Elisa Fongaro intervista Magdalo Mussio/Marcatre
Archphoto ripubblica alcuni testi apparsi sulla rivista Marcatre, edita da Lerici Editore, diretta da Eugenio Battisti, fondata dal Gruppo ‘63. Il merito di Marcatre fu di aprire una riflessione sui temi dell’architettura, dell’arte, della filosofia, della politica. Magdalo Mussio era il grafico autore delle splendide copertine e dell’impaginato interno sempre duro e radicale. Una rivista ancora oggi punto di riferimento intellettuale per l’approfondimento tematico a cui la nostra rivista vuole rendere omaggio.
Il primo appuntamento è con l’intervista a Magdalo Mussio realizzata da Elisa Fongaro che ringraziamo per la disponibilità a concedere gratuitamente il diritto di utilizzo.
Frammento di un dialogo avuto con Magdalo Mussio nella sua casa di Pollenza il giorno 2 dicembre 2004.
Elisa Fongaro: Mi puoi raccontare come è iniziato il tuo lavoro per la rivista “Marcatrè”?
Magdalo Mussio: Io conoscevo Eugenio Battisti, torinese. Battisti aveva fatto una tesi sulla commedia dell’arte: era una persona vivacissima, simpaticissima e estrosa. E allora mi dissi se c’era lui dietro a tutto […] allora avrei dovuto dare un’occhiata a quella rivista. La Lerici la comprò, un po’ alla “milanesotta”, facendone un bel numero.[…] Nell’industria editoriale non si poteva uscire con la rivistina, piccolina, ed allora noi facemmo questi bei volumi. Allora c’era Giulio Confalonieri che si occupava della grafica: […]era un po’ perfettino, squadrato e faceva le pagine come le confezioni dei medicinali svizzeri… bravissimo intendiamoci. A me venne in mente la rivoluzione russa: la grafica durante la rivoluzione russa (quando non era neanche bolscevica, era la fase in cui i soldati si ritiravano dal fronte e tornavano a casa […], erano fucilate per la strada). I russi che allora facevano queste riviste si trovavano a scrivere a piombo “Giovanni”, però la enne gli mancava e la stampavano con un carattere diverso, anche con la vu rovesciata oppure, per non andare a prendere la lettera che mancava e non farsi prendere a fucilate, ce ne mettevano una più piccola.
In Russia sapevano lavorare a quell’epoca, il futurismo quello vero è russo […]. Facevano dei lavori bellissimi.
Io dissi che questa era l’idea base […], insieme a quelle righe nere che facevano sempre i russi, per fare la grafica. Il grafico Confalonieri fu bravissimo: se vai a vedere i primi numeri sono sempre un po’ farmaceutici (perchè lui aveva questo vizio, ma era uno dei migliori di Milano) ma sono fatti così come ti ho spiegato prima[…]. “Marcatrè” doveva essere la rivista di punta, che si occupava di contemporaneità insomma, rivista di notizie contemporanee […] o anche saggistica […].
E allora dissi a Confalonieri di fare una grafica dove la lettera “g” è in Garamond grande e grosso, poi la lettera “a” di un altro tipo […] e con le stesse striscione nere che facevano i russi. Confalonieri fece il bozzetto […] e venne fuori questa grafica bellissima. A me affascinava quell’idea, ero sensibile all’epoca.
EF: Allora, se ho capito bene, ti sei ispirato ai russi che usavano il metodo “dell’arrangiarsi” in un periodo difficile.
MM: Non “arrangiarsi”, c’era una rivoluzione importante, non puoi usare “arrangiarsi”.
EF: Certo, intendo “arrangiarsi” per quanto riguarda i mezzi che avevano a disposizione, non dal punto di vista creativo, delle idee.
