Gregotti_L’architettura non è un’arte ornamentale

Biennale

Dopo una ventina d’anni di dure polemiche, che hanno punito alcuni di noi per la loro resistenza alle mode con evidenti esclusioni (ma si sa che l’esclusione è una delle punizioni applicate dalla cultura di massa a chi non è d’accordo con le opinioni della maggioranza rumorosa; per essa quello che non compare non esiste e quello che compare può essere facilmente falsificato) cominciano ad apparire segni di rivolta contro gli “archistar”, che hanno ridotto l’architettura a “design” ingrandito, i monumenti ad immagini di marca, rifiutando di fare del tessuto urbano un materiale essenziale al disegno della città, accettando la privatizzazione dello spazio pubblico, e predicando l’ideologia della deregolazione come estetica della constatazione.

Naturalmente qualcuno esagera e sbaglia obiettivo ed anziché prendersela con gli architetti se la prende con l’architettura come se, invece di essere una pratica artistica necessaria in quanto disciplina tra le più antiche, fosse direttamente colpevole di ogni delitto. Si tratta, è vero, della ripresa di una vecchia polemica che risale agli anni ’20 del secolo scorso, all’antipatia nei confronti dell’architettura dei surrealisti, al libro di Bataille ripreso da Denis Hollier negli anni ‘70 , sino a qualche aspetto di alcuni scritti di Paul Virilio. La critica più corretta se la prende invece con gli architetti, anche se in realtà sono (forse per fortuna) responsabili in piccolissima parte dei disastri urbani ed ambientali. Ma questo è fatale proprio a causa del nostro protagonismo che ci fa essere, nel bene e nel male, comunque residuo di una qualche traccia di cultura riconoscibile. Almeno altrettanto gravi mi sembrano però le responsabilità pubbliche e quelle degli speculatori: piccoli e grandi.

A queste critiche sembrava fare riferimento, anche se in modo confuso nelle sue dichiarazioni programmatiche, anche il responsabile della Biennale di Architettura di Venezia 2008, ma poi, per far fronte agli errori denunciati, anziché cercare la via della responsabilità civica, egli sembra volere accelerare la corsa verso l’abisso dell’identificazione dell’architettura con l’idea di immagine, indefinibile, aperta ed instabile, anche se un’architettura, come sappiamo da tremilacinquecento anni, ha un’immagine formalmente ben definita anche se certo non è solo un’immagine.
E’ vero: oltre alla città visibile, fisica, esiste una città dei flussi sempre più strutturalmente importante. Ma a ciascuno il suo compito. Gli architetti devono occuparsi della città visibile in cui quella non visibile abita e si confronta. Ma non fare un’architettura di imitazione del non visibile.
A distanza poi di quasi un secolo dal tempo delle avanguardie, non siamo più alimentati dal vento della rivoluzione politica ed artistica, dalla storia lunga e gloriosa delle utopie, siamo lontani da una società equa e liberata, ma anche dalla messa in discussione del ruolo stesso delle nostre pratiche artistiche nella società che è divenuta post-società di maggioranze rumorose ed omogenee.

No, caro Betsky, noi siamo oggi nell’epoca dell’impero del mercato, della finanza e dei consumi globali, siamo nel tempo della politica, del marketing e della pubblicità a cui una gran parte degli artisti, che confondono bizzarria e creatività, si adeguano, rispecchiando così fedelmente lo stato e le volontà dei poteri per i quali inoltre le proteste estetiche sono benvenuti ornamenti. Altro che “motivazioni proprie”, il nostro problema è di lottare per mezzo dell’architettura contro tutto questo e contro il fatto che dopo i rispecchiamenti ideologici, ciò che trionfa è il rispecchiamento dei mercati; compreso il mercato degli architetti. “L’architettura – dichiara solennemente Betsky – non è una questione tecnica ma culturale.” Lo ringraziamo di questa prodigiosa scoperta che, come quella che l’acqua è bagnata, sconvolge le nostre millenarie convinzioni. Come ho avuto più volte l’occasione di sottolineare, l’architettura sin dai tempi più antichi è stata sempre “ergon poietikon”, cioè costruire poeticamente. Il costruire è, cioè essenza costitutiva della pratica artistica dell’architettura. Separare i due fatti e la specificità che deriva dalla loro congiunzione è, come dimostra lo stato dell’architettura di più ampia diffusione mediatica dei nostri giorni, del tutto disastroso: per l’architettura e per la società in cui essa opera. Ci si riduce a pensare che tutto è già giustificato dalla propria autonoma presenza, naturalmente prodotto dalla libertà creativa senza limiti e che si tratta di riconoscere il valore emozionale: è l’invenzione dell’estetica della constatazione, la violazione delle regole fatta a pagamento.

