Francesca Ezzelino_Rachel Whiteread
L’ultimo lavoro ospitato nella Turbine Hall del Tate Modern nell’ambito del progetto intitolato “The Unilever Series” è una gigantesca istallazione-scultura di Rachel Whiteread, dal titolo Embankment, letteralmente “argine”, “strada lungo un fiume” (con ovvio riferimento al luogo in cui sorge il museo, lungo il Tamigi).
L’opera non è totalmente visibile dalla porta d’ingresso, a causa del ponte sospeso che collega i due lati della hall e che ne divide inevitabilmente lo spazio in due metà. Lo stesso ponte però, proprio in virtù della sua funzione perturbatrice, amplifica l’effetto sorpresa, una volta che si è usciti dal cerchio d’ombra che esso proietta sullo spazio sottostante.
Ed eccoci dunque di fronte ad Embankment: migliaia di cubi bianchi accatastati l’uno sopra l’altro, ora ordinatamente ora alla rinfusa, a formare tante candide montagne di altezze diverse in mezzo alle quali lo spettatore si muove liberamente, con l’illusione di essere in un paese fantastico costituito da gigantesche “zolle di zucchero”.
Avvicinandoci a queste strane strutture notiamo con facilità che i cubi in questione sono in realtà solidi di proporzioni e dimensioni diverse tra loro, ma soprattutto ci accorgiamo che le loro superfici non sono completamente lisce, perché presentano come delle “cuciture”, quasi dei punti di sutura tra due parti una volta unite e poi separate. La forma ricorda molto quella degli scatoloni di cartone, anche se diverso è il materiale usato… tuttavia c’è qualcosa di strano, dal momento che certi elementi sporgenti verso l’esterno dovrebbero al contrario trovarsi internamente e non essere visibili per lo spettatore.
L’intero progetto si fonda proprio su questa anomalia. Da un lato c’è infatti l’oggetto concreto che ha ispirato l’idea: uno scatolone adibito a contenere cianfrusaglie varie, che l’artista ha ritrovato dopo tanti anni, insieme al riaffiorare dei ricordi legati alle cose che vi erano contenute nel passato.
Dall’altro lato c’è una riflessione più ampia sul tema del vuoto e dei suoi molteplici significati.
Infatti partendo da questi presupposti la Whiteread ha raccolto molti vecchi scatoloni e li ha riempiti di gesso in modo da farne il calco; il risultato è un oggetto in cui alcuni particolari si trovano dunque in posizione specularmente opposta rispetto a quella occupata nei contenitori iniziali che spiega l’anomalia sopra accennata. Il calco ottenuto, infatti, non è il calco dello scatolone, ma dello spazio contenuto al suo interno, è un negativo trasformato in positivo. Rachel Whiteread dà quindi consistenza fisica allo spazio che ci circonda e che comunemente consideriamo vuoto e neutro, sebbene talvolta esso sia così pregno di ricordi da ospitare un mondo intero. Non a caso ha scelto come modelli dei cartoni usati, perché ognuno di essi aveva una sua storia all’interno.
Per la grande importanza conferita alla memoria, Embankment si pone sulla stessa linea di un altro lavoro dell’artista, l’Holocaust Memorial, nella Judenplatz, a Vienna, che è addirittura il calco degli spazi contenuti fra i volumi di un’intera libreria. Anche in questo caso infatti l’esternazione fisica del vuoto sta a denunciare una scomparsa, quella dei tanti libri messi al rogo durante il Nazismo, in concomitanza con la tragedia dello sterminio ebreo. Anche qui tale patrimonio sarà in qualche modo preservato grazie al ricordo, vivo negli occhi della gente, che si è rivelato fondamentale, per esempio, nel favorire la pubblicazione di nuovi libri sull’argomento. Dunque la scelta di una libreria è ovviamente non casuale e porta con sé un messaggio di speranza.
Su un piano meno emotivo, Embankment è soprattutto una riflessione molto intelligente sulla relatività delle nostre percezioni, le quali spesso ci portano a dare valenza ontologica solo a ciò che vediamo e possiamo toccare. L’artista mette in crisi le nostre certezze proponendoci una sfida, che è poi un paradosso: perché non rovesciare il rapporto consueto tra oggetto, generalmente considerato pieno, e spazio, che di solito riteniamo vuoto?
Si tratta di una domanda da sempre centrale nelle riflessioni della Whiteread, fin dalle prime opere in cui rappresentava, solidificandolo, lo spazio sottostante una sedia. Con Embankment però il paradosso è spinto alle estreme conseguenze, perché la fase successiva della sua realizzazione è consistita nel trasformare questi blocchi di gesso, cioè degli interni, in nuovi contenitori, ovvero degli esterni; infatti con il loro modello sono state fabbricate migliaia di scatole di plastica, i cui particolari sono identici ma contrari a quelli degli iniziali cartoni. Siamo dunque ritornati al punto di partenza, ma con una consapevolezza del tutto diversa.
A fronte di una genesi profondamente “umana”, questa riproduzione seriale delle scatole ha in sé qualcosa di impersonale e velatamente negativo. Tale elemento, unito all’utilizzo di forme geometriche da parte dell’artista, avvicina la sua opera alle ricerche della Minimal Art. L’esito finale è comunque diverso, perché in Embankment i cubi sono disposti in maniera ben lontana dal rigore che caratterizza il movimento degli anni Sessanta.
L’effetto d’insieme ricorda un magazzino, e tale era l’intenzione della Whiteread, che in tal modo intende ricollegarsi all’originale funzione della Tate Modern, ossia quella di spazio industriale.
Per la verità il progetto iniziale prevedeva un unico corpo centrale; tale idea poi è collassata, dando vita alle tante strutture che vediamo oggi: il risultato è una scultura divertente per lo spettatore, che ne è immediatamente attratto visivamente e gode nel potervi camminare in mezzo.
C’è però il rischio che egli non vada oltre la dimensione del gioco e quindi eviti un riflessione matura sulle problematiche trattate, che pure sono interessanti e proposte in maniera intelligente. Le precedenti opere dell’artista hanno al contrario un’inaccessibilità fisica tale da metterci a disagio, obbligandoci a pensare a lungo. In questo senso Embankment rimane un lavoro ambiguo e riuscito a metà, di fronte al quale la riflessione non si spinge oltre un certo livello nella maggior parte dei casi, e il contatto fisico tra visitatore ed opera resta soprattutto un’illusione, perché per quanto possiamo camminare tra queste montagne di zucchero, le scatole che le compongono sono pur sempre oggetti ben chiusi che non ci è dato aprire.
[Francesca Ezzelino]