Alessandro Bianchi_Architettura unita d’Europa
Un viaggio nella ex DDR è l’occasione per ripensare, con occhio storico, agli avvenimenti contemporanei. Vogliamo una unione che in passato fu il sogno di pazzi visionari e sanguinari: dai Cesare a Carlo Magno, da Federico Barbarossa a Re Sole, da Napoleone alle dittature novecentesche. L’Europa unita che noi vogliamo, però, a differenza del passato, deve nascere dalla volontà popolare e non dalle imposizione dei politici, da un comune sentire e da un’economia comune, piuttosto che da guerre di conquista. Vogliamo le stesse cose che volevano i nostri predecessori: da loro ci dividono i mezzi, non il fine, e forse talvolta anche questo, quando i rigurgiti regionalistici fanno capolino in tutta Europa.
E per l’architettura? Per l’architettura significa l’unione del linguaggio? Macchè, nessun unione del linguaggio, ormai l’internationl style ha fatto il suo tempo e in sé, a ben vedere, ha rappresentato anche una propria ideologia, quella del liberismo senza sociale, del tana-libera-tutti di bambini un po’ troppo cresciuti.
L’aereo atterra all’aeroporto di Flughafen a Francoforte sul Meno, hub importante d’Europa, il principale per la Germania, e subito ci si chiede: perché a Malpensa non abbiamo fatto altrettanto? Lo scalo milanese, che doveva diventare il primo hub italiano, appare già vecchio, un prefabbricato buttato là da un ufficio tecnico comunale di provincia. Forse quando se ne sono accorti hanno deciso che gli interni dovevano essere un pò arricchiti: ed ecco allora un’accozzaglia di materiali e di colori in cui prevalgono verde e marrone in una farcitura di pareti impreziosite da lastre in radica di arenaria. A Flughafen ci sentiamo in Europa, a Malpensa in una località degli Emirati Arabi, pronti a sbarcare in un albergo super lussuoso dove ci coccoleranno con ogni bendidio! Peccato che sia tutto di plastica, compresa la cortesia.
Tra la Hauptbahnhof - la stazione ferroviaria - di Frankfurt e la città storica, c’è una city che ricorda quella di Londra: alti grattacieli con insegne luminose in testa. E’ il quartier generale delle banche di Germania, dove ha sede anche la Banca Centrale Europea. Sui grattacieli nulla da dire, sono grattacieli come di ogni altra parte del mondo (”sono alti e basta”, come disse Bruno Zevi a proposito del concorso di Buenos Aires), sul museo di Hans Hollein, invece, si può dire qualcosa. Il Museo d’arte moderna (Museum für Moderne Kunst, http://www.mmk-frankfurt.de) di Hans Hollein è soprannominato dagli abitanti della città “fetta di torta”. E’ stato ultimato nel 1991 e l’esterno è tutto improntato agli stilemi architettonici di quegli anni: in sostanza appare già vecchio, non è sicuramente un’opera d’arte che buca il suo tempo per diventare universale. Invece gli interni sono interessanti perché appaiono come un’incarnazione di certi edifici-tutti-scale di Maurits Cornelis Escher. Gli scorci e gli sfondati che trafiggono diagonalmente tutto lo spazio interno fanno assomigliare i visitatori a tante formiche che si muovono apparentemente senza meta all’interno di uno spazio molto articolato. Bello, forse un po’ troppo bianco, poca plasticità. Tant’è… ma la opere d’arte esposte? Le opere d’arte esposte sono… chissà, sono una persona che crede nella speranza: un giorno capirò, al momento mi limito all’architettura, che già è un laboratorio schizofrenico del-come-mi-sveglio-la-mattina.
Arriviamo a Dresda in una notte di neve. Il ricordo di ciò che è stato vuole soddisfazione visiva immediata. Attraverso il buio, nell’auto di un taxista che di seconda lingua parla il russo, cerchiamo quella parte di oltrecortina che ci è rimasta dentro, quel pezzo di storia che non vogliamo dimenticare. Ma già in periferia s’intravedono pezzi di città misti, vasti insediamenti dai tetti cuspidati e partiti classici mischiati ai rigidi parallelepipedi del quarantennio comunista. E così anche nell’altstadt, il centro storico. Qui però è più visibile la riunificazione, qui la ex Germania Occidentale (BRD, Bundesrepublik Deutschland) si è mossa più rapidamente per segnare il territorio attraverso i nuovi tempi. Tre tipologie di intervento si distinguono: uno, la ricostruzione “dov’era com’era” di alcuni monumenti distrutti durante i bombardamenti alleati del 1945 (la Frauenkirche, per esempio, ultimata nel 2002); due, la demolizione di edifici del quarantennio (1949-1990 anni di nascita e di morte della DDR, Deutsche Demokratische Republik) particolarmente deturpanti i contesti di maggior valore storico; tre, la costruzione di nuovi edifici “ferro e vetro”, come la sede Die Gläsernen Manufaktur della Volkswagen al giardino botanico (progetto di Gunter Henn, www.glaesernemanufaktur.de) o del centro congressi ICD (International Congress Center Dresden, progetto di Storch Ehlers & Partner, http://www.dresden-congresscenter.de/) sul lungo Elba, alle spalle della Semper Oper. Non senza ragione, queste nuove architetture, vengono edificate ai bordi della città storica, quasi a porte cittadine.
Sono opere di svolta: architetture che “rappresentano” il cambiamento, messaggi visibili di riforme lanciate ai cittadini, riforme non solo annunciate. Ciò che peraltro non è mai avvenuto in Italia dal dopoguerra ad oggi, in più di sesssant’anni. La DC, la famiglia del grande Partito Popolare fondato da Luigi Sturzo, e i suoi associati e consociati - l’intero arco parlamentare, possiamo dire - hanno rappresentato la continuità conservatrice piuttosto che il cambiamento progressista. Badiamo bene che però il problema, per parer mio, non è né ideologico né di parte: il conservatorismo è una posizione legittima come il riformismo, ma quando c’è da conservare qualcosa, e qualcosa di buono; del resto riformiamo se c’è qualcosa che buono non è, o non appropriato ai tempi, oltre che (sic!) per opportunismo. Uscivamo nel 1945 da una guerra disastrosa, e a buon senso ci si aspettava una ricostruzione e un progresso economico e sociale all’insegna del cambiamento, anche visibile, del nostro Paese. Tutto è avvenuto tranne che la costruzione di simboli che mostrassero questo cambiamento. Tanto è vero che non si ricordano edifici o parti di città costruiti per mano delle Istituzioni, quali rappresentazione di un epoca storica: abbiamo sì conservato, ma non si sa che! Forse la memoria del nostro bel passato… Non una nuova stazione ferroviaria, non un nuovo teatro, non un nuovo museo: qualche aeroporto lo abbiamo fatto sì, ma perché non ne avevamo, e comunque li abbiamo fatti nel “mancato stile” di Malpensa. Tutto in Italia è ospitato all’interno di vecchie strutture, di contenitori dalla pelle classica. Magari recuperati, magari anche bene, ma è tutto vecchio.
Pensiamo ai “Grand Travaux” di Mitterand, pensiamo al continuo rinovamento londinese, per non parlare di quello statunitense ed asiatico, con tutti i limiti e i rischi che inevitabilmente la ricerca del nuovo rappresenta.
Ecco allora che in questa media città della provincia tedesca, Dresda, che un tempo è stata capitale della Sassonia e della Polonia con il suo formidabile principe elettore Augusto il Forte, ecco il segno del cambiamento, uno Stato che si rappresenta attraverso gli edifici, le architetture.
Non appaiono pregiudizi ideologici: a prescindere dagli schieramenti, in Germania, sembra scontato che tutti agiscano per il bene della nazione ritrovata. E’ ammessa la ricostruzione filologica come la nuova architettura, così come la demolizione di un esistente senza valore. L’azione è tesa a conciliare e non a confliggere. Forse è questa la ragione per cui il Paese può permettersi la Große Koalition di Angela Merkel, e con effetti benefici. In Italia, pur essendo per molti aspetti culturali e di commune sentire simile alla Germania, è insperabile. Moro e Berlinguer ci avevano provato, ma il compromesso storico non è mai sbocciato, piuttosto ha dato vita alla creatura miltoniana del “consociativismo” dei governi della fine degli anni ‘70, inizio anni ‘80. Invece che provare a legare bianco e rosso in un possibile accordo, preferiamo fare i governi ombra.
La posizione sin qui descritta potrebbe apparire di relativismo, d-e-l-t-u-t-t-o-v-a-b-e-n-e purché siamo amici. No! Non rimaniamo ancorati ai perentori aforismi di Severino e di Vattimo, che millantano posizioni differenti su questioni di lana caprina, quando nella sostanza concordano sulla conservazione di antiche baronie. E me la perdonino i due grandi filosofi se faccio di tutta l’erba un fascio! Ma un po’ di massimalismo, a volte, serve a scrollare le coscienze, a far giungere un po’ d’aria fresca. Non è con il pensiero negativo - in architettura ricordiamo l’opposizione tra Manfredo Tafuri e Bruno Zevi - che riuciremo in Italia a fare qualcosa. Sono stati anni necessari, quelli della critica negativa, ma ora dobbiamo investire sull’apertura.
