Bruno Orlandoni_Dopo la rivoluzione il nulla
Marcatre n.50-55/1969, numero tematico dedicato al convegno Utopia e/o Rivoluzione svoltosi a Torino nel ‘68
Affrontare il problema della sperimentazione nel panorama dell’architettura in Italia costringe ad impostare un discorso polemico che può suonare moralistico. Ma tant’è.
La mia esperienza, di “critico” dell’architettura radicale prima, di insegnante di storia dell’arte a fianco di pittori, scultori e architetti nell’istruzione artistica poi, infine di storico dell’arte e dell’architettura impegnato a cercare di ricomporre i cocci di un medioevo perduto sui sentieri della Valle d’Aosta, mi ha insegnato che tutte le volte che si assiste ad uno scatto in avanti, ad una crescita, a scoperte o innovazioni positive in questi settori, sotto il profilo operativo come sotto quello critico, è perché qualcuno ha avuto il coraggio di uscire dagli specifici disciplinari per praticare strade diverse da quelle usuali. Non è una condizione sufficiente ma è una premessa necessaria. Per contro ogni invocazione di purezze disciplinari ha sempre significato, nella migliore delle ipotesi, una grigia e al massimo dignitosa routine; più spesso una mediocre sopravvivenza borderline, soprattutto in un paese come il nostro, dove il “rigore disciplinare” è come la cultura/marmellata sui muri del ’68 parigino: “meno ce n’è più se ne spande”.
Alla fine degli anni Sessanta l’esperimento radicale fu positivo fino a quando scultura, cinema, performing art, fotografia sperimentale, concettualismo, si mescolarono all’architettura. Gli Urboeffimeri degli Ufo, il Cadillac Ranch degli Ant Farm, le architetture inconsce di Pettena, i collages del Superstudio, gli elmi audiovisivi di Pichler, le tombe concettuali di Hollein ne costituiscono il vertice. Per contro già allora mi pareva di intuire che il rischio della chiusura all’interno di specifici disciplinari più o meno asfittici non potesse che essere deleterio. Infatti! Con le ipotesi Global tools e Domus Academy i radicali scelsero di arroccarsi all’interno della fortezza del design e con ciò fecero harakiri. Da quel momento in avanti poco o nulla di ciò che hanno prodotto pare degno di attenzione. Alcuni di loro si sono assicurati – magari anche meritandole – fama professionale o sicure prebende accademiche ma comunque è significativo che tutte le volte che qualcuno li chiama a figurare fuori dai pascoli specifici delle loro professioni è sempre per far loro raccontare ciò che fecero quarant’anni fa, non ciò che stanno facendo oggi.
Dopo di loro non mi pare si sia più visto granché. Anche se le premesse teoriche da cui negli anni Sessanta si erano sviluppati il fenomeno radicale e quello del superamento degli specifici restano attuali e inevase. Anzi. Mi pare che le premesse teoriche valide da cui partire siano ancora più remote e coincidano grosso modo con quelle dalle quali si mosse l’avanguardia storica: “cari amici dell’opera comune, oggi non è possibile costruire nulla”. Allora perchè si era senza soldi e senza mezzi dopo una guerra mondiale devastante, oggi perché si è devastati dall’onnipresenza di un onnipotente mercato che detta regole avendo come unico parametro di riferimento il portafoglio. Sotto ogni aspetto Sant’Elia, il costruttivismo russo, Dada e il Bauhaus, Mondrian e Wright, Ronchamp e la chiesa dell’autostrada di Firenze, magari innaffiati con una dose di Klee, restano quanto di più valido e fascinoso si possa vedere sotto il sole.
Se invece cerchiamo di analizzare nel dettaglio la situazione dell’attualità professionale e dei suoi echi mediatici non possiamo che cadere nello sconforto. Di fronte al panorama a dir poco devastante offerto da ciò che ci viene costruito intorno, città per città, i media non trovano di meglio che dare spazio alle polemiche sulle archistar o a coloro che non vogliono grattare il cielo.