MM: Si, pubblicavano però inventando una grafica così. Io mi sono ispirato a quello siccome ero a capo della direzione artistica[…]. io inglobavo un po’ le figure del grafico, fotografo, con Roberto Lerici. Alla Lerici eravamo in due, sai, io e Roberto Lerici, che purtroppo è deceduto […], non guardare tutta la sfilza di nomi che ci sono in prima pagina, gli altri scrivevano soltanto.
Era una rivista diversa da quelle che ci sono oggi […].
EF: Prima hai parlato di Battisti che ha scritto la tesi di laurea sulla commedia dell’arte. Ti sei ispirato a lui per la tua tesi sullo stesso argomento?
MM : No, no, questo io l’ho saputo dopo, quando lui era già laureato, già insegnava all’università. Parlando, così, ce lo siamo detto. Lui insegnando all’università di Genova dava un apporto particolare, io lo annusavo d’istinto, “istinto culturale”, che mi aveva fatto capire… e poi mi era simpaticissimo.
Si lavorò insieme a questa rivista, però noi la si portò a Milano e si fece la grafica. Mi ricordo che per comprarla ci vollero sette milioni.
EF: Quindi “Marcatrè” è stata comprata a Genova e, ovviamente, tu non ci hai lavorato nei primi numeri.
MM: Si, si i primi 3 numeri di “Marcatrè” li fecero lì, poi non avevano una lira, insomma era ovvio. Però, se andavi a vedere le riviste che c’erano in Italia le uniche erano “Il Verri” e “Il Caffé”. […]
EF: Che cosa avete cambiato rispetto ai primi tre numeri di ”Marcatrè”?
MM: Intanto era già divisa a sessioni: letteratura, architettura, musica.
EF: Quindi avete mantenuto la divisione che c’era già.
MM: Ognuno aveva l’illusione di avere una propria rivista, capito?
EF: Le notizie erano di Mussio.
MM: C’è nel primo numero il mio nome? Perchè mi sembra che nel primo numero non volli neanche il nome.
EF: Il tuo nome compare per la prima volta sul numero 6/7.
Ti occupavi di altro alla Lerici di Milano?
MM: Ho fatto anche La donna francese, La donna svedese, La donna svizzera con la fodera che non si poteva aprire. La gente che le vedeva chissà cosa pensava! Le davamo alle edicole, perchè uno prendendo il treno la vedeva e, siccome non poteva aprirla per via della fodera, se la portava in treno e poi ci trovava scritte le abitudini di quando la donna prendeva il pane, ma niente di particolare. Era tradotta da un’edizione tedesca, se mi ricordo. […]
Questi erano lavori editoriali che vendevano, difatti noi si stampava in continuità perchè alle edicole andava via.
EF: Serviva a sovvenzionarsi…
MM: … ti posso dire che anche la collana di poesie […] si vendeva bene. Il massimo che abbiamo fatto era Laforgue e i poeti simbolisti e siamo stati i primi in Italia a pubblicare Pessoa. Poi dopo il “Marcatrè” doveva continuare tutto quello che riguardava la contemporaneità, ma non in senso di poesia, in senso del rapporto tra scrittura e esistenza, chiamala come vuoi […].
EF: Hai lavorato per la Lerici fino al 1970: com’è finita l’esperienza con questa casa editrice?
MM: Tutta la storia della Lerici è buffissima, perchè in realtà i quattrini, venivano dall’acciaio svedese. Gustavo di Svezia era un appassionato di etruscologia e allora ci finanziava attraverso un’altra Lerici, un’industria che si occupava dello studio sull’uso dell’acciaio svedese sempre a Milano. Soltanto che a un certo momento è morto anche lui e allora ci fu il trasferimento a Roma […]. Ho dei libri di archeologia della Lerici, ma io non me ne occupavo […]. La famiglia Lerici era una famiglia di militari, uno di loro però fece l’ingegnere; faceva le trivellazioni nella parte sotto Pisa e Volterra (i giornali ne parlavano continuamente). Insieme ad un altro, inglese, aveva studiato le fotografie delle riprese aeree della guerra e aveva notato in quella zona che c’erano come delle cupolette viste dall’aereo dice ma lì ci sono degli armamenti, pensarono che bisognasse fare un bombardamento a tappeto, ma in Maremma non c’era movimento di truppe e quindi si sono salvate. Queste cupolette erano tutte tombe etrusche e Lerici, siccome faceva le trivellazioni per gli inglesi e gli svedesi per la ricerca del petrolio, perforava inserendo una macchina fotografica in modo che non entrasse aria e fotografava l’interno delle tombe […]. E allora poi hanno fatto tante mostre di queste tombe etrusche. La Lerici cominciò come casa editrice archeologica […].
