Fulvio Irace_Utopia o parodia?

Biennale

Essere o non essere? Vivere o costruire? Sperimentare o rappresentare?
Partito da Amleto si è risolto nelle Allegre Comari di Windsor l’interrogativo dell’11 Mostra internazionale di Architettura curata per la Biennale di Venezia dal direttore del Cincinnati Art Museum, Aaron Betsky.
Chi si aspettasse risposte o proposte sul ruolo dell’architettura, non vi troverà né disegni né modelli, ma la simulazione di una “gaia erranza” attraverso l’affastellata sequenza di “enigmi e rompicapo” distribuiti con generosità di mezzi spettacolari lungo le tenebrose gallerie dell’Arsenale. Installazioni per evocare il fantasma del subconscio ( Asymtote), battiti cardiaci che sostituiscono i rumori del cantiere( Coop Himmelb(l)au) , manichini sospesi per celebrare le culture dei single (Droog&Kesselskramer), hyperhabitat di mondi digitali (Guallart Architects), meduse che simulano “una matrioska russa che si esibisce in uno spogliarello” (Hadid), giocattoli riciclati (Greg Lynn), ecc.
Architettura come arte,insomma? O coraggioso rilancio del “principio-speranza” legata alla grande tradizione dell’Utopia? Non è facile addentrarsi nelle suggestioni critiche di testi e manifesti avvolti in un linguaggio ermetico che offre parecchie sfide alla decifrazione. Nè è comodo abbozzare spiegazioni che rischiano di riportare il discorso nei limiti del crudo realismo di chi teorizza la mera coincidenza dell’architettura con l’arte della costruzione. Eppure è difficile sfuggire alla sensazione che la parola d’ordine di Betsky, “oltre l’architettura”, sia tutt’altro che quell’alternativa critica a un’arte avvolta nei contorcimenti di “un lungo suicidio”.
Forse per un italiano è più spontaneo leggervi l’allusione alla straordinaria intuizione di Giuseppe Pagano che, nel clima euforico del razionalismo fascista, additava la necessità di ritrovare, oltre il formalismo della ricerca stilistica, le ragioni sociali di un progetto come servizio. O l’eco di quella straordinaria definizione di Persico - “architettura, sostanza di cose sperate”, qui bellamente disattesa da una veramente ingenua pretesa romantica di conflitto tra arte e vita.
“Soltanto nell’azione degli architetti che rifiutano di costruire – spiega Betsky -è ancora possibile trovare la dimensione critica di un lavoro che abbia connotazioni utopiche e distopiche, ma che più di ogni altra cosa sia una somma di immagini che non acquistano senso in alcun modo funzionale”.
Ma, pur tralasciando il paradosso di una provocazione affidata ad architetti – da Gehry ad Herzog&deMeuron od Hadid – che per commesse come lo stadio di Pechino o i nuovi musei di Abu Dabi sono disposti a passare sopra ogni remora politica, cosa ha a che vedere questa parodia dell’utopia con la stagione tragica della “catena di cristallo” degli espressionisti tedeschi: i primi, a cavallo della grande guerra, a decidere di astenersi dalla professione per rifondarla, subito dopo, sulla terra coltivata da lancinanti contraddizioni?
A un’epoca che è ritornata a pensare all’architettura come rifugio contro la catastrofe, Betsky sembra dunque offrire la sarcastica proposta di Maria Antonietta prima della catastrofe :”non hanno pane? Dategli brioches”.
L’architettura “non è il costruire”: deve andare oltre gli edifici – “perlopiù brutti, inutili e dispendiosi”. Ma lo scenario utopico proposto nelle due sezioni dell’Arsenale e del padiglione Italia ai Giardini rassomiglia più a una collazione di stereotipi che a vere e proprie sperimentazioni. Pochi esempi interessanti – le quintas popolari del cileno Aravena , gli edifici di riciclo dei 2012Architecten, le container-cities dei Lotek,ecc, - testimoni delle difficoltà del fare, galleggiano nell’iper-spazio di visioni che non anticipano il futuro ma riciclano vecchi riti per nuovi miti .
Come quelli della sostenibilità e dell’eco-consapevolezza, spesso parodie etiche di parole d’ordine agitate come turiboli d’incenso per scacciare i demoni della tecnologia.
Sull’ultimo numero di Neewsweek, Cathleen McGuigan ha sarcasticamente stigmatizzato l’ “eco-mania” con cui cerchiamo di assolvere sbrigativamente i nostri debiti verso la Natura e i principi tradizionali dell’arte del costruire :”raggiungere una vera sostenibilità è molto più complicato di quanto la pubblicità e il mercato suggeriscono”.
Non basta distribuire piante verdi sulle facciate, né piantare alberi sull’asfalto o coltivare cavoli sul terrazzo di casa: certo, se questo è lo scotto da pagare per una ricerca che si interroghi sulle distopie dell’urbanizzazione planetaria, siamo disposti a pagarlo. Ma la Biennale non è Floriade, e ciò che accade “là fuori” nei giardini sulla laguna , nonostante tutto, ci interessa assai.

[Fulvio Irace]

L’articolo è stato scritto per il domenicale del Sole 24 ore il 14 settembre 2008