Alessandro Lanzetta_La Martella
Canto del cigno del neorealismo architettonico, il Borgo la Martella a Matera (1951-54) di Ludovico Quaroni (1911-1987) è una splendida opera assolutamente contraddittoria, come del resto l’intera produzione architettonica del Maestro romano. Il neorealismo del primo dopoguerra italiano fu un tentativo di superare le due semplificazioni che avevano ingabbiato l’architettura e l’urbanistica italiana e che erano considerate inadeguate nella ricostruzione postbellica: il passatismo eclettico classicista da un lato e il modernismo puro-razionalista dall’altro. Attraverso una lingua nuova, popolare e vernacolare, con funzione di critica al passato e al presente, gli architetti neorealisti pensavano ad un nuovo dialogo democratico tra architettura e società che potesse dar luogo ad una unità di professione, ricerca e impegno politico nella cultura architettonica italiana. Un tentativo che nella sua più nota manifestazione, il Quartire INA-CASA al Tiburtino a Roma, realizzato nel 1949 da Quaroni con M. Ridolfi, funzionò solo come linguaggio.
Qui fu realizzato un poetico brano di città in forma di paese, una esperienza con una certa qualità espressiva ma che, inserita in un ambiente urbano in rapida espansione come quello delle periferie romane, risultava strapaesano; un’opera d’arte che attraverso un linguaggio basso criticava una modernità tecnicista alienante che metteva in secondo piano l’animo e i sentimenti umani, con il risultato però di creare un ambiente antiurbano, alieno al resto della città. Lo stesso Quaroni criticherà il quartiere più volte, in particolare nel saggio Il paese dei barocchi, dove dichiara il fallimento dell’operazione.
Il Borgo la Martella rappresenta un superamento di questa esperienza, un assunzione di responsabilità disciplinare attuato attraverso un abbandono della poesia e un confronto duro con la politica e il potere. L’uso di un linguaggio vernacolare, chiaramente riferito alla tradizione mediterranea, qui non è frutto di una scelta poetica e astratta come nel Tiburtino, ma risulta essere frutto dell’interpretazione moderna di una tradizione urbana viva e radicata, da inserire in un nuovo contesto rurale attraverso i più aggiornati criteri della tecnica urbanistica e architettonica dell’epoca.
L’intervento infatti nasce nell’ambito dei dibattiti sull’emergenza abitativa del dopoguerra, a seguito della commissione di inchiesta sulla miseria che proprio nel caso limite dei Sassi di Matera vedeva la partecipazione di un gruppo di ricerca guidato da Quaroni e ispirato da Adriano Olivetti. L’idea di dare una continuità al modello comunitario tradizionale locale è l’asse portante di tutto l’intervento, che lo colloca in una particolare posizione disciplinare, né opposta né conforme ma collaterale alla modernità.
La forma del borgo nasce come compromesso tra l’aspirazione dei progettisti di riproporre l’incredibile modello urbano dei Sassi e la preferenza del potere politico dell’epoca sul tipo rurale della casa unifamiliare isolata, basato sulla centralità della famiglia, un modello sociale prima che insediativo, che permetteva un maggiore controllo, come già sperimentato nelle città di nuova fondazione del periodo fascista.
Attraverso l’uso di forme apparentemente spontanee, vi fu un tentativo di replicare la scala umana delle “unità di vicinato” e la libertà di movimento del vecchio quartiere materese, ricreando la complessità dell’ambiente urbano attraverso l’invenzione di un paesaggio che contenesse contemporaneamente memoria delle condizioni abitative premoderne e verosimiglianza con la condizione rurale moderna in cui si insediava.
Lungo le strade di un tessuto a maglie larghe, la libertà edilizia dei Sassi venne riproposta attraverso un sistema di case a due piani di pianta rettangolare con un rapporto di 1:2 tra i lati, tale da poter essere abbinate una volta sul lato lungo a formare un massiccio edificio quadrato con un tetto a doppia falda, un’altra sul lato corto a produrre un edificio allungato coperto a due falde su ogni singola unità, così da ottenere un caratteristico tetto a doppio timpano. Le stalle, accoppiate e coperte da un tetto a cuspide sulla intersezione dei due volumi, erano separate dalle case per le moderne norme igieniche ma comunque in diretta comunicazione, come era uso nei Sassi.
Il vario gioco dei volumi edilizi e dei tetti, disposti sui bordi delle strade senza ricerca di allineamenti, creò un vivo ambiente urbano complesso e sinuoso, con strozzature e slarghi lungo le vie. A completare la diversificazione, si usarono cinque tinte diverse per le case in maniera tale da non ripeterne mai una uguale di seguito. Come nel vecchio insediamento urbano, nelle stradine erano disposti dei forni a legna comuni, che fungevano da punti di aggregazione per le donne della comunità. A coronamento del borgo, nella parte più elevata, fu posta la chiesa, un piccolo capolavoro dell’architettura moderna del Novecento, che assunse la funzione di segnale sia all’interno del tessuto edilizio che nel paesaggio, influenzando i processi di identificazione urbana in modo molto simile alle chiese rupestri nei vari settori dei Sassi e realizzando l’unità figurativa del borgo.
L’edificio sacro, composto da un grande ingresso, che estende al sagrato lo spazio per i fedeli nelle grandi occasioni, un’aula e una torre tiburio, possiede all’interno una spazialità semplice fondata sulla distinzione tra questi ultimi: la navata unica, bassa, poco illuminata e disadorna, è lo spazio dei fedeli, mentre la torre, un vero e proprio pozzo di luce, è il luogo della ricchezza, dell’ornamento, della luminosità e della trascendenza, che emerge all’esterno con una forma simile a un granaio in semplici blocchetti di tufo e traduce i valori alti dell’architettura religiosa nel linguaggio popolare, ponendosi al centro dell’edificio e dell’intero paesaggio.
In questo opera si manifesta apertamente la consueta incertezza quaroniana tra linguaggio razionalista e linguaggio popolare, tra moderno e vernacolare, che contraddistingue l’edificio, l’intero complesso e forse l’intera produzione dell’architetto. Questa posizione media tra modernità e arcaismo è paradigmatica per tutta una stagione dell’architettura italiana, che cercò invano una via praticabile alla modernità attraverso una lucida e altissima sperimentazione di linguaggi alternativi, ma che spesso uccise involontariamente in culla quella stessa qualità architettonica diffusa che ricercava.
A tanti anni di distanza, sorge il sospetto che il desolante e volgare panorama dell’edilizia contemporanea, osservabile appena si esce dai centri compatti delle città, sia in parte il figlio degenere, e sicuramente non desiderato, di quel poetico (apparente) rifiuto della modernità che molti protagonisti del dibattito dell’epoca sostennero, offrendo inconsciamente una sorta di copertura culturale a questa indecente produzione edilizia. Eppure è proprio da quelle ricerche che forse bisognerebbe ripartire per porvi rimedio.
Alessandro Lanzetta, architetto e fotografo concentra la sua attenzione sull’influenza della cultura del Mediterraneo nell’architettura contemporanea, questo tema diventa anche la matrice della sua ricerca progettuale.
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