Monia Cappuccini_intervista a Paul Virilio

Paul Virilio, Ground Zero 2002

Viviamo nel secolo della paura. A differenza delle matematiche, della fisica e della biologia, che hanno dominato i secoli precedenti, il sentimento di angoscia dilagante non può essere considerato alla stregua di una scienza ma, per dirla con parole prese in prestito ad Albert Camus, “è di sicuro una tecnica”. Che, radicalizzatasi nel secolo scorso con i conflitti mondiali, non poteva che sfociare in era contemporanea nell’equilibrio del terrore tra l’est e l’ovest. E’ questo il preambolo impietoso da cui parte il filosofo Paul Virilio nel suo “L’arte dell’accecamento” , pubblicato da Edition Galilée nel 2005 e proposto ora in Italia da Raffaello Cortina (pp. 88, euro 8,50). Nato a Parigi nel 1932, teorico culturale, filosofo, urbanista, esperto di nuove tecnologie, tra i padri della critica postmoderna, Paul Virilio è noto principalmente per i suoi scritti sullo sviluppo della tecnologia in relazione alla velocità ed al potere, con vari riferimenti all’architettura, l’arte, la municipalità e le forze armate. Le sue riflessioni sul mutamento dell’estetica nella società contemporanea denunciano da tempo una pesante disfatta ai danni del mondo occidentale.
Causata da una presenza sempre più pervasiva della tecnologia in ogni aspetto della vita quotidiana.

Messi in ordine cronologico, i suoi ritratti delineano una condizione che sembra volgere di male in peggio. La fotografia di una società senza via di scampo, sebbene lo studioso francese rigetti con forza l’aggettivo di pessimista per definire le sue interpretazioni. La sua semmai è una visione catastrofista sul concetto di progresso, di cui esamina i limiti dal punto di vista del “tragico”, sentimento di cui lo studioso francese rappresenta decisamente uno dei più attenti e acuti osservatori. “La tecnologia non può esistere senza la possibilità di incidenti”, aveva affermato nel precedente L’incidente del futuro , edito sempre da Cortina nel 2002.

“Il mondo è diventato troppo piccolo per il progresso”, ripete in maniera provocatoria nel suo ultimo libro, lasciando trapelare tra le righe un monito che suona più o meno come un “a tutto c’è un limite”. Abbiamo parlato con l’intellettuale francese a proposito delle sue recenti riflessioni.

Professor Virilio, cosa intende per “arte dell’accecamento”?

Arte a perdita di vista, che nella traduzione francese non corrisponde alla cecità ma ad una perdita della vista causata dall’allontanamento. “L’arte a perdita di vista” (il titolo originale del libro è difatti L’Art à perte de vue ) vuol dire andare al di là dell’orrizonte . La sovraesposizione di ciò che è lontano attraverso gli schermi televisivi ci ha fatto perdere di vista ciò che è vicino. Questa scomparsa è legata alla tele-visione, alla tele-percezione del mondo contemporaneo. La nostra visione è ferma su di un’immagine frontale che va a discapito di una prospettiva laterale più ampia. Il campo visivo naturale oggi è ridotto alla pratica dello schermo, a una visione dell’allontanamento. In una parola, a una tele-visione.

Viene in mente l’epoca del Rinascimento e l’idea della prospettiva come visione d’insieme

La prospettiva quattrocentesca si è imposta perché fermava lo “spazio reale”. Oggi è stata sostituita da una visione del “tempo reale”, da una tele-percezione istantanea, live . E’ una prospettiva che è andata estendendosi fino all’osservazione degli antipodi della terra, grazie agli strumenti della tecnologia, quali telefoni cellulari e computer. Penso ad esempio alle funzioni di Google Earth (il programma di navigazione satellitare in 3D, ndr ), che ci permette di seguire in tempo reale lo tsunami in Asia o gli attentati alle Torri Gemelle a New York.

Davvero è convinto che la tecnologia sia tiranna nei confronti della società?

Certo, lo sta diventando per una ragione molto precisa: il nostro mondo è troppo piccolo per il progresso. La velocità delle onde elettromagnetiche sta riducendo lo spazio-tempo del mondo in uno schermo. Il cambiamento interessa molto gli economisti, i quali affiancano all’economia politica della ricchezza un’economia politica della velocità, che corrisponde al mercato unico, al cosiddetto turbocapitalismo. Non sono pessimista, tant’è che le mie paure trovano conferma presso molti economisti. Il rischio di un crack mondiale è reale. Possiamo parlare di un progresso catastrofico. D’altronde, come affermava Hannah Arendt, “progresso e catastrofe sono due rovesci della stessa medaglia”.

Nel suo ultimo libro Lei ha paragonato la nostra era al periodo dell’Illuminismo, proprio per la fiducia riposta nel progresso

Sì, mi riferisco proprio alla rivoluzione dei “lumières” (in francese la parola significa “illuminismo” e “luci”, ndr ). All’epoca il potere era intrecciato al sapere e alla conoscenza; oggi potere vuol dire vedere, rappresentato benissmo dagli scambi in borsa.

Come finiremo? Non esiste cura né terapia all’incombente distruzione?

Ci vuole una economia politica della velocità che sia all’altezza di questa riduzione del mondo, una coscienza economica che non sia solo ecologica. Ad esempio: bisogna ridurre sicuramente l’effetto serra sul pianeta ma bisogna anche comprendere che proprio la velocità è alla base di questo fenomeno. I militari sembrano interessati a questa sorta di contrazione del mondo su se stesso; gli economisti politici molto meno.

Lei ha studiato a lungo i meccanismi di potere. Su quali bisogna incidere oggi per radicalizzare la critica alla contemporaneità?

