Antonello Marotta_Diller+Scofidio: il teatro della dissolvenza

Diller+Scofidio_Blur

L’architettura della connessione|La società del controllo

Il romanzo 1984 di Orwell analizza, per la prima volta, il sistema di sorveglianza mediatica che coinvolge e demarca la società postindustriale. Profetico, visionario, lucido l’autore individua nel Grande fratello una macchina di controllo senza precedenti nella storia.
David Lyon in L’occhio elettronico. Privacy e filosofia della sorveglianza scrive: “Telecamere a circuito chiuso, carte di credito, bancomat, carte di identità magnetiche, controlli incrociati di dati personali tra archivi di tipo differente, telefoni cellulari e identificazioni di chiamata, check invisibili della produttività. […] L’elemento di novità sta nel “sé digitale”, una sorta di doppio elettronico composto di dati “sensibili” relativi agli individui in carne e ossa, venduto e scambiato tra i numerosi database governativi e privati, usato per concedere fidi bancari e creditizi e determinante nell’orientare le aspettative di vita dei singoli individui. Si tratta quindi di identità elettroniche che viaggiano autonome e intangibili su reti dedicate” (Lyon 97).
Questa dimensione oggi estesa ed incontrollabile trova una incredibile anticipazione nel sistema di costruzione del labirinto, che secondo lo storico Filocoro (270 a.C.) era per i Cretesi una prigione nella quale l’unico male era quello di essere strettamente sorvegliati.
Se il labirinto etimologicamente designa un insieme di gallerie sotterranee, nel 1830 - 40 il programma del Panopticon di Bentham designa una figura architettonica ad anello nel cui centro una torre tagliata da ampie finestre permetteva in qualsiasi punto di osservare i carcerati e le loro celle. Secondo Michel Foucoult, che in Sorvegliare e punire dedica ampio spazio al tema della sorveglianza, la prigione-macchina segna il sistema del controllo del potere da cui la società contemporanea dipende e deriva.
Su questo tema D + S dedicano nella loro opera uno spazio di ricerca centrale. Nel 1999 realizzano l’installazione Master/Slave. Metafora, gioco, rimandi al cinema di fantascienza ed al tema del corpo meccanico dotato di anima, in questa opera vengono visualizzati una collezione di robots-giocattolo. Un nastro trasportatore dispone i robots in una condizione burocratica, sottoposti ad un accurato quanto invasivo sistema di sorveglianza, sicurezza e controllo.

Nel contesto di una mostra di fantascenza, la Cartier ci chiese di mettere in vetrina la collezione di robots giocattolo di Rolf Fehlbaum nella grande galleria di vetro di Jean Nouvel. Dovemmo prima considerare il robot da un punto di vista culturale. Nell’immaginario modernista, il robot serviva come un corpo surrogato in grado di eseguire incarichi umili, lasciando l’uomo libero di dedicarsi ad attività più importanti. La fantasia utopica divenne distopica in famosi film in cui il robot acquisiva un’intelligenza artificiale sufficiente a rovesciare la relazione padrone/schiavo. Mentre i robot di Fehlbaum erano semplicemente giocattoli al servizio dei bambini, qui, come prodotto museologico, essi potevano dettare le regole del gioco (D + S 2004).

Ciò che rende l’installazione estremamente interessante, oltre il sistema di relazione filosofico-sociale che l’opera possiede, è l’architettura costruita, lo spazio all’interno del quale si muovono i robots-giocattolo, quasi un’architettura implosa di memoria modernista, che, posta ad altezza dello sguardo degli spettatori, li spinge ad osservare e giudicare.

La collezione di robots giocattolo occupava una vetrina gigante, non differente dalla galleria nella quale si trovava. Era, tuttavia, implacabilmente orizzontale, iperilluminata in modo fluorescente, ed elevata al livello dell’occhio tramite una griglia di colonne. Gli spettatori venivano intrappolati tra le scatole di vetro, e si trasformavano in ispettori. La colonia di robots sfilava su un nastro trasportatore lungo 300 piedi. Durante il tragitto, i robots arrivavano a formare file e poi venivano eliminati arbitrariamente, non diversamente da un ufficio di collocamento. L’unico lavoro che i robots erano chiamati ad eseguire era posare di fronte alle videocamere, identificarsi, e avvalersi di una visita medica accurata (uno scanner di tipo usato negli aeroporti era posto alla base della rampa inferiore). Il sistema di sorveglianza mostrava dettagli dei robots nei momenti chiave (D + S 2004).

In questo progetto la componente architettonica e spaziale è rappresentata con forza, come i grandi plastici utilizzati nei set cinematografici, e induce l’osservatore a calarsi all’interno di quel mondo che il duo irriverente sta indagando. Nel loro lavoro l’ironia è un sistema per riflettere e prendere coscienza di una condizione di sorveglianza e controllo, sempre più capillare, a cui generalmente siamo tutti sottoposti, in maniera più o meno consapevole. In questo ribaltamento di ruoli e identità, D + S ci danno le chiavi per comprendere i nuovi scenari sempre più complessi della società dell’informazione.

Paesaggio interattivo

La prima Esposizione universale, tenutasi a Londra nel 1851, segna attraverso la realizzazione del Crystal Palace, una profonda rivoluzione in architettura sia nel campo strutturale che in quello percettivo. Architettura di solo ferro e vetro, in un impianto classico, eseguita dal costruttore di serre Joseph Paxton. Molte apparenti contraddizioni, da questa strada aperta quasi un punto di non ritorno. Questa opera esprime la cultura della prima era meccanica.
Dopo più di un secolo, Eero Saarinen e Charles Eames realizzano un capolavoro alla Fiera mondiale di New York (1964-65): un teatro retto da una foresta di alberi di acciaio corten, racchiuso da un ovoide. Un teatro sospeso e racchiuso, un tema classico ed una soluzione innovativa.
Nel 2002 per l’Expo svizzera viene invitata la ditta D + S per la progettazione del padiglione espositivo temporaneo Blur sul lago Neuchâtel a Yverdon-les-bains.

La nostra sfida consisteva nella responsabilità di rivolgerci ad un pubblico di massa. In precedenza, il nostro pubblico consisteva in cittadini di metropoli istruiti, di alta cultura, di orientamento progressista. La nostra opera si rivolgeva involontariamente a questa distinta sottocultura di cui facevamo parte. Il Blur Building d’altro campo doveva funzionare per ogni gruppo di età e strato socio-economico. Ci siamo riusciti tradendo ogni aