Stefano Boeri_Lo spazio crea la società

Stefano Boeri

Nell’ambito dello speciale dedicato al tema Architettura e Potere pubblichiamo l’editoriale con il quale Stefano Boeri, direttore di Abitare, apre il numero di febbraio ‘09.

I nostri lettori stranieri forse ignorano che sono in corso in Italia delle inchieste giudiziarie che riguardano da vicino la professione dell’architettura. Talmente “da vicino” da avere coinvolto alcuni noti architetti della generazione dei 40-50enni; uno di loro – della cui eccellente attività di progettista questo giornale si è di recente occupato – è stato addirittura accusato di turbativa d’asta, cioè di aver condizionato gli esiti di un concorso pubblico. I nostri lettori italiani, che invece seguono probabilmente con attenzione l’evolversi di queste tristi vicende, sanno che abbiamo deciso di dedicarvi un post sul sito di Abitare (recentemente rinnovato, www.abitare.it), ospitando domande, dubbi, frustrazioni, rancori e anche, in alcuni casi, proposte. Cosa pensiamo di quanto è successo? Servono due premesse.
La prima è che è assolutamente necessario aspettare di conoscere i risultati dell’inchiesta prima di poter formulare una qualsiasi valutazione sulle accuse. La seconda è che se le imputazioni in questione fossero davvero provate, ci troveremmo di fronte a una situazione indubbiamente grave. A queste premesse, c’è però da aggiungere subito una terza considerazione importante, che in un certo senso spiega lo spazio che Abitare ha dedicato – sul sito e sul giornale – a questo caso; e cioè che a prescindere dalle persone coinvolte, quanto riportato dalla stampa sia apparso a molti dei nostri lettori plausibile. Plausibile che oggi, in Italia, ci siano dei politici, degli amministratori e degli imprenditori che si mettono d’accordo per condizionare gli esiti di una gara pubblica. Plausibile che questo patto di illegalità abbia coinvolto anche degli architetti. Ecco, quello di cui vorremmo discutere – al di là di questo specifico caso – è proprio di come una situazione moralmente e deontologicamente inaccettabile sia diventata anche plausibile.
In altre parole: c’è oggi in Italia il rischio di un degrado etico e civile della professione dell’architetto?

Vorrei provare a rispondere chiamando in causa le tre voragini che rischiano di aprirsi attorno alla professione dell’architettura e che attengono tutte al suo significato civile e alla sua utilità sociale.
La prima potenziale voragine è dovuta al rarefarsi nel nostro Paese di amministratori locali che svolgano seriamente una funzione di rappresentanza istituzionale degli interessi collettivi. Troppo spesso nel momento di promuovere un progetto, un piano, una scelta sul territorio, registriamo l’assenza – nelle amministrazioni locali – di una posizione ferma che ci permetta di misurare, e dunque limitare, le aspettative di una committenza per sua natura egoista e a volte ingorda. Il fatto che questa committenza sia diventata ormai la fonte prima e a volte unica di risorse e investimenti per le trasformazioni urbane, non giustifica che al momento di discutere un progetto, spesso sembri mancare del tutto – sul lato delle politiche pubbliche – una posizione che segnali con forza i vincoli che derivano da un’attenzione primaria alla qualità dell’ambiente e al miglioramento delle condizioni di abitabilità dei cittadini, soprattutto di quelli che hanno più difficoltà a farsi rappresentare dal sistema politico.
L’Italia contemporanea è piena, troppo piena, di amministratori locali eccessivamente attenti alla loro carriera (all’equilibrio tra tempi elettorali e tempi del consenso) ed eccessivamente disinteressati alla difesa dello spazio abitabile in quanto bene pubblico. Con l’effetto che spesso questa difesa – che si tratti del verde comune, del costo delle abitazioni, dell’ampliamento degli spazi per la cultura e il tempo libero – sparisce del tutto. Lasciando chi fa il mestiere dell’architetto davanti al bivio tra l’assumere un ruolo supplente e coraggioso di attenzione agli interessi generali - un ruolo spesso in conflitto con gli interessi della propria committenza - oppure l’appiattirsi totale sulle volontà e i capricci di quest’ultima.

E questa seconda strada, di recente, ha avuto purtroppo un certo successo. La seconda voragine, conseguente alla prima, corrisponde all’alzarsi nella nostra professione della soglia di tolleranza nei confronti di comportamenti non deontologici o addirittura illeciti. Una disattenzione che ha la sua causa prima proprio nella consapevolezza che l’interesse pubblico è diventato una variabile secondaria nel sistema decisionale dell’architettura. Ma vorrei essere chiaro: le fragilità morali di politici e amministratori non possono essere un alibi per noi architetti; piuttosto dovrebbero spingerci a una maggiore responsabilizzazione civile. Sostituire al bene collettivo di una intera società un appello al bene (collettivo?) dell’architettura italiana non ha, insomma, alcuna giustificazione. Perché se tutto diventa sacrificabile sull’altare di una presunta e arbitraria valutazione circa il miglioramento della qualità dell’architettura, ogni occasione di lavoro e di ricerca può diventare motivo di conflitto di interessi e di nepotismo. Accade allora, per fare un esempio, che si usino le aule dell’università come succursali per il proprio studio – magari impegnando gli studenti su progetti di grande interesse – senza
capire che in questo modo si svilisce l’identità stessa della scuola; oppure che si condizionino illecitamente gli esiti di una gara pubblica per favorire un collega, magari bravissimo, senza capire che così si impedisce a soluzioni potenzialmente migliori di emergere. Per quanto possa essere a volte difficile stabilire con chiarezza il confine tra comportamenti opportuni e illeciti, dovremmo sempre tener presente che ogni istituzione o procedura pubblica, nella misura in cui è una potenziale fonte di ossigeno per l’architettura e per i giovani, è una piattaforma aperta e libera. È bene quindi che sia alimentata di idee e provocazioni intellettuali – che inevitabilmente provengono dalla nostra pratica professionale di architetti, che inevitabilmente ricalcano le nostre passioni e i nostri interessi – ma non deve mai diventare un imbuto per prestazioni a uso privato.

Del resto, il terreno su cui matura questa tolleranza eccessiva è anche la scarsa consapevolezza che la nostra professione ha una implicita funzione critica rispetto allo stato delle cose. Questa dimenticanza è una terza voragine. Perché ogni contatto tra ricerca e professione, tra didattica e professione, tra media e professione, rischia di essere equivocato in assenza di una forte intenzionalità critica. Solo se sappiamo dove andare, se diciamo dove andare e con chi vogliamo andare, le nostre azioni possono essere giudicate con equilibrio e rigore; perché non esiste vera trasparenza delle procedure e dei comportamenti, se non in rapporto a un quadro forte, chiaro ed esplicito di finalità.
Eppure oggi non è difficile trovare un senso e una intenzionalità nella professione dell’architettura. Ad esempio considerando come lo spazio fisico oggi non sia semplicemente il calco dei comportamenti sociali. Il territorio, il paesaggio, gli ambienti materiali della nostra vita – che sono in ultima analisi il nostro materiale di lavoro – non sono infatti una variabile delle relazioni economiche, dei comportamenti sociali, delle scelte politiche. E, neppure sono l’effetto ritardato nel tempo, di decisioni nate molto prima, di aspettative consolidate e antiche, di presupposti culturali immodificabili.
Al contrario: oggi, in Italia, lo spazio è una condizione creativa della realtà sociale e politica. Lo spazio fa, disfa, condiziona, promuove, distrugge. Grazie ai nostri progetti di architettura, ai nostri piani urbanistici, alle nostre proposte di design, lo spazio divide e connette pezzi di società, toglie e attribuisce loro risorse, nega o consente relazioni culturali ed economiche. Lo spazio è insomma diventato un protagonista determinante nella scena politica. Come non accorgersi che molte questioni di trasformazione dello spazio che un tempo avevano un valore puramente tecnico, specialistico, assumono oggi una immediata valenza politica?
Decidere la forma di un edificio particolarmente in vista, la trasparenza di un recinto, i materiali di una piazza, il colore di un intonaco sulla strada; scegliere se consumare o meno suolo agricolo, se crescere in altezza, se utilizzare energie non rinnovabili, se usare o meno componenti edilizie non riciclabili; sono tutte scelte sottoposte oggi a un doppio ordine del discorso: non più solo quello della tecnica, ma anche quello dell’argomentazione pubblica.
E spetta a noi architetti trovare l’equilibrio relativamente migliore tra due sfere spesso conflittuali (perché muovono argomenti e ragioni diversi e spesso stridenti) ogni volta che ci avviciniamo a una scelta di progettazione.
Una sfida che dobbiamo ogni volta affrontare, diffidando dalle scorciatoie e sapendo che
in questo sforzo siamo, saremo, sempre soli.

Le tre voragini che si sono pericolosamente aperte ci riguardano insomma tutti; a partire da chi scrive. Proprio perché nella pratica professionale siamo spesso chiamati a “fare di più”, a supplire ruoli e prestazioni che disciplinarmente non ci competono (non dobbiamo solo convincere assessori, ammaliare tecnici comunali, dialogare con comunità di cittadini, ma anche spesso svolgere supplenze giuridiche, comunicative e finanziarie, consigliando la nostra committenza sulle strategie di mercato e valutando costi e benefici politici delle nostre proposte), dobbiamo tutti insieme riscoprire il significato civile del fare architettura, la sua dimensione implicitamente politica. Alimentando quella coscienza critica che nel secolo scorso – da Giuseppe Terragni a Ludovico Quaroni, da Ernesto Nathan Rogers a Bruno Zevi,
da Giuseppe Pagano a Giancarlo De Carlo – ha rappresentato addirittura una cifra della migliore architettura italiana.

[Stefano Boeri]

Stefano Boeri, architetto, è direttore di Abitare e fondatore del gruppo di ricerca Multiplicity