Matteo Agnoletto_I frammenti del “surf”
Frank Gehry e Zaha Hadid accolti come “rockstar” all’Arsenale di Venezia
L’azione del surfista in grado di domare con abilità e intelligenza creativa l’onda dell’oceano è ancora una valida metafora per rappresentare la figura dell’architetto. Il pensiero “lungo” con il quale esprimersi sull’ampio livello teorico della sperimentazione richiede una ricerca fondata sull’esercizio e la continua verifica degli strumenti compositivi, alla stessa maniera con cui si perfeziona tecnicamente gara dopo gara l’utilizzo della tavola sull’acqua. La pratica del surfista è opposta all’improvvisazione travolgente degli show spettacolari della rockstar, abituata a ripetere le proprie canzoni lungo lo spazio limitato del palco. A Venezia è certamente più folta la schiera di progettisti rockstar, scatenati a muoversi casualmente e senza imbarazzo sul piano “facile” della libera comunicazione visiva e dell’immediata creatività, destinata a inventare oggetti singolari sempre più estranei alle problematiche reali della città e della società attuale.
Queste movenze da rockstar sono all’origine di “Out There. Architecture beyond building”, messaggio con il quale il curatore Aaron Betsky ha organizzato la kermesse veneziana, consacrandola alla produzione di immagini più che di idee. Con il ricorso alla messa in scena dell’istantaneità tipica del gesto progettuale in sostituzione della solidità degli edifici, andando appunto “oltre il costruire”, Betsky individua nella seduzione di inediti assemblaggi computerizzati, denominati “site specific”, i mezzi di espressione più consoni per agire “dentro” la contemporaneità. Si riconosce così agli ennesimi esperimenti telematici su commissione e alle installazioni effimere un ruolo centrale nel progetto architettonico. I risultati ribadiscono quanto già di noto ed evidente c’è in tale atteggiamento adulatorio verso un’architettura dello schermo, che rifiuta sostanzialmente disegni e modelli: l’insistenza di ridurre il pensiero architettonico a pure visioni autoreferenziali e provvisorie trasforma l’architettura in una sottospecie difettosa delle più collaudate performances artistiche.
E’ questa fastidiosa sensazione di dipendenza dal mondo dell’arte che si coglie davanti alle tecnologiche “installations” che invadono gli ambienti dell’Arsenale prevalentemente concepite da architetti abituati invece nella professione a gestire complesse realizzazioni. Gli ospiti di Betsky si dimostrano altrettanto abili e divertiti a cimentarsi in questi divertissements richiesti per i tre mesi della mostra. Alla stessa stregua sono classificabili le opere della sezione “Experimental Architecture” all’interno delle sale del Padiglione Italia ai Giardini. Gli affabulatori giochi digitali e i rimescolamenti di files presi da Youtube sono annunci per destinatari ignoti, lanciati in prevalenza da giovani architetti vestiti da ghost writers delle archistar e disinteressati ad avanzare una critica di giudizio all’inoperante invito ricevuto dal direttore americano del museo di Cincinnati. Tra questi due estremi, il cui impatto mediatico sullo spettatore si esaurirà non appena abbandonate le sedi ufficiali della mostra si resterà travolti dai colori e dalle luci incomparabili dell’edilizia storica veneziana, la Biennale si sviluppa secondo il protocollo della sua trentennale tradizione.
L’architettura come mestiere è ancora presente nei padiglioni nazionali e negli eventi collaterali, quest’anno densi di appuntamenti (e qui per il fascino dei materiali esposti non può mancare la visita a “Le visioni dell’architetto. Tracce dagli archivi italiani di architettura” e a “Le Corbusier’s Legacy”). Tra le cinquantasei esposizioni di bandiera spicca il sobrio allestimento del padiglione portoghese e la silenziosa atmosfera quasi astratta in quello giapponese. Contraddittoria e meno coerente della proposta di Franco Purini ammirata nell’ultima edizione è invece l’iniziativa del Padiglione Italiano alla prima Tesa delle Vergini all’Arsenale. Ingenuamente introdotta in opposizione alla mostra “Casa per tutti” appena chiusa alla Triennale di Milano, “L’ITALIA CERCA CASA” consuma un argomento attuale e di delicata trattazione con lo slogan “una casa per ciascuno”, quasi a convincere e a convincersi che nella crisi economica in corso ogni individuo possa ambire ad abitare una propria e personale abitazione d’autore. Mentre meritano attenzione la lettura dei dati statistici e l’atlante sulle esperienze storiche italiane, l’accostamento confuso di dodici progettisti di diversa estrazione si pone come una pregiata collezione di firme selezionate per la capacità di garantire effetti accattivanti in eventi di questa natura e non certamente per trovare soluzioni concrete ed operative alle problematiche urbane.
Lo snodo dei padiglioni nazionali colma comunque l’inutilità delle due mostre replicanti copiate sulla falsariga di ricerche già viste, ma volute da Betsky a contorno del blocco monotematico dedicato a questa chiassosa “Internazionale dell’utopia”. Il concorso aperto agli studenti delle facoltà di architettura per la progettazione dell’impalpabile new town di “Everyville” è erede della Vema puriniana del 2006 e “Uneternal City. Trent’anni dopo Roma interrotta” riunisce ancora una volta dopo il ciclo di conferenze “Master Thinkers” gli stessi amici del curatore in un rischioso confronto dagli esiti scontati con i grandi del secolo scorso, da James Stirling ad Aldo Rossi.
Nella parata veneziana dei visionari “dell’altra architettura” alla fine si notano le assenze di chi, come Peter Eisenman, Rem Koolhaas, Steven Holl, ha premesso durante il corso della propria carriera il ragionamento teorico alla gestualità grafica o di architetti come Renzo Piano, Rafael Moneo e Cino Zucchi attenti a pronunciarsi con estrema coerenza sul metodo progettuale, verificato con l’impegno rivolto al costruire necessario.
Sempre meno “fabbrica” della cultura architettonica la Biennale, come d’altronde accade da molte edizioni, rimarranno pochi e sfumati ricordi, mentre i frammenti spezzati del surf dell’architetto sono arenati sulle banchine veneziane in attesa di essere di nuovo ricomposti in un discorso veramente capace di tenere insieme a priori riflessione teorica, sperimentazione e progetto. Bertold Brecht chiamava “decadenza” quella particolare separazione in atto nel pensiero culturale tra la forma e il contenuto. Le forme irrilevanti che dominano selvaggiamente questa undicesima Biennale agitano l’immobilità del presente senza preannunciarne una svolta, contribuendo all’inutile riconoscimento dell’architettura del nulla. Se paragonata poi alla grandiosa mostra in apertura tra qualche giorno a Vicenza per celebrare il quinto centenario della nascita di Andrea Palladio, colui che per primo ha gettato un ponte tra l’architettura fondata sulla sperimentazione pratica accompagnata da regole necessarie e il non disgiungibile significato del costruire, qui a Venezia tutto appare decisamente superfluo.
L’articolo è stato pubblicato su Liberazione all’interno dello speciale sulla Biennale di Venezia, a cura di Emanuele Piccardo, martedì 16 settembre 2008