Carla Subrizi_Ora, le artiste donne ci sono…
Elizabeth Aro, Mundo, 2004, feltro, diametro 300 cm
Ora, le artiste donne ci sono e sono tante
Le curatrici si sono unite, in occasione di Dissertare/Disertare, non per scegliere ma per disporre in una sorta di archivio vivente idee, spunti, questioni sempre più ricorrenti nel panorama dell’arte attuale. Non hanno dunque scelto ma hanno coinvolto associazioni culturali, curatori, diversi protagonisti del mondo dell’arte, per chiedere proposte, segnalazioni, idee. Quindi si è determinato un dispositivo concentrico, circolare, a catena, che ha costruito alla fine una mostra significativa per capire cosa sta avvenendo tra le ricerche più recenti dell’arte al femminile. Questo è dunque un primo punto da sottolineare perché la costruzione di un progetto, non cosa costruisce ma come è costruito, è già segno di una disposizione, di un punto di vista e di partenza. Le curatrici hanno quindi sottratto un po’ di se stesse per lasciare spazio a un montaggio, a un assemblaggio che si è venuto costruendo a poco a poco attraverso la confluenza di più forze, energie, risorse. Quindi, piuttosto che operare una selezione di opere e artiste, si sono coinvolti diversi contesti per far nascere in un dialogo molto allargato una mostra che si è posta come definizione di una mappa di ricerche, orizzontale e trasversale, estesa e diramata: in una parola plurale. Da un po’ di tempo mi interessano progetti di questo tipo o forme di costruzione di mostre, eventi, discussioni che si pongano l’obiettivo e non la sola premessa di costruire nuove forme di soggettività sia per l’artista, che per l’opera, che per il pubblico. Qui è stata la pratica curatoriale a porsi come progetto condiviso e condivisa è stata anche la mostra che ha dunque fatto incontrare più realtà artistiche, da prospettive diverse. Penso che nella progettualità che coinvolge sin dall’inizio, sin dalla concezione, diverse competenze per produrre una sorta di gestione collettiva e molteplice, si possano trovare nuove potenzialità per la costruzione di nuove forme di soggettività anche curatoriali.
Questo complesso e articolato dispositivo espositivo ha messo dunque in mostra un aspetto particolare della creatività contemporanea ovvero quella che parte dalla sensibilità, dal punto di vista, dalla specificità di essere donne, soggetti dunque, in un certo senso, emergenti come sono state emergenti tutte quelle situazioni culturali che si sono proposte e esposte con sempre maggiore forza soprattutto nella seconda metà del XX secolo. Quindi assistiamo (oramai da qualche decennio) a qualcosa di molto nuovo. Opportuno dedicare dunque uno sguardo e uno spazio particolare a questo universo, assolutamente non accomunabile sotto temi o questioni e che invece si è presentato subito come complesso, eterogeneo, fatto di tante differenze piuttosto che su pochi punti riconducibili a medesimi problemi.
Linda Nochlin nel 1971 già si era chiesta “perché non ci sono state grandi artiste donne”. La domanda era naturalmente non rivolta per sottolineare uno stato di fatto ma per indagare, epistemologicamente, quali dinamiche culturali avessero per millenni prodotto e riprodotto un medesimo stereotipo culturale, assunto per secoli, come il punto di vista principale di riferimento:“il punto di vista del maschio bianco occidentale” (Nochlin, 1971). Ora a più di trenta anni molte sono le cose cambiate: i punti di vista su queste questioni si sono rafforzati, estesi. Le questioni si sono storicizzate. C’è una storia di percorsi teorici, voci di resistenza, pratiche di analisi che dagli anni Sessanta e Settanta in particolare ha disegnato una nuova prospettiva, un diverso taglio dei problemi, perché era il punto di vista, che li considerava e analizzava sotto altre angolazioni, a far emergere questioni fino ad allora poco o affatto considerate. Gruppi, individui fino a quei decenni marginalizzati, sono, seppur sempre da posizioni ancora di marginalità, non più ignorati: non si può più far finta di dimenticarne la sostanza, la specificità. Quello che è stato fondamentale è l’aver collocato il punto di vista, ovvero nel genere, nella sessualità, nella storia, nella cultura di “chi parla”. La soggettività si è sfaccettata in molte articolazioni, seguendo le quali, è possibile tentare di capire “chi parli” e “a chi” e non soltanto focalizzare l’attenzione (e il discorso) sulle cose dette.
I processi di enunciazione, le pratiche di costruzione della significazione hanno messo in disparte gli enunciati, i significati e soprattutto la loro definibilità e l’assoluta certezza che a partire dalle cose dette o fatte potessero essere analizzati oggetti, effetti, esiti. Non era soltanto la questione del ricongiungimento dell’oggetto (anche dell’opera, della parola, delle varie forme che il linguaggio produce) al contesto ma soprattutto dell’inseparabilità dell’oggetto da altri oggetti, dall’oggetto dai soggetti che lo usano e lo condividono, dai soggetti che lo producono. L’analisi dei processi interoggettivi e intersoggettivi ha portato alla consapevolezza che ci sono un oggetto, un contesto ma, soprattutto processi di enunciazione, attraverso i quali si produce cambiamento, trasformazione, perdita e riacquisizione di identità. La soggettività si costruisce attraverso il linguaggio, aveva già detto Saussure.
Dalle manifestazioni femministe degli anni Settanta, dalle molte pratiche e strategie di resistenza che sono state costruite e portate nello spazio pubblico, ad essere rivendicato non era soltanto un soggetto “donna” ma una soggettività femminile da scoprire: eterogenea, differenziata a seconda dei contesti, delle storie, delle forme di vita, del sesso e del genere. Il nodo fondamentale non era dunque quello di opporre al “punto di vista del maschio bianco occidentale” un punto di vista femminile, ma di mettere in crisi tutte le costruzioni di identità, sia maschili che femminili che partivano da punti di vista assoluti, generali, onnicomprensivi. L’arte, dal suo punto di vista, con i suoi mezzi, il suo linguaggio e le sue potenzialità ha spesso indicato, nuovi mondi possibili, nuove forme di soggettività. Lo ha fatto specialmente quando riusciva a inserirsi nella vita, nelle questioni centrali dell’epoca del postcolonialismo e della mondializzazione, per far leva, attraverso pratiche sperimentali, su comportamenti, emozioni, sistemi culturali. L’arte deve infatti andare sempre un po’ più in là dello stato di fatto, oltre le convenzioni o anche oltre ciò che, prima sperimentato, è poi assimilato (e devitalizzato) all’interno delle convenzioni e dei sistemi della cultura acquisiti e legittimati.
Differenze, soggettività plurali (Cavarero, Butler), identità mutanti (Donna Haraway), soggettività nomadi (Braidotti), transculturali e transgeografiche, hanno dunque messo in crisi la logica binaria e dualistica della cultura occidentale. Non era questione di definire il maschile rispetto al femminile, ma le soggettività a partire dal genere, dal sesso, dalla cultura, dalle storie individuali e collettive. Questo processo di individuazione di soggettività è stato dunque avanzato con forza e con punti di vista teorici e pratici fondamentali proprio dalle donne, dalle molte specificità della “femminilità”, non tanto per la definizione dell’essere donna, ma per attivare processi verso un divenire-donna. Tutto quello che negli anni Settanta era ancora vissuto nella marginalità più totale (nelle scuole classi maschili e femminili, suicidi giovanili per la scoperta della propria omosessualità, poche possibilità per le donne di ricoprire ruoli professionali –nel mondo medico, accademico, scientifico, ecc.- da sempre rivestiti dagli uomini, poco spazio nei ruoli pubblici alle persone di altro genere o colore) oggi ha conquistato posizioni, voce, presenza.
Allo stesso modo, la quasi assoluta assenza di donne artiste nella storia dell’arte occidentale, e la invece massiccia presenza di artiste negli ultimi decenni ci fa dunque porre la domanda da un altro punto di vista, diverso da quello della Nochlin del 1971. Oggi potremmo essere appagati, soddisfatti di questa presenza estesa di voci femminili. Lo siamo ma non basta. Le artiste occupano posizioni prestigiose nel mondo dell’arte ma tale successo può far venir meno le questioni, i problemi. Donne al potere (nei più importanti Stati del mondo) o in corsa per divenire tali, donne-protagoniste della moda, dello spettacolo, normalizzano e devitalizzano in una apparenza solo superficialmente appagante, le premesse, la ricerca, la sperimentazione dell’inedito, non nel senso del nuovo o dell’innovativo, ma di quello di cui ancora non si è fatta sufficiente esperienza.
Questa mostra ha dunque tentato di attraversare un panorama complesso, fatto di differenze non riconducibili a questioni, ma che, come abbiamo visto dai molti lavori presentati, ci portano ai margini delle questioni centrali, a spostarci sui bordi dei problemi per, da queste lateralità, cambiare i punti di vista. La mostra ci ha posto dunque dinanzi a molti temi ma soprattutto a molti modi di osservare, leggere, interpretare le stesse questioni: la malattia (Ramacciotti), l’abuso di sostanze (Rukavina), il rapporto madre-figlia (Ricci), la donna in rapporto alla gravidanza e il divenire-madre (Alberti), la storia o microstoria individuale e la voce come corpo e non come logos dunque restituita alla fisicità e all’affettività (Cattani), il gesto quotidiano (Salini), la costruzione di identità compromessa da regole e convenzioni sociali strette e collocate sempre nei medesimi punti di vista (Ricciardi), la differenza tra nord e sud del mondo (Aro), tra occidenti e orienti (Perilli) e le forme di slittamento e perdita di confini tra di essi, il nome e l’identità (Ferratto), il volto (proprio) e la maschera, il sogno (Glorioso) e la ricerca di “equilibrio” e la precarietà (Nicoletta, Gruber, Valenti), la violenza e il “tragico” quotidiano (Mazzoleni), la follia e la stabilità sociale (Romano), l’invasione dello spazio pubblico (Paloscia), il corpo come qualcosa che si pensa debba essere e che invece può essere (Mineva, Panisson, Russo), lo spazio intimo e domestico (Oravecz, Visani, Usunier), l’identità a partire dal cibo (Cini), gli spazi emotivi, invisibili della comunicazione (Fadda), la transessualità e la differenza (McGregor), il travestimento e il calarsi in altre identità (Muzi), gli oggetti come espressione di identità culturale (Motaria, Torregrossa), la memoria sociale (Perrelli), la scrittura di sé (Cologni), sono soltanto alcuni degli aspetti che emergono dalle opere delle artiste in mostra. Le tecniche usate, molteplici anch’esse, testimoniano inoltre della diversità dei mezzi come diversità di espressione, di intenti e potenzialità di costruzione o ricostruzione di identità, immaginari, situazioni.
Restiamo dunque, dinanzi a tanta eterogeneità (non è possibile in questo testo citare tutto ma quanto ho detto fino ad ora abbraccia la mostra, nel suo complesso e si rivolge a tutti i lavori presentati), da una parte disorientati dall’altra persuasi che proprio questa differenza, corale e molteplice, possa costituire un punto di partenza, un nuovo punto di avvio verso scenari non ancora realizzati di un divenire delle soggettività sia individuali che collettive.
[Carla Subrizi]
Carla Subrizi insegna Storia e Semiologia dell’arte contemporanea presso “La Sapienza”, Università di Roma, è direttrice artistica della Fondazione Baruchello. Tra le sue ultime pubblicazioni: “Il corpo disperso dell’arte” (Lithos, 2000), “Baruchello e Grifi. Verifica incerta. L’arte oltre i confini del cinema” (DeriveApprodi, 2004).