Miki Fossati_Il teatro esploratore

Volterra Teatro

Il gioco impossibile: il teatro esploratore delle nostre pulsioni

La domanda che bisognerebbe sempre porsi all’interno dello spazio allestito è: “perché siamo qui?”. Tu attore teatrale, consumato da decenni di carriera, perché sei ancora qui? Voi signore impellicciate che ogni anno sbandierate quel terribile abbonamento, perché siete ancora qui?
E noi, dopo anni di consumo di sostanze teatrali più o meno abusive, perché non decidiamo di darci definitivamente un taglio?

Il teatro nell’era dei telesguatteri.

La biodiversità del panorama fruitivo teatrale si può ahimé riassumere in due grandi scuole di pensiero: coloro che cercano l’uguaglianza e coloro che cercano la differenza. Per non apparire proprio ingenui possiamo provare a dirlo diversamente: coloro che sono alla ricerca delle proprie aspirazioni e coloro che viceversa cercano una loro negazione.
Da questo punto di vista, è necessario notare, c’è molta più somiglianza di quel che si può credere tra “noi” e qualunque signora impellicciata che rinnova annualmente l’abbonamento. Con “noi” si intenda questi poveri esseri perlopiù digitali amanti della ricerca perpetua e della sperimentazione, figli di secondo letto di un Grotowski cresciuto in un immaginario contemporaneo fatto di stragi, mazzette, fantascienza, ottima pornografia, cartoni animati giapponesi, chiacchiere da bar, pessima pornografia, laboratori di ricerca, misteri, botte al G8. Ma anche invidia per i giardini pensili, perenne desiderio di giustizia, irriverente fiducia in un futuro migliore, anni ed anni di studio, fantascienza, buone maniere, carne e carnalità.
Entrambi, noi e le signore di cui sopra, cerchiamo nel teatro l’uguale, un uguale un po’ più perfetto o più correttamente imperfetto, ma pur sempre uguale. A noi l’”altro” ci spaventa e lo fuggiamo come la morte. La differenza su cosa significhi altro, che per loro potrebbe essere il sesso estremo, la modificazione corporale, la libertà di parola o la giustizia sociale, in questo caso non fa alcuna differenza.
Quelli che nel teatro cercano la diversità, quelli che nel quotidiano trovano solo grandi occasioni di novità, quelli che hanno lo spirito così aperto, così femmina, da poter portare dentro di sé umori totalmente estranei ed oggetti e dolori ed amori e sconfitte. Quelli che definiscono “gioia” un momento in cui piangere finalmente dopo anni di sacrifici. Il teatro è in mano loro.

Il teatro è quindi morto?

Ne ho conosciuti pochi, e tra questi solo pochissimi “fanno” teatro, gli altri si limitano a farsi fare teatro addosso, ed il loro corpo ne porta inequivocabili segni.
Eppure qualcosa accomuna e ci accomuna a queste persone: l’ininterrotto tentativo di sbrigliare le nostre pulsioni. La ricerca di un veicolo che non sia sotterraneo attraverso cui liberare un’energia non solo creativa che il mondo vuole ingabbiata e controllata.
Ognuno di noi ha il suo nemico, il suo legaccio da sciogliere, la sua platea di stolti da disprezzare. I nostri obiettivi preferiti sono la banalità, la riverenza gratuita, i cori da stadio e soprattutto un certo atteggiamento tipico nei confronti dell’atto creativo che tira sempre in ballo il “buon gusto”, i “limiti” di quello che si può o non si può dire, di quello che si può o non si può fare. Limiti che ci sono ma che condizionano più che altro la sfera del “dovere” più che quella del “potere”.
Il dovere. Qualcosa che ha perso, forse per sempre, l’aura di fascino degli anni passati, qualcosa che però sopravvive nelle pieghe un po’ sporche della società, proprio tra coloro che si sentono ripetere da sempre la solita manfrina.

Non sono un esperto di teatro ma…

Come direbbe il grande Yogi Berra “il novanta percento del teatro di produzione contemporaneo fa schifo, la restante metà è così così”.
Prendete in mano il cartellone di un qualunque teatro di produzione italiano: ora lasciatelo giù, pensateci un momento, riprendetelo in mano, rileggete e rimettetelo giù. Disgustoso.
Il dibattito è sempre se bisogna comunque rispettare il lavoro altrui o se c’è un margine per la rivolta, la negazione, il disprezzo: ne ho parlato con critici teatrali, attori, registi, responsabili di festival. La loro risposta è quasi sempre sì, (quindi?) la nostra è no. Non tutti possono permettersi il lusso di portare rispetto, indimenticabile il “Lo rispetto ma non lo contratto” di Mariví Martín, ma tutti dovrebbero essere liberi di provare un po’ di sana indignazione. Da qui ai pomodori marci, anche se sono meglio le uova marce vi capitasse mai, di spazio ce n’è e dovrebbe essere colmato dalla cosiddetta “critica”.
Se fare teatro è un’attività assurda e difficilissima, parlarne o peggio scriverne è qualcosa che ho sempre valutato ai limiti dell’impossibile. Ci sono testi che in qualche modo colgono alcuni degli spiriti che animano il nostro tempo anche se spesso non sono critica allo stato puro, qualunque cosa questo significhi, ma saggi storici o racconti di esperienze vissute più o meno in prima persona.
La critica dovrebbe essere lo strumento che ci permette di vedere al di là di tutto questo accumularsi di vecchiume svecchiato, costumi e scenografie, voci indecenti, inutili frastuoni, corpi orrendi. Come possa un uomo solo con la sua penna, o con il suo portatile se volete, riuscire a fare tutto questo è al di là non solo della mia comprensione ma anche della mia più fertile immaginazione.
Eppure la fuffa è utile, è perfino indispensabile, ne è permeato il teatro tutto, anche e soprattutto il cosiddetto “teatro di ricerca” che ci piace tanto, è il segnale che siamo liberi, che nella sperimentazione vale tutto e bisogna provare tutto. Contrariamente all’architettura però, dove il minimo sociale è rappresentato dal fatto che un edificio per quanto assurdo deve almeno stare in piedi, nel teatro non è raro imbattersi in elefantiaci castelli che si sbriciolano al primo cervello che si mette in moto.
Vale la pena osservare come questa capacità di discriminare la qualità da tutto quello che le sta intorno purtroppo non sia in genere presente a nessun livello, dalla politica via via giù fino ai direttori artistici, passando per i media di vecchia e di nuova generazione. Il lavoro è duro ed è necessario, perché il teatro una funzione importante la riveste ancora, anche di questi tempi, e deve venir valorizzata.

Non c’è libertà che non passi dalla libertà sessuale (Adele Faccio).

Dire che assistere ad uno spettacolo teatrale ben riuscito sia come avere un rapporto sessuale ben riuscito è una palese mancanza di rispetto per l’intelligenza dei presenti: il teatro è meglio.
Senza dubbio però il teatro condivide con il sesso una serie di trame comunicative e di risvolti sentimentali, non dico psicologici perché non so cosa significhi, tanto che spesso il sesso viene grezzamente utilizzato come metafora per descrivere un evento teatrale o performativo più in generale (l’”orgasmo” dell’applauso, l’attore che “si offre”, eccetera).
In particolare condividono la difficoltà nel dare una definizione precisa. Il teatro: (almeno) un attore, (almeno) uno spettatore, (almeno) un luogo. Il sesso: (almeno) un attore che è anche spettatore, (almeno) un luogo.
Entrambi provengono da una pulsione fondamentale che molto probabilmente è la stessa. Entrambi, quando funzionano, trasformano l’energia di questa pulsione in qualcosa che coinvolge corpo, mente, anima, energia, memoria.
Entrambi necessitano di un passaggio fondante attraverso cui bisogna passare con un biglietto di sola andata, il “mettersi in gioco”. E se per qualcuno il mettersi in gioco può già essere l’interpretazione di una scenetta in una serata tra amici, per altri l’esplorazione sensoriale, fisica e sentimentale che deriva da questo mettersi in gioco può andare molto in là fino a toccare la materia che compone il nostro lato oscuro: il desiderio di dominazione o sottomissione, la violenza, l’abbandono e per quelli più forti, ma non solo per loro, la morte. Tutte componenti in comune che rendono la materia teatrale molto più calda di quanto possa trasparire dai cartelloni ufficiali.
Ed è questa la funzione che ancora non si è perduta, e non si perderà presto, dell’arte teatrale. Ci mostra, coinvolgendoci, quali sono le seduzioni alle quali dobbiamo imparare ad abbandonarci, qual è il corpo che dobbiamo imparare ad eccitare, qual è il sangue che dobbiamo cominciare a bere.
Questo discorso vale, rafforzato, anche per chi calca le assi del palco, in un pericoloso gioco di aperture e chiusure. Quanto più sarò aperto tanto più facile sarà strapparmi il cuore dal petto e quanto più intensa sarà l’esperienza per tutti. Il palco è l’unico posto in cui poter vedere le persone essere veramente sé stesse.
Volevate sentirvi davvero vivi? il gioco è impossibile, a teatro non succede mai niente.

Armando Punzo, Sarah Kane

Eppure la parola “libertà” si declina in molti modi e questa impossibilità per qualcuno non è che un’occasione per mettersi alla prova.
Il teatro in carcere di Punzo ci sovrasta con ulteriori impossibilità tutte da esplorare e con ostacoli disseminati dentro e fuori le mura del penitenziario. Che sapore può avere la parola “libertà”? in che senso gli attori della Compagnia delle Fortezza sono liberi? perché nessuno sembra capire che il filo di questo rasoio (o di altri analoghi) è il nucleo caldo del teatro contemporaneo money can’t buy?
La clandestinità allora è l’unico rimedio. Bisogna far sparire una parte o tutto il nostro essere a favore di un compito grande, più grande di tutti noi, fino all’estremo del totale annientamento.
In questo senso i vent’anni passati in carcere da Punzo mi sono sempre sembrati non distanti dalla polvere nella quale Sarah Kane decise di trasformarsi una mattina d’inverno alle 4 e 48. Nè mi sembra diversa l’indifferenza che ad entrambi viene quotidianamente offerta su un piatto d’argento dai cosiddetti intellettuali, esperti, opinion-makers che dir si voglia.
Il prezzo totale della futura impalcatura teatrale dovrà comprendere un compenso per tutto questo dolore, da far pagare in piccole comode rate a tutti quelli che sono incapaci di aprire gli occhi se non quando è troppo tardi, se non quando la polvere è tornata alla polvere.
Siamo vivi e gli unici posti in cui succede ancora qualcosa si chiamano “teatri”.

[Miki Fossati]

Multimediografia:

Jerzy Grotowski su Wikipedia it: http://it.wikipedia.org/wiki/Jerzy_Grotowski
Yogi Berra su Wikiquote: http://en.wikiquote.org/wiki/Yogi_Berra
Adele Faccio, libertà sessuale, tribuna politica 1976: http://www.youtube.com/watch?v=Aui8F9yU6GI
Festival Volterrateatro: http://www.volterrateatro.it/
Compagnia della Fortezza: http://www.compagniadellafortezza.org/
Blog di Armando Punzo: http://www.compagniadellafortezza.org/blog/
Sarah Kane su Wikipedia en: http://en.wikipedia.org/wiki/Sarah_Kane

Esempi di testi che in qualche modo colgono alcuni degli spiriti che animano il nostro tempo:

Marco De Marinis, In cerca dell’attore (su Ibs): http://www.ibs.it/code/9788883194474/de-marinis-marco/cerca-dell-attore.html
Eugenio Barba, La canoa di carta (su Ibs): http://www.ibs.it/code/9788815097880/barba-eugenio/canoa-carta-trattato.html
Oida Yoshi, Lorna Marshall, L’attore invisibile (su Ibs): http://www.ibs.it/code/9788883194764/oida-yoshi/attore-invisibile.html