L’Elba è l’elemento unificatore del paesaggio sassone: ampio e rasserenante. Un ristoratore macedone, che si spaccia per italiano, in una pizzeria in cui ascoltiamo Umberto Tozzi e Rita Pavone, ci racconta delle sue gite in bicicletta lungo il fiume, che gli ricordano le colline fiorentine che scendono verso l’Arno. “La Firenze del Nord” disse di Dresda (http://www.dresden.de) lo scrittore Johann Gottfried Herder, e anche il Canaletto la ritrasse in alcune sue celebri vedute. Dalla sponda nord del fiume, la città storica si abbraccia per intero con uno sguardo, compresa tra i ponti Marienbrucke, a ovest, e Albertbrucke, a est. Un unico colpo d’occhio di cupole e guglie, una skyline di rara intensità tettonica. In asse, lo storico ed emblematico Augustusbrucke che infila la Schloßplatz (la piazza del castello), tra la Semper Oper e la cattedrale: in fondo lo Zwinger, magnifico palazzo di corte nato come orangerie. In senso opposto, dall’Augustusbrucke si risale fino ad Albertplatz, nodo dal quale si dipana la Neustadt, parte di città nata nel Seicento dopo un rovinoso incendio nella città storica, e attuale centro vitale delle culture giovanili.
Dresda prima era di legno, la Neustadt, le nuove leggi nel ‘600, la imposero di pietra. Ecco un principio di architettura della necessità, semplice semplice, su cui non ricamare nessuna teoria: una città di legno va a fuoco, facciamola di pietra! Oh quanto vorrei, a volte, in questo complicato mondo, che si tornasse a questa semplicità. La qualità poi, dipende dal disegno, e non da questioni strumentali, dipende dagli architetti e dalla loro buona fede.
Notazione turistica un po’ sdolcinata. Da visitare, lungo l’Elba, sia in direzione est che ovest, i favolosi castelli fatti costruire da Augusto il Forte e dai suoi successori. In particolare lo Schloß Pilnitz (http://www.pillnitz.com/schlopa.html), a pochi chilometri dal confine ceco, magnifico complesso edificato sulla sponda dell’Elba, di impianto simile allo schema di Versailles, raggiungibile anche tramite battello. Il cuore spirituale della Sassonia è invece Meißen (http://www.stadt-meissen.de), cittadina medievale che si inerpica su una collina a nord ovest di Dresda, con il teutonico complesso del castello di Albrechtsburg, del duomo e della Cappella dei Principi.
A seguito della Rivoluzione Pacifica dell’autunno 1989 Lipsia, ultima città vista durante questo viaggio, viene chiamata “Città eroe della Repubblica Tedesca” (Heldenstadt der DDR). Anche qui lo Stato riunito mostra presto la sua presenza con l’edificazione del bellissimo “Museum der bildenden Künste” degli architetti berlinesi Hufnagel Pütz Rafaelian (http://www.mdbk.de), un centro dedicato all’arte contemporanea. Da questa città viene anche l’ultimo ricordo per la nostra “Architettura Unita d’Europa”, ed in particolare dal suo Forum sulle due Germanie (Zeitgeschichtliches Forum, http://www.kunst-und-kultur.de/Museumsdatenbank/show/show.php/1921). Dalla fondazione della Repubblica Democratica Tedesca alla caduta del muro, con la riunificazione avvenuta nella primavera del 1990, l’autorità totalitaria opera con grande impatto sulle città della Germania est, così come del resto avviene sempre nelle dittature, sia di destra che di sinistra. Forse l’aspetto più impressionante è però la premeditata distruzione dei simboli religiosi, anche se essi sono contenuti in, o sono essi stessi, opere d’arte. In questo senso il regime ha distrutto alcune chiese monumentali a Potsdam e in altre città, sotto gli sguardi sbigottiti di gente che nulla poteva opporre a tale follia. Questi fatti, filmati tra la fine degli anni ‘60 e l’inizio degli anni ‘70, e riprodotti su schermi televisivi all’interno del museo, riportano la mente al 2001, quando i talebani in Iraq distrussero i Buddha giganti di Bamiyan, in quanto testimonianza del passato idolatra e preislamico del Paese.
Sono eventi simili di dittature differenti, magari completamente diverse, con un solo aspetto in comune: l’aberrazione della follia. Ecco allora la necessità di una apertura delle nostre sensibilità, oltre che delle frontiere e dei mercati finanziari. Anche gli architetti, con la loro opera, possono creare conflitti che realizzano ghetti contrapposti a ricche enclave. Non dobbiamo più permetterlo, non dobbiamo più permettere che il germe della negazione faccia terra bruciata della nostra volontà di stare insieme. Il passato è lì per dirci che ciò che è stato può essere ancora.
Fotografie di Linda Spada
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