Anna Rita Emili_Vittoriano Viganò

Vittoriano Viganò_Istituto Marchiondi a Milano

Che siano i critici d’oltre alpe a valorizzare e a considerare come meritevole gran parte del nostro patrimonio architettonico contemporaneo è un dato ormai certo. Basti pensare che il Superstudio uno dei gruppi più importanti della Neoavanguardia degli anni Sessanta -Settanta ha venduto gran parte del proprio archivio, composto di oggetti di design e di prestigiosi collage, al Beaubourg di Parigi, dopo aver consultato invano numerose gallerie d’arte e musei italiani. Ma l’esempio più eclatante a tale proposito ci giunge dal MoMa, il museo più prestigioso del mondo, che sta attualmente esponendo il plastico di quello che viene definito come il capolavoro del Brutalismo italiano. Parliamo dell’Istituto Marchiondi di Vittoriano Viganò, realizzato nel 1953. Chissà cosa avrebbero pensato, gli stessi organizzatori della mostra, se avessero visto lo stato in cui versa l’edificio, occupato da extracomunitari di diverse nazionalità, invaso dalla gramigna infestante e dai rifiuti, in un totale stato di abbandono e di degrado.

Senza considerare che questo edificio è sottoposto ad un vincolo della Soprintendenza ai beni architettonici. Alle numerose denuncie di enti il vicesindaco Riccardo De Corato risponde: “noi volevano venderlo ma non lo l’ha voluto nessuno”. Anche se le cose non stanno proprio così, visto che l’edificio era stato richiesto dall’International school of Milan e che poi la lentissima burocrazia, protraendo troppo a lungo le procedure necessarie, ha reso impossibile qualsiasi intervento, al di là degli eventi, questa quanto mai deludente risposta sottintende il totale disinteresse da parte delle amministrazioni, degli enti pubblici e privati, dei professionisti, ma anche dei semplici cittadini, nei confronti dell’architettura, o meglio per tutte quelle opere che non rientrano nel termine di “storico-archeologico”.

Se siamo ancora costretti a vedere l’ex Marchiondi, ma anche altri innumerevoli edifici prestigiosi, in un degrado così umiliante, non è a causa di un problema economico o organizzativo, ma è soprattutto un problema di cultura. Quale criterio stabilisce se un edificio è di valore o meno, se non la conoscenza architettonica che, per gran parte degli italiani, si è fermata all’Ottocento, escludendo completamente il contributo delle Avanguardie del Novecento che per la prima volta nella storia dell’architettura rompono con la tradizione, assumendo come strumenti del comporre, non gli stilemi del passato, ma nuovi elementi riscontrabili all’interno di fenomeni sociali, culturali, tecnologici, scientifici, in grado di proiettare l’individuo nel futuro. L’Italia a tale proposito offre dei contributi preziosi al panorama mondiale. Vengono proposte soluzioni, realizzabili o utopiche, importantissime a livello internazionale.

Ma da questo momento in poi si viene a creare anche una forte scollatura tra ricerca architettonica e artistica, sempre più sofisticata, e senso comune della gente. Dovendo fare un esempio, tutte, ma proprio tutte le opere del Movimento Moderno, non vengono riconosciute dalle masse, perché vengono semplicemente intonacate, piuttosto che rivestite in mattoni o in pietra, perchè il tetto non è spiovente ma è piano, perché non rispettano più la classica tettonica, perché spesso sono leggere e qualche volta trasparenti e non garantiscono sicurezza, perché sono prive di ornamento e questo non è sicuramente segno di ricchezza, perché si parla, non più solo di composizione, ma anche di scomposizione, de-strutturazione, frammentazione, ma soprattutto di linguaggio che va oltre la storia e il vernacolo.

Un nuovo linguaggio che segue gli sviluppi e le esigenze della società, così come avviene per la scienza, la medicina, la tecnologia e tutte le altre discipline. Allora se è vero che l’architettura è fondamentalmente un problema di cultura, impariamo a conoscerla e smettiamola di definire un edificio brutto perchè non ha trabeazioni, timpani, cornici, stucchi e ornamenti, finiamola con la cultura del postmoderno, ma soprattutto iniziamo ad insegnare, a partire dalle scuole elementari la disciplina architettonica.

L’architettura non è solo creazione di spazio, trasformazione del paesaggio ma è anche economia, è fonte di guadagno e se si fanno sforzi per restaurare un monumento, non lo si fa esclusivamente per un motivo culturale, ma anche economico. Questo può valere anche per le diverse opere contemporanee che sono presenti nel territorio italiano, tra l’altro tutelate e riconosciute a livello mondiale.

L’ex Istituto Marchiondi fa parte di quella cultura che vede nel brutto il bello, nel cemento armato il vero. Fa parte di quel pensiero che non si piega alle facili esibizioni vernacolari del neorealismo, ma ripartendo dalle dinamiche razionaliste assume, nel corso di pochi anni, una forte identità, che vede nella ricerca della sincerità, della verità, della semplicità, dell’elementarità, dell’essenzialità, i suoi caratteri principali.

Non esiste decoro, nè rifiniture nell’edificio di Viganò, non esiste la cura del dettaglio, ma esistono il principio del dettaglio, l’importanza della saldatura tra elementi costruttivi, considerati, anch’essi, come sinonimo di verità e onestà, esattamente come avviene per il cemento armato. In questi elementi si esprime il concetto di non finito-indefinito come sinonimo di movimento, di dinamismo, come inizio di un evento che non ha fine. Non esiste chiusura, né compiutezza in quella che Reyner Banham definisce “Architettura convincente e tutta d’un pezzo”.

Sminuire la valenza di questo edificio definendolo volgarmente un “cubo in cemento” non si fa solo un danno etico, morale e culturale, ma anche economico.
Tornando alla cronaca, a febbraio del 2006 è stato indetto un nuovo bando, come afferma in un articolo del Corriere della sera del settembre 2006 Gian Antonio Stella, per l’assegnazione in affitto dell’ex Marchiondi. Un solo concorrente si è presentato: il Consorzio di cooperative impegnate nel sociale, che potrebbero trasformare l’edificio di Viganò in un multicentro in grado di rispondere alle esigenze della cittadinanza di Baggio: turismo sociale, culturale, turismo giovanile, pensionato, accoglienza per adulti in stato di bisogno, convegni e servizi informativi, offerta di servizi al territorio, come struttura per impianti sportivi aree veri e servizi per il tempo libero.

L’esibizione al MoMa ha così risvegliato gli animi degli addetti, addormentati dal 1970, quando cioè la struttura, adibita a centro per rieducazione di ragazzi, è stata venduta al Demanio comunale, cioè a tutti i milanesi. Dopo ben 37 anni di degrado e abbandono e dopo continue denuncie sembra che le cose stiano cambiando. Ma sarà vero? Auguri. Forse quindici milioni di euro richiesti nel bando non basteranno a restaurare un edificio che per troppi anni è stato alla mercè di continue occupazioni abusive e di innumerevoli devastazioni.

[Anna Rita Emili]

Anna Rita Emili ricercatrice presso la Facoltà di Architettura di Ascoli Piceno, fonda nel 1998 altro_studio

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