EF: La settimana scorsa mi hai spedito e mi hai consigliato di leggere Il libraio di Selinunte(1). Perchè?
M. M.: Ti ricordi Saramago? Ha raccontato che uno ad un semaforo rosso diventa cieco, non vede più il verde né il rosso, la gente gli suona e poi smette perchè tutti diventano ciechi. Fanno tutta la vita da ciechi. Non ricordo il titolo ma questo lavoro è bellissimo: è veramente la situazione un po’ contemporanea. Nel libro di Vecchioni ad un certo momento il linguaggio non corrisponde più. E’ un pò buffo questo finale in cui il linguaggio ricomincia a prendere significato […], tutto riprende il proprio nome. A me ha sorpreso tanto e mi sembra riguardi un pochino la scrittura.
EF: Vecchioni nel suo libro dà molto valore alla semantica della parola, cioè la parola è essenziale per esprimere i sentimenti e comunicare ogni cosa. Dal momento in cui questa prerogativa umana scompare la gente è costretta a nuovi codici elementari. Per te che valore hanno i significati delle parole che scrivi nelle tue opere?
MM: Io ho sempre lavorato con la parola, ma la semantica non mi è mai entrata in testa, non c’entro niente io con la semantica. […]
Quando scrivo “Giovanni” per me non è più “Giovanni”, può diventare Giovanni dalle Bande Nere e ci faccio una banda nera.
EF: E lo vesti tutto di nero…
MM: … nero e bianco a me piace…
EF: … un po’ il rosso…
MM.: … rosso e l’oro, difatti Bisanzio per me è il massimo della civiltà […]
EF: A proposito di Bisanzio e dell’oro: tu inserisci spesso “Arone” nei suoi scritti così come nelle tavole e nelle tele..
MM.: No, Arone o Aronne […] è una falsificazione. Perchè è Erone, un matematico alessandrino che faceva degli alberi tutti in oro, con le foglioline e gli uccellini sempre d’oro. Con la pressione del vapore questi alberi si muovevano e gli uccellini cantavano. È stato un grande architetto, campo, quello dell’architettura in cui io ho fallito per colpa del mio moralismo, della mia puzza al naso insomma.
EF: Ma tu non hai frequentato l’Accademia delle Belle Arti a Firenze? Quale indirizzo hai scelto?
MM: Scenografia. Architettura e Belle Arti erano insieme a Firenze vicino a Piazza del Duomo[…].
Io ti parlo del periodo di fine guerra, perchè ho ripreso allora la scuola. C’era l’espansione edilizia a macchia d’olio in tutte le parti bombardate. Questi poveretti, architetti reduci dal campo di concentramento, si rubavano il lavoro l’uno con l’altro per ottenere l’appalto di una zona… Che mondo è l’architettura, ho pensato!
EF: Questo è stato il motivo che ti ha spinto a indirizzarti verso il teatro e la scenografia.
MM: Il teatro, la scenografia e ho fatto della regia addirittura. Ho fatto Tennessee Williams con la Fabbri, Marisa Fabbri […]. E’ inutile stare a raccontare, io ho fatto anche quello che ungeva i motori della sala macchine sulle navi. Sai a quell’epoca non c’era bisogno di libretto di marina e roba del genere…
EF: … bastava lavorare…
MM: … bastava lavorare e si andava sulle Liberty, quelle che andavano a Campo Derby la città di anarchici, disertori. […]
EF: Fra le tante esperienze che hai fatto c’è anche quella dell’insegnamento. Che ricordo hai di quel lavoro?