Ancor meno condivisibile appare poi nella mostra il richiamo al mondo immaginario dei film e dell’arte (e aggiungerei della letteratura). Da essi credo la cultura dell’architettura dovrebbe prendere le distanze, non per negarne i valori importantissimi per il progetto ma a causa dell’insistente ed artificiosa confusione tra le diverse pratiche (una specie di “Gesamtkunstwerk” della multimedialità) che invece, proprio al fine di discutere utilmente, devono mantenere chiare le proprie identità.
È vero, “ci serve un’architettura che interroghi la realtà” come Betsky afferma, ma aggiungo io, che sappia, attraverso alla risoluzione che essa propone, assumere anche una distanza critica da essa, cioè proporre un nuovo possibile. E per far questo non vanno proprio incoraggiate “quelle visioni effimere” che quasi sempre non sono affatto oggi “prove tangibili di un mondo migliore” ma consolazioni puramente seduttive attorno allo stato delle cose e riduzione delle pratiche delle arti a pura comunicazione.

Qualche giorno fa Paolo Vagheggi su questo giornale ha dato una descrizione efficacemente terrificante dei contenuti della mostra che non vale certo la pena di ripetere qui e che la mia visita alla mostra ha pienamente confermato. Impossibile però fare grazia ai miei eventuali lettori dei commenti di alcuni settimanali che andrebbero premiati per l’eccezionale umorismo involontario.
Per esempio l’architetto Zaha Hadid che, intervistata dichiara che l’architettura è nata cinquecento anni or sono (sic!) quando si è distinta dall’edilizia. O commenti che si limitano ad elencare partecipanti come se si trattasse di un cocktail; o ancora chi dichiara, con disinvolto oblio di 3000 anni di storia, che finalmente con la Biennale “arte e cultura fanno parte dello stesso universo”.
Il tema del riuso dell’esistente, della salvaguardia delle risorse e della partecipazione dovrebbero essere alla base dei 55 esperimenti volti all’emergenza abitativa delle categorie più povere esposti nel padiglione Italia. E qualche proposta interessante è rintracciabile; peccato che il paradosso sia sempre in agguato: dal bricolage alla teoria della sparizione degli oggetti, alla “rete informatica” salva tutto. Il gusto poi del rovesciamento gratuito si estende alle Artiglierie dell’Arsenale anche alla Città di Roma come “Uneternal City”. Chi sa se questi architetti fantasiosi (che si appellano rovesciandone il senso per mezzo dell’”architettura virale” alla “Roma interrotta” di Giulio Carlo Argan) sanno che da pochi mesi esiste, approvato, un piano regolatore della città che forse varrebbe la pena di discutere in concreto.

Anche in questa Biennale dell’ “Architecture beyond Building” non manca certo qualche eccezione. Anzitutto la mostra dedicata a Sverre Fen, un autentico grande architetto della mia generazione. Poi vi sono padiglioni, come quello spagnolo o finlandese che espongono con onestà i risultati architettonici recenti dei loro paesi. In generale gli allestimenti in quanto tali sono assai migliorati come ad esempio quelli di Russia o Francia: anche se la prima con pessime architetture stile archistar o la seconda con architetture di qualità modesta. Migliorati gli allestimenti salvo quelli del padiglione Italia e dell’Arsenale in bilico tra la caricatura di esperimenti compiuti dalle arti visive una trentina d’anni or sono e la festa dell’oratorio.

La cosa migliore resta la dedica al grande Harald Szeemann di uno dei viali.
Anch’io alla pubblicazione del programma della Biennale 2008 avevo scritto con buon animo che forse “andare oltre l’edificio” volesse significare andare oltre le bizzarrie estetizzanti degli oggetti alla moda ingranditi ad architetture per occuparsi dei temi complessi del disegno urbano civile, della rinascita degli spazi pubblici della costruzione di “un ambiente circostante che permetta di sapere dove siamo”, ma evidentemente non avevo capito bene.
Sono desolato che la mia sembri essere l’unica voce critica, ma in questo mi sento solidale con Betsky (anche sono contrario alle sue posizioni) il cui estremismo potrebbe forse ampliare il dibattito in corso da molti anni. Anche se le proposte di questa Biennale sono , io credo, tragicamente sbagliate per la nostra disciplina e la sua pedagogia e per il futuro della città, da questo punto di vista la riflessione più seria mi sembra proprio quella fatta dal presidente Paolo Baratta, il quale sostiene giustamente che le informazioni ormai precedono le esposizioni e che forse è necessario fare delle Biennali qualcosa di completamente diverso, forse degli istituti di ricerca e sperimentazione ma soprattutto un luogo di confronto critico.. Sempre che non si tratti di riflessioni senza fondamenti, vetrine delle esibizioni di pseudo artisti, come nel caso della Biennale 2008.

Questo purtroppo vale anche per le Biennali delle arti visive, che possono prendere senso solo se costruite a partire da un rigoroso punto di vista critico e non solo informativo, anche se questo è molto difficile, a causa del confronto con gli interessi delle numerose partecipazioni straniere, che sono fondamentali per le fortune delle Biennali di Venezia.
Certamente l’assenza di una esposizione dell’oggetto nella sua fisicità ha sempre costituito per le mostre di architettura, un ostacolo serio ma la tentazione di sostituirlo con la scenografia o di assegnare un valore figurativo in sé alle testimonianze di produzione o di riproduzione (che talvolta qualcosa di esso possiede) è la strada che conduce appunto a ridurre l’architettura ad arte ornamentale.

[Vittorio Gregotti]

Articolo pubblicato su “Repubblica” il 15 settembre 2008, Archphoto ringrazia Vittorio Gregotti per aver concesso l’utilizzo del testo