, “islands in both the volumetric and floating sense”. L’assenza di immagine e di spazio scenico si traduce nel progetto – che Isozaki intende peraltro ancora come scenografia, “staging” – nel suo opposto, ossia in “a spatial parallel between our view of the world as archipelagos and the concretization of the performing space in archipelagos“. E si spinge anche oltre, quando sviluppa l’idea di sovrapporre l’immagine delle isole con quella del vuoto delle “stalactic cavities” di Akiyoshiday, il che, nell’ottica di una lettura del luogo mediante il suono, non è certo operazione priva di consistenza…Direi, quindi, che l’interpretazione di Isozaki si riferisca, nel complesso, all’idea iniziale del Prometeo, abbandonata nel corso della sua concezione.
Il racconto della costruzione dello “spazio musicale” giapponese dell’opera di Nono induce a riflettere su due circostanze che possono chiarire le ragioni della dismissione precoce dell’arca dopo il 1985. Da un lato, si può pensare che la soluzione di Piano non sia da considerarsi esclusiva ed obbligatoria, dal momento che Nono, delegando ad André Richard la responsabilità della direzione artistica fin dal settembre 1985, accetta altri contesti “scenici” per la sua opera. Dall’altro, permettono di ritenere che il ruolo di Renzo Piano non sia insostituibile nella ideazione complessiva, visto che in Giappone il progetto dello “spazio musicale” sarà affidato ad un altro architetto. Se questa ipotesi è plausibile, sembra si possa concludere che il Prometeo, anche nella sua costruzione spaziale, sia stato essenzialmente il prodotto della riflessione di Nono e di Cacciari. E ciò è ben visibile, ancora una volta, nel primato del suono e, sorprendentemente, del testo sul segno (inteso come unione del visivo e del figurativo). Riguardata dalla parte degli architetti, l’esperienza del Prometeo offre – a distanza di un quarto di secolo – non pochi spunti di riflessione sulla reale capacità di incidere (e di produrre discorsi) da parte dell’architettura in un contesto pluridisciplinare. Ma questo è un aspetto che và al di là delle vicende dell’arca del Prometeo…
[Luigi Manzione]
Luigi Manzione
Architetto, dottore di ricerca dell’Università di Parigi 8, ha insegnato alla École d’architecture di Parigi-La Villette. Tra le sue recenti pubblicazioni: “Image, séduction, promotion. Pour une critique architecturale au-delà du divertissement”, in Le Visiteur, n. 11, 2008, Parigi, pp. 6-18; “La Rome de Gaston Bardet. Entre urbanisme et politique: le regard d’un urbaniste français sur la capitale italienne aux années Trente du XXe siècle”, in Cybergeo. European Journal of Geography (in corso di pubblicazione).
L’articolo è la traduzione italiana di “Musique en tant qu’espace habitable. L’“arche” de Renzo Piano pour le Prometeo de Luigi Nono (1983-1984)”, testo pubblicato in Giordano Ferrari (a cura di), L’opéra éclaté. La dramaturgie musicale entre 1969 et 1984, Parigi, L’Harmattan, 2006, pp. 209-222. Le immagini sono tratte da M. Cacciari (a cura di), Verso Prometeo. Luigi Nono, cit. e dal sito http://rpbw.r.ui-pro.com.
Traduzione italiana parziale del testo originale