MM: Mah, tre individui sono usciti dall’Accademia bravissimi.
EF: Solo tre?
MM: Si, in dieci anni di insegnamento. C’erano ragazze molto carine, ma facevano solo disegnetti, cancelletti, paesaggini. Era molto difficile far capire che c’erano anche cose diverse. […]
L’Accademia per me sarebbe stata un’esperienza insignificante se non fosse stato per il rapporto umano con i ragazzi. Aveva significato socialmente. Io avevo colloqui e basta con la gente, se si doveva discutere di una cosa io discutevo e dicevo le mie opinioni.
EF: Quale disciplina hai insegnato? Stampa, tecniche di incisione?
MM: È ovvio, io tecnicamente ero cresciuto nell’editoria, nei libri, conoscevo i modi di stampare […]. La vedi quella lastra là
EF: È la copertina di un tuo libro, Il corpo certo o il luogo di una perdita (2).
MM: Ecco, quello è il più bel titolo che abbia scelto. Questa tecnica qui la usavano gli etruschi. […]
EF: Questo poi diventa Chiarevalli Monodico (3)…
MM: … e poi diventa cartone animato…
EF: … prima è cartone animato…
MM: … si, si, prima, molto prima…
EF: … poi passa ne Il corpo certo o il luogo di una perdita e infine in Chiarevalli Monodico del 2001.
Quello è Scritture (4)! Mentre lo sfogliamo parlami un po’ di questa raccolta.
MM: […] questo è preso dall’americano che faceva i cibi falsi…
EF: … Oldenburg…
MM: … si, si, ecco vedi questa è una fotografia che ho fatto io a New York. Ci sono queste vecchie case degli anni Trenta, a me piaceva guardare tutte queste finestre disposte in modo regolare, una vicina all’altra.
EF: Quindi ti sei dilettato anche nella fotografia. Questi sono materiali inediti, che sono inseriti solo qui nonostante Scritture sia una raccolta di opere precedenti.
MM: Si sono solo qui, però da questa foto ho ricavato una lastra da incisione, a foto meccanica si chiama, e poi l’ho stampata per l’Accademia. […]
EF: Mi dici dov’è il canovaccio del 1500 (5) ? Da dove proviene?
MM: Ecco il canovaccio del Cinquecento, l’ho trovato alla Nazionale di Firenze, certo prima che ci fosse l’alluvione. Là c’era uno splendore: erano i quaderni dei capocomici. Se uno li va ad analizzare c’è tutta la scenografia, sai a me interessa molto il teatro e lì li ho trovati. […] A me m’affascinava quel mondo lì: la commedia dell’arte.
EF: Adesso che guardo bene questo canovaccio, noto che non è il tuo tratto, ma se non me l’avessi detto non ci avrei fatto caso.
Ecco, in Scritture vedo anche queste tavole che sono apparse in precedenza su “Marcatrè”.
MM: Sì, vedi io facevo così le sceneggiature, tanto per i cartoni animati quanto per i filmati che ho girato all’estero. Queste sono sceneggiature per film, documentari, vedi piccole storie, ci deve essere anche un francobollo, ti dà la proporzione. Vedi questo percorso? Ecco, magari da qui faccio camminare l’attore. Io facevo le sceneggiature così. […]
EF: Nelle tue opere usi spesso un colore simile all’ocra, che cos’è esattamente?
MM: Tannino, quello che usano per i restauri, per staccare la sporcizia dagli affreschi. […] è come la ruggine, io ne ho fatti tanti con la ruggine, un colore irriproducibile. Alle volte uso dei testi da delle vere e proprie scritture, oppure la realtà mediatica…
EF: … quella presa dai giornali, i ritagli che inserisci ogni tanto…
MM: … si le bugie proprio.