Per me la democrazia è legata all’emergenza della tragedia. La stessa antica Grecia ha elaborato una nuova forma di governo, la democrazia appunto, sulla base di uno spazio finito come le città-stato. Oggi dobbiamo far fronte un altro tipo finitezza: quella del mondo. E abbiamo perciò bisogno di una democrazia del tempo reale. Faccio un esempio: di cosa si occupano oggi gli astrofisici? Studiano e osservano gli esopianeti, corpi celesti lontani ed esotici, distanti migliaia di anni luce da noi. E’ una lezione che non dobbiamo seguire, impegnandoci al contrario a risolvere il problema del pianeta terra, qui e ora. Non c’è bisogno di una pittoresca ricerca di terre promesse fuori dal sistema solare. Anche in questo caso la questione della velocità non viene presa in considerazione seriamente, nonostante le passate sollecitazioni dei Futuristi e di Marinetti, che aveva però una visione un po’ fascistoide.

Quale compito spetta agli intellettuali?

Oggi sono sovrastati dall’avvento degli esperti, degli spin-doctor, degli specialisti dell’immagine. Nel 1968 sui muri dell’università la Sorbona era scritto “l’immaginazione al potere”, a quarant’anni di distanza è l’immagine ad aver preso il potere. Tra l’una e l’altra c’è grande differenza. Non mi riferisco alle immagini mentali ma a quelle fisiche, alle “messe in scena”. Il nuovo intellettuale è una sorta di top-model, non va in televisione per dire cose interessanti. E questa tendenza si riversa inevitabilmente nella politica. Come è accaduto alle ultime elezioni presidenziali francesi nello scontro tra Sarkozy e Royal.

Però c’è ancora chi rimane attaccato al solco della scrittura e del pensiero critico in senso classico

Sono stato molto amico di Deleuze, Foucault, Guattari, Deridda. Oggi mi sento molto legato a Giorgio Agamben. Certo, gli intellettuali continuano ad esistere e a resistere, e il loro compito dovrebbe essere quello di cogliere i mutamenti della prospettiva contemporanea e analizzarli, sebbene possa risultare controproducente ai loro interesse. D’altra parte, la celebrità intellettuale è un concetto assai recente, mentre la storia ha istruito alla rilevanza dell’anonimato. Shakespeare non fu affato celebre ai suoi tempi, e forse neanche Platone. Al contrario, Zidane….(ride)

Si potrebbe obiettare che Platone veniva da una famiglia in stile kennedyano, se paragonata ai giorni nostri. C’è del pessimismo nelle sue affermazioni

E’ diverso dalle star mediatiche di oggi. Non sono affatto pessimista, evoco semplicemente il ritorno del tragico, mi sento un uomo del tragico, sentimento ormai vietato nella nostra società. E’ impensabile poter comprendere la politica antiterroristica senza cogliere appieno questo concetto. La tendenza odierna insiste sull’illusione di un presente felice e ottimista. Il pessismo è bandito, altro fenomeno di immagine. La contrapposizione tra bene e male è stata sostituita dalle figure del pessimista e dell’ottimista. L’oggettività è in via di estinzione, siamo diventati tele-oggettivi, in maniera parassitaria nei confronti delle relazioni tra le persone. Ovunque esse siano: in una stanza, in una città, nel mondo intero.

Possiamo parlare dell’elezione di Sarkozy come di un “incidente” nel senso viriliano del termine?

Certo. Si tratta di un cambiamento in atto da tempo, penso al caso di Ross Perot candidato alle presidenziali americane contro Bush senior, o a Fernando Collor in Brasile. Senza contare il successo di Berlusconi in Italia. Alla sua prima elezione nel 1994, nel corso di un convegno presso il Centro culturale italiano di Parigi, il mio commento fu che non si può più parlare di un’alternanza tra destra e sinistra, ma tra mediatico e politica. In Francia è accaduto un fenomeno analogo: Sarkozy non è un proprietario di un impero mediatico, ma è riuscito a utilizzare la sua potenza e, in una certa misura, lo stesso ha fatto anche Ségolène Royal.

Emerge una contraddizione: lei ha affermato poc’anzi che ad allontanare i cittadini dalla “cité” è stata proprio la mediatizzazione dello scontro politico. Come spiega allora il record di affluenza alle ultime presidenziali?

L’universo mediatico si sottrae alla dimensione classica destra-sinistra. Il fatto che Chavez, ad esempio, abbia censurato la televisione dell’opposizione, riducendo la libera espressione, dimostra quanto destra e sinistra si trovino ad affrontare lo stesso problema, la tele-oggettività di cui parlavo prima. L’economia della ricchezza ha generato il capitalismo e la lotta di classe, oggi ci vorrebbe una lotta di classe della velocità che tenga conto dell’accelerazione sociale nel campo politico. Io non ho la pretesa di risolvere il problema, lo sto solo ponendo. Tutte le figure sincroniche e simultanee della modernità, che normalmente erano appannaggio del divino, oggi si sono trasferite nella sfera umana, con tutti i rischi che ne discendono, in primo luogo la monarchia ottica. Oggi sono tutti “otticamente corretti” più che “politicamente corretti”.

Quale relazione sussiste con la società della sorveglianza?

Da una parte c’è la società dello spettacolo già analizzata da Guy Debrod, dall’altra la società della tele-sorveglianza. Mi riferisco alla proliferazione di telecamere di controllo in Gran Bretagna e Francia, ad esempio. E’ esattamente il modello panottico elaborato da Jeremy Bentham e ripreso da Michel Foucault. Vorrà dire che nel futuro ci appresteremo a divenire “panotticamente corretti”.

[Monia Cappuccini]

in collaborazione con Daniele Zaccaria

L’intervista è stata pubblicata il 2/6/2007 su Liberazione

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