In realtà il problema è costituito dalle troppo numerose archischiappe, piuttosto che dalle troppo poche archistar, e la mediocrità della qualità urbana nazionale oggi è colpa dei palazzinari, non dei grattacieli, che in Italia sono stati inventati tra il XII e il XIV secolo, con la torre del Mangia o il campanile di Giotto. Poco giova ricordare che le archistar non sono un’invenzione della perfida modernità. La prima, di nome Imothep, è vissuta quasi cinque millenni fa e i suoi contemporanei erano talmente soddisfatti del suo lavoro che lo avevano divinizzato. Altre archistar del passato hanno nomi magari oggi un po’ dimenticati, come – scegliendo non a caso – Pierre de Montreuil, Filippo Brunelleschi, Philibert de l’Orme, Johann Blasius Santini Aichl.
A Roma si è appena costruito il nuovo contenitore dell’Ara Pacis e, per far piacere a qualche critico sgarrupato e ai nuovi satrapi, si parla già di buttarne giù dei pezzi. E’ vero che nell’occasione Meyer non ha dato il meglio di sé, ma è anche vero che l’oggetto è già meglio del modesto pisciatoio che c’era prima. E comunque invece di buttare via soldi per dare ragione ad un nuovo sindaco – dimenticando che ci sarà sempre un sindaco più nuovo del precedente – sarebbe molto più costruttivo pensare a come rendere più dignitosi la piazza retrostante all’Ara Pacis e il devastato rudere che la occupa. A Torino non bisogna rovinare la skyline della città della Mole Antonelliana, dimenticando che se un secolo e mezzo fa ci si fosse mossi sui parametri di questa mentalità oggi non ci sarebbe nessuna Mole, e che se questa mentalità ci fosse stata tre secoli fa non avrebbero permesso a Guarini di fare la cupola della Sindone.
Che dire del ponte di Calatrava a Venezia? Perché non prendersela piuttosto con l’improvvido progettista di quella torta nuziale nota come ponte di Rialto, la cui costruzione ha comportato la perdita di quello straordinario capolavoro che era il ponte ligneo medievale che conosciamo grazie ai dipinti di Carpaccio? Ho presente l’involontaria comicità di un lungo programma televisivo (tre o quattro mesi fa su una rete nazionale) in cui mentre si stigmatizzava a parole l’attentato che il ponte rappresentava nei confronti della qualità urbana veneziana si mostravano delle improvvide immagini, prese da est del ponte, dalla parte della stazione, in cui il fondale a Calatrava era fornito da quell’orrida periferia che è piazzale Roma che – ahimé – è pur sempre Venezia.
Si dice che a determinare la qualità dell’ambiente urbano non bastano i capolavori. Ma i capolavori contribuiscono ad elevare moltissimo questa qualità. Siena resterebbe una gran città anche senza Piazza del Campo. Io però continuo a preferirla con. Così mi pare che abbia senso andare a Dresda per vedere lo Zwingler e la Frauenkirche – ricostruiti o no – e oggi anche l’UFA Palast degli Himmelblau, non certo per la pur ariosa pianificazione urbana o per i casermoni DDR. E non mi si venga a dire che il Plateau Beaubourg era meglio prima del passaggio di Piano e Rogers o che la riva del Nervion era meglio prima dell’arrivo di Gehry. Semplicemente non è vero. Sono meglio dopo.
“Cari amici dell’opera comune, oggi non è possibile costruire nulla”. Allora … Allora tanto vale. Proviamo almeno a sognare qualcosa!
[Bruno Orlandoni]
Bruno Orlandoni, storico dell’architettura, ha avuto il merito di scrivere, insieme a Paola Navone, l’unico testo critico sull’Architettura Radicale per i Documenti di Casabella nel 1974.
L’articolo è stato pubblicato su Liberazione all’interno dello speciale sulla Biennale di Venezia, a cura di Emanuele Piccardo, martedì 16 settembre 2008