EF: Potresti spiegarmi la tua concezione del tempo? Ecco, i numeri che si vedono nelle tue tavole sembrano non essere legati al proprio valore numerico, ma allo stesso tempo è come se creassero una dimensione temporale.
MM: È un tradimento, il tempo, lo spazio. Qualcuno ha detto che faccio i numeri che si possono leggere e anche vedere. E questo è vero […]. Hai presente il libro di Vecchioni nel momento in cui sparisce la parola e tutto sembra irreale? Ecco questa mancanza di realtà… io la realtà la vedo brutta, antipatica, non mi piace insomma. […] spazio, tempo il discorso è quello di Wittgenstein che diceva che se prendi una porzione di spazio diventa qualcosa su cui puoi discutere, quasi una sovrastruttura, io ti posso dire questo. Magari poteva essere anche Rimbaud a dirlo ora non ricordo.
EF: Vuoi dire che nel momento in cui prendiamo una porzione di qualcosa di indefinito, lo rendiamo definito e quindi se ne può parlare?
MM: Diamo noi la misura e dandogli la misura inventi anche la parola. Stufa, macchina fotografica, insomma inventiamo il linguaggio, però è una misura per riconoscersi, per non stare soli, è un fatto esistenziale. […]
EF: (leggendo un’opera) Per mancanza di ombre…
MM: … non te lo so dire, però mi piace questa mancanza di ombre, perchè penso a una persona…
EF: … senza ombra…
MM: … no, la mancanza dell’oggetto che dà ombra. […] Ecco, la mia scrittura è proprio questa, la mancanza dell’origine dell’ombra, non so se mi sono spiegato.
EF: Quindi è la scrittura stessa ad essere l’ombra di qualcosa che manca.
MM.: Ecco, mettila così. Quindi a me non me ne importa se la leggi o no. […]
EF: Nel tuo stile riecheggia qualcosa di Klee.
MM.: In casa mia sono cresciuto con due piccoli Klee, che aveva comprato in Germania mio padre. A quell’epoca non si sapeva neanche chi era Klee […] e probabilmente quando poi l’ho visto buttato nel mercato, come succede di solito, mi ha emozionato. Certo se uno dice che sono Kleeiano mi dà fastidio. […]
EF: Noto delle simbologie religiose e mi domando che rapporto hai con la religione.
MM: Ti posso dire una cosa? Hai presente il catalogo di Ancona che ti ho dato?
EF: Si, Visioni altere, erratica.
MM: Arrivo prima dell’inaugurazione, c’è un frate domenicano che conosco […] e mi fa i soliti complimenti (che io non ascolto perchè tanto non mi si dice mai che è brutto quello che faccio) e dice che trova i miei lavori profondamente mistici. Ora sta scrivendo qualcosa sul misticismo nel mio lavoro. Ed io allora ci ho pensato su come sto a religione: io sto male perchè non credo nel padre eterno né all’inferno, sono un ateo, come si dice Dostoevskjiano: di quelli che sparano se vedono uno star male insomma.
EF: Quindi come senti di definirti dal punto di vista culturale?
MM: Di cultura […] cristiana per forza di cose. Ormai noi siamo così. […] Così come mi sento di cultura marxista […], qualcuno mi ha anche dato dell’esistenzialista. Allora io dico che sono cristiano, marxista e pure esistenzialista! Sono condizioni culturali con cui si convive per tutta la vita.
[1] R. Vecchioni, Il libraio di Selinunte, Torino, Einaudi, 2004.
[2] M. Mussio, Il corpo certo o il luogo di una perdita, Pollenza (MC), La Nuova Foglio, 1975.
[3]M. Mussio, Chiarevalli monodico: parole 63 – 86 – 2001, Monodico: segni e parole 1987 – 2001, s. l., Unaluna, 2001
[4]M. Mussio, Scritture, Pollenza , La nuova Foglio, 1977.
[5]Ibidem