Fulvio Irace_Il piano casa

Eberstadt


E’ della Vodafone il miglior spot per il discusso decreto legge sulla casa che il consiglio dei ministri sta per varare tra indiscrezioni e polemiche prese di posizione. Si chiama “più 20%” ed è subito divenuto un classico da scaricare su you tube: dopo la valigia con l’ aggiunta, le case con le “appendici” sporgenti dalle facciate o appoggiate sul tetto! Fantasie di creativi della pubblicità? Variazioni del catastrofismo cinematografico oggi tanto di moda? Tutt’altro, in realtà come sanno non solo gli architetti ma chiunque sia abituato a frequentare città e capitali d’Europa e d’America, dove sono note con l’appropriato termine di “case parassite”. Realizzate spesso con l’autocostruzione e il riuso di materiali di scarto, le case parassite – cui la scorsa edizione della Triennale di Milano aveva dedicato addirittura una sezione della mostra “Casa per tutti”- si insediano letteralmente su strutture preesistenti, sfruttandone le risorse energetiche e la posizione. Spesso sono disegnate da artisti o da architetti, come quelle di Pierre d’Avoine sui tetti di Londra o dell’Atelier van Lieshout (clip on) sulle pareti della case di Amsterdam, di Stefan Eberstadt (casa zaino) in Germania, degli MVRD a Rotterdam o a Caracas dove Marjetica Potra ha cercato di razionalizzare il fenomeno spontaneo della favelas, conferendo la semplice bellezza dell’ordine all’anarchismo indiscriminato del caso per caso.

van lieshout
Atelier Van Lieshout, clip on

Naturalmente è lecito dubitare che il provvedimento in studio da parte del governo nasca dalla conoscenza di quest’ avanzata realtà ed è piuttosto facile immaginare le ragioni di pronta cassa che stanno alla base di questo disinvolto rilancio del ciclo edilizio attraverso il via libera alle trasformazioni del patrimonio immobiliare, la maggiore risorsa economica dell’intero sistema paese. In un’Italia di proprietari , la promessa di liberalizzare la procedura delle licenze, di allentare i vincoli di controllo, e di ampliare la superficie utile delle proprie case ,può sembrare un “rompere le righe” e arricchitevi che mette i brividi a chi ha ancora a cuore la tutela del paesaggio e la qualità dell’ambiente. Giustamente Andrea Carandini – neo presidente del Consiglio Superiore dei beni Culturali – ha promesso la massima vigilanza ma anche messo in guardia di fronte all’allarmismo suscitato da un testo che non si conoscerà prima dell’inizio di aprile , aprendo in tal modo uno spazio di riflessione necessario per avanzare un dibattito , formulare proposte, analizzare senza pregiudizi vecchi sistemi e nuove realtà.
Guardata con una lente diversa da quella dell’urbanistica tradizionale, infatti, la condizione delle nostre città è molto diversa da come viene descritta dai grandi piani: esaminati dall’interno, i tessuti urbani che siamo abituati a riconoscere nella grafica delle strade, delle piazze, delle piante degli edifici, si presentano sempre più spesso come spugne che, mantenendo inalterata la forma esterna, si sono modificate all’interno in maniera molto significativa. Si tratta di un fenomeno che in Germania hanno battezzato come “città in contrazione” e il Kulturstiftung des Bundes l’ha addirittura assunto come tema di ricerca e di sperimentazione per dare una risposta alle modificazioni dei comportamenti urbani e dei modi di abitare nei grandi scheletri edilizi lasciatici dal recente e dal lontano passato.
Anche a Milano, la progressiva sostituzione di appartamenti , cortili, spazi per il lavoro e la loro progressiva e “spontanea” trasformazione in negozi, botteghe artigianali, laboratori e spazi per la creatività (come nel distretto del Design di via Tortona o nella chinatown di via Paolo Sarpi) ha di fatto avviato una metamorfosi della struttura urbana, alleggerendola o densificandola a secondo dei casi, attraverso micro interventi, piccoli spostamenti, leggere sostituzioni o impercettibili aggiunte, che hanno di fatto rimodellato l’esistente sul profilo di utenti che difficilmente comparirebbero nelle categorie tradizionali dell’ edilizia pubblica.

In un paese come l’Italia sottoposto alla forza d’urto di un cambiamento sociale innescato dall’immigrazione e dalla frammentazione delle classi sociali in gruppi di inedita composizione (single, studenti, lavoratori temporanei,etc.), il fenomeno della trasformazione è inarrestabile e inevitabile e richiederebbe l’apertura di un tavolo veloce di discussione per alzare il livello della proposta governativa e trasformarla da sotterfugio per batter cassa a procedura di innovazione e occasione di modernizzazione e riqualificazione del vetusto patrimonio immobiliare. C’è dunque bisogno di alzare la voce per sostenere le ragioni del progetto , senza confonderle ipocritamente con la figura generica del “tecnico qualificato”. C’è necessità che le regioni si servano delle analisi già prodotte per i propri territori e dialoghino con la parte più qualificata della classe tecnica e intellettuale, traducendone le utopie in concrete possibilità operative.

Un esempio tra tutti:nella realtà periferica (Mazara del Vallo) di una regione (la Sicilia) che ha fatto dell’abusivismo quasi un marchio a denominazione d’origine controllata, un giovane architetto, Marco Navarra dello studio Nowa, ha proposto un progetto ( “Abitare straniero”) che parte dal dato di fatto di un centro storico fatiscente e quasi esclusivamente abitato dai “nuovi barbari” d’Oltremare. Una kasbah involontaria e degradata, dove la precarietà delle condizioni igieniche e la precarietà dei modi di occupazione degli spazi sono la regola mai scritta di un’urbanistica sommersa. 50 mila euro per acquistare un rudere e costruire una casa ad alte prestazioni e bassi consumi: incentivando forme di sperimentazione con le comunità tunisine, il programma punta a una modificazione dell’esistente attraverso innesti ( di una scala, di una stanza, di un balcone,ecc.) , riconfigurazione dei vuoti (le corti), pratiche di riparazione e metamorfosi guidate dei volumi.
Un’architettura meticcia, ibrida, che interpreta in maniera consapevole, quella pratica dell’aggiunta che la storia dell’architettura chiama “superfetazione” e di cui i nostri centri storici sono una testimonianza vivente.

[Fulvio Irace]

Il testo è stato scritto per Il Sole 24 Ore domenica 22 marzo 2009. Archphoto ringrazia Fulvio Irace e Il Domenicale del Sole 24 ore per aver concesso l’utilizzo dell’articolo