Patrizia Mello_Ha ancora senso fare la Biennale?
Hans Hollein, megastruttura, Vienna 1960
Le Biennali sono ancora occasione per una sperimentazione efficace sui temi progettuali o rischiano di essere una rassegna di architetture più o meno interessanti?
È indubbio che oggi le potenzialità del progetto si siano moltiplicate aprendo letteralmente la strada alla ricerca e alla possibilità di trovare nuove soluzioni abitative: dalla elaborazione del progetto al computer ai temi legati alla sostenibilità ambientale, all’impiego di materiali evoluti. Potenzialità che andrebbero attentamente valutate per restituire un volto e un carattere al nostro tempo, e che troppo spesso finiscono per essere trattate superficialmente o sfruttate per fare tendenza. È così che negli ultimi decenni l’unico modo per vedere qualcosa di interessante sul futuro dei nostri ambienti di vita è quello di studiare il lavoro dei singoli progettisti (spesso poi erroneamente mescolati tutti insieme nel calderone delle archistar).
In realtà, bisognerebbe non farsi prendere la mano dalla pura esaltazione del presente e tornare ad una riflessione più lucida, pesare bene i problemi e, soprattutto, cominciare ad individuare gli elementi su cui lavorare per potersi nuovamente predisporre al futuro ritrovando senso per la propria attività creativa. La conferma viene dalle Biennali più recenti. Fuksas nel 2000 scelse il tema dell’etica – Less Aesthetics more Etichs - come quello più adatto a tirare i remi in barca, pensando così di poter rimettere in gioco l’aura dell’architetto impegnato, che pensa a risolvere problemi più che a gratificare se stesso. Ma è evidente come nella nostra professione etica ed estetica non possano essere separate. La volontà di dare al sociale l’opportunità di vivere in condizioni migliori è innanzitutto un dovere per l’architetto, e non deve certo andare a svantaggio degli aspetti estetici!
Ad ogni modo, meglio puntare su un tema che non farlo affatto, come nel caso di Sudjic che con la sigla “Next” ha decretato l’assoluta mancanza di contenuti della Biennale successiva, poiché a cosa se non al futuro prossimo deve essere dedicato il lavoro di un progettista? La mostra, si legge nella introduzione, “è dedicata all’esplorazione di alcuni di questi prossimi – ‘next’ – edifici, architetti, luoghi. Si propone di offrire un panorama di quello che sarà l’architettura nel prossimo decennio – chi la farà e con che cosa sarà costruita”.
Perciò Kurt W. Forster nel 2004 allude a qualcosa di più impegnato con il titolo “Metamorph”, anche se la sostanza non cambia. Nella convinzione di fare ordine all’interno del panorama architettonico contemporaneo Forster ricorre alla suddivisione per categorie: atmosfere, superfici, iper-progetti…, attraverso lo strumento colto del digitale, e finisce invece per rafforzare l’idea che gli edifici non siano altro che oggetti più o meno suggestivi, da analizzare per gli effetti speciali prodotti, alimentando confusione sul tema.
Due anni fa, invece, l’attenzione è stata spostata sulle problematiche dell’attuale crescita metropolitana, attraverso l’esibizione del rapporto tra “Città Architettura Società”, secondo le intenzioni di Burdett. Lettura che è si è dimostrata particolarmente utile a fare i conti con l’eredità del Moderno: una metropoli incontenibile, certamente uno dei soggetti più vivi del contemporaneo che tutto metabolizza in maniera accelerata, producendo una enorme quantità di scarti, soprattutto in termini di emarginazione sociale. In senso positivo il pensiero corre anche alla Biennale del ’96, quando Hollein con molta sobrietà aveva recuperato, per lo meno nel titolo, il ruolo primario di una professionalità in ascolto – L’architetto come sismografo – che, a partire dalla propria capacità di registrazione del reale, è in grado di rispondere a nuove esigenze, di inventare concetti innovativi per una vita diversa, di percepire, quindi, situazioni ancora sconosciute ai più.
Già guardando questo breve excursus è possibile fare alcune considerazioni. Evidentemente siamo di fronte ad una serie di tentativi finalizzati a rapprendere l’immagine del presente e a verificare lo stato dell’arte. In generale, quello che manca è la capacità di “costruire senso” a ciò che succede. A ben guardare ciò che succede è talmente eccezionale che basterebbe ad alimentare un esercito di pensieri, di nuove proposizioni e a riappropriarsi del futuro. Se gli architetti non si accorgeranno di questo, resteranno sempre “out there”, in stand by, aspettando una brillante idea da rincorrere Biennale dopo Biennale, con il rischio di ripetersi o di scadere nella banalità. Quest’anno il ben navigato Betsky ha trovato una sorta di scappatoia intitolando, appunto, la mostra “Out There: Architecture Beyond Building”, aprendo così la strada ai temi più trasversali del pensiero progettuale, in grado di sconfinare “oltre l’edificio”. Protagoniste, infatti, sono una miriade di mini-utopie che passano con disinvoltura dalla prefigurazione di scenari futuri alternativi, alla piegatura del presente in mille rivoli di fantasia per far fronte ai problemi ambientali, per recuperare spazi alla gente, sia che si tratti di grandi progetti che di piccoli interventi di industrial design. Certamente indovinata la scelta di molti giovani progettisti che trovano terreno fertile nel tema per liberare la propria creatività e coltivare impegno nei confronti del sociale: dai Rebargroup (USA) agli ZUS (Paesi Bassi).
Molto meno se si considera il fatto che sono stati chiamati alcuni guru della corrente decostruttivista dove giocare all’“out there” è fin troppo facile e rischia di provocare noia piuttosto che risvegliare gli animi. Di sicuro aderente al programma la scelta della coppia Diller e Scofidio (a cui si è aggiunto Renfro) da sempre impegnata in un genere di proposte “fuori campo”; come quella di Droog Design che attorno alla propria filosofia progettuale ha raccolto una folta schiera di giovani ricalcitranti alle mode. Per non parlare di MVRDV, Asymptote, Work Architecture Company, M-A-D…
L’articolo è stato pubblicato su Liberazione all’interno dello speciale sulla Biennale di Venezia, a cura di Emanuele Piccardo, martedì 16 settembre 2008