Giovanni Bartolozzi_Fuori dal letargo. Exit

Un momento di riflessione sull’architettura contemporanea a Firenze e sullo stato delle sue ricerche, dentro e fuori la Facoltà di Architettura, si attendeva da decenni. Migliori risultati ancora si attendono, ma sulla sfuocata scena fiorentina, questa stagione informatizzata dell’architettura ha indubbiamente prodotto dei risultati interessanti sui quali è doveroso soffermarsi. Dentro questa cornice, Florence Exit è un evento unico nel suo genere, perché legato a questo particolare periodo di transizione, di mutamenti, di nuove sostanze. Non solo, al di fuori di bilanci e conclusioni, esso è vessillo di un risveglio deciso, di un accumulo affannoso di energia che in questa occasione vuole e deve manifestarsi nella sua eterogenea compiutezza.

Florence Exit, inoltre, viene da lontano e lontano vuole arrivare. Da una parte trattiene in filigrana l’eredità dei maestri - tra tutti il binomio Ricci-Savioli - filtrata dall’esperienza radicale che proprio oggi torna all’attenzione, e la restituisce in forme e declinazioni alternative; dall’altra proietta sullo scenario fiorentino un panorama frastagliato e complesso, che utilizza una molteplicità di livelli e codici espressivi: dalle realizzazioni di giovanissimi architetti come Lani, Ruffi, Metrogramma, alle installazioni di zpstudio, Acme, NemoGruppo, passando per le forme di arte partecipata di Arabeschi di latte, fino alle idee visionarie di Hov e ai diagrammi di Visioteque.

Questa diversità, questa ricchezza di linguaggi che va sempre oltre le obsolete correnti linguistiche di derivazione moderna e postmoderna ancora alla moda, è convincente almeno per due motivi. Il primo è che testimonia in modo evidente una presenza forte, che sintonizza con la complessità contemporanea e che non si chiude mai nel baratro dell’architettura per l’architettura, ma spazia, intreccia discipline, stratifica idee e conoscenze, utilizza mezzi e potenzialità della tecnologia più avanzata; la seconda è che lascia emergere un minimo comune denominatore, non tanto o non solo nel medesimo bacino formativo, ma soprattutto nella volontà di uscire da quell’insopportabile cappa di pessimismo diffuso che strangola la città di Firenze.

Nel 1995, in occasione della mostra dedicata a Leonardo Savioli, Alberto Breschi individuava una linea di continuità potenziale e scriveva: “E questo, forse, è l’insegnamento più importante: il solco che, assieme agli altri docenti della “scuola fiorentina” di quegli anni, è stato tracciato e deve essere ripreso e, se possibile, ampliato. Il solco che potrebbe essere un segnale capace di rappresentare quella continuità di ricerca, identità e significato, a Firenze per tutta una generazione di architetti dentro e fuori la Facoltà di Architettura”.

Negli ultimi anni quel solco è stato occultato, ripetutamente sommerso per una molteplicità di ragioni. Ma la sua impronta e la sua direzione sono sempre rimaste una presenza magnetica, anche grazie ad alcune esperienze didattiche che nei decenni successivi ne hanno mantenuto lo spirito. Insomma, quel solco c’era, semplicemente andava cercato.

Alcuni corsi tenuti alla Facoltà di Architettura di Firenze, proprio sulla scia delle turbolente esperienze didattiche di Ricci e Savioli, hanno raggiunto l’apice sul finire degli anni Ottanta, in contrasto con le forti ondate postmoderne. I corsi di Remo Buti, per esempio, hanno forgiato buona parte dei più noti designer italiani. “Egli è il padre del purismo fiorentino - scriveva Andrea Branzi e continuava -: direi infatti che Remo Buti è un grande riduttore didattico, in grado cioè di ricostruire linguaggi rigorosi sul suono di pochissimi elementi; un uomo in grigio come si direbbe: un maestro apparentemente defilato, che occorre scoprire; un ghignante fustigatore dell’eccesso”.

I corsi di progettazione di Alberto Breschi sono stati un costante laboratorio su Firenze e su alcuni nodi strategici della città. Dalle Nuove figurazioni urbane alle diverse ipotesi museografiche per Firenze, questi corsi hanno esplorato e per certi versi continuato sul terreno dell’astrazione e della vitale simbiosi tra architettura e arti figurative, nel tentativo continuo di restituire a Firenze la sua dimensione contemporanea. Si pensi ancora alle esercitazioni spericolate e affascinanti di Marino Moretti che hanno aperto a diversi giovani la strada verso importati mete internazionali, e a tanti altri docenti che in vario modo e in una dimensione più solitaria hanno proseguito sulla strada della sperimentazione.

Dai primi anni Novanta ai nostri giorni, Firenze e la Facoltà di Architettura hanno attraversato un periodo silente di retroguardia, ma oggi, soprattutto tra le giovani generazioni, qualcosa sembra muoversi nella giusta direzione. Se da una parte il sistema universitario italiano ha messo in crisi la figura stessa dello studente e lo ha calato in una dimensione che sempre più tende a quella della scuola dell’obbligo, dall’altra i giovani architetti hanno preso coscienza delle reali difficoltà di operare nella pratica del costruito, e di conseguenza hanno intrapreso strade nuove e alternative. Perfino l’esercizio della professione ha subito negli ultimi anni un processo di metamorfosi tanto complesso da rendere inopportuno ogni confronto con l’attività dei maestri.

Tutto, oggi, va ripensato - ed è quello che si sta facendo - sulla base dei parametri sociali di cui disponiamo; si rifletta, per esempio, sulle modalità con cui la velocità nelle comunicazioni ha riorganizzato la struttura associativa dei giovani e degli studi di architettura. Gli architetti si riuniscono in network mappando estese porzioni di territorio: Avatar lavora tra Firenze e Parigi, Spin+ tra Firenze e Londra, mentre alcuni studi che gravitano su Firenze hanno costituito il network 8 x 8, per imbrigliare energie, idee e possibilità espressive. Questa, in fondo, è una delle riflessioni che emerge dalla mostra, a cui se ne potrebbero aggiungere tante altre. Si tratta naturalmente di letture trasversali che sono fattibili perché, una volta tanto, si è scelta una strada propositiva, fresca, coraggiosa. Si è scelta cioè la strada dei giovani, delle nuove proposte, della rigenerazione professionale, senza insistere troppo sulle forzature paternalistiche dell’ambiente culturale di provenienza. Questa finestra sul mondo dei giovani avvierà, finalmente, uno svecchiamento del sistema e farà da trampolino a nuove occasioni di dibattito.

Infiniti gli spunti che emergono da questo diorama di architetti: si tratta di proposte progettuali in piena formazione, ingenue per certi versi, ma indicatrici di un diverso modo di interrogarsi, e sintomatiche di approcci progettuali differenti, originali, imprevedibili. I Metrogramma proiettano sui contesti urbani scenari di astrazione, e da questi ne deducono direzioni progettuali; gli Spin+ attraverso l’utilizzo di software di modellazione, mettono a punto sistemi di relazioni che divengono effettive trame spaziali.
Arabeschi di latte e Visioteque incarnano invece una forma di progetto alternativa, che trae linfa dalla dimensione sociale e partecipativa delle realtà urbane, e che trova numerosi riferimenti nell’attuale scena italiana e internazionale; MDU Architetti e zpstudio, nella loro diversità, sono accomunati da un’idea di progetto che diviene “processo” e si rigenera fino a una pulizia segnica che ne diviene il tratto distintivo.

Avatar sperimenta forme di flessibilità e teorizza una sorta di architettura elastica che identifica nell’idea di EslastiCity e, nella stessa direzione, Acme e nuvolaB e Nemogruppo, attraverso installazioni e progetti, propongono spazi facilmente riconfigurabili, privilegiando intrecci disciplinari e sistemi aperti di interazione con l’utenza e il paesaggio. Barbieri e Load si confrontano col caos degli scenari urbani nel tentativo afferrare l’essenza della dimensione metropolitana, coi suoi frenetici flussi. In una dimensione quasi onirica, Hov mette a fuoco una molteplicità di paesaggi mentali che vanno intesi anzitutto come catalizzatori progettuali, mentre i rimanenti architetti lavorano individualmente in varie direzioni che oscillano dalla sensibilità plastica e materica di AND Studio, Ruffi e GTA architettura alla continuità delle superfici e ai forti contrasti di MetrOffice e Map Architetti; dalle dissolvenze materiche e concettuali di Lani, fino alle promettenti, giovanissime proposte di Cesaro ed Eutropia.

Insomma, come si è detto, il panorama è ricco e articolato, ad un’analisi più approfondita perfino dispersivo, ma sancisce un effettivo momento di riflessione e apertura su alcune problematiche che caratterizzeranno l’architettura di domani: anzitutto sulla restituzione dello spazio pubblico e sulle sue modalità di interazione; sulla sensibilità ecologica non più intesa quale espediente aggiuntivo, ma come elemento permeante, in grado di fornire input progettuali; e infine su una “nuova estetica urbana”, che soprattutto alle nostre latitudini, sappia confrontarsi coraggiosamente con un passato tanto glorioso quanto problematico.

In conclusione, come tutti gli eventi, Florence Exit contiene al suo interno una molteplicità di intrecci, di illusioni, di speranze e di propositi. Ma il messaggio più autentico che da esso emerge con prepotenza è rivolto alla città di Firenze, alla sua amministrazione, alle sue istituzioni e in particolar modo a quella Facoltà di Architettura che è stata un imprescindibile motore e che da qualche anno, attraverso il Corso di Laurea Triennale, ha avviato un processo di rinnovamento. Firenze dunque, una città che negli ultimi decenni si è mostrata conservatrice, ingenerosa e scettica nei confronti dell’architettura contemporanea, quali contributi può ricevere da questo evento? Uno su tutti, il più dirompente è quello di toccare con mano e prendere responsabilmente coscienza della volontà, delle potenzialità e anche della qualità che la mostra mette insieme, raggruppando giovani architetti che negli ultimi anni si sono rimboccati le maniche a fronte di uno scenario politico poco promettente, traballante ed incerto per i giovani del nostro Paese.

Tutti questi architetti non attendono che partecipare attivamente a quei processi di rigenerazione urbana, avviati anche attraverso piccole opportunità espressive, che stanno coinvolgendo tutte le capitali europee e che sarebbero auspicabili anche per Firenze.
[Giovanni Bartolozzi]

la fotografia dell’allestimento è di Valentina Muscedra

La mostra è ospitata all’Affratellamento (in via Orsini 73, Firenze) e durerà fino al 31 maggio 2007, uno spazio storico che ha visto nascere le avanguardie radicali e che recentemente ristrutturato ritorna alla città, con questa mostra, dopo molti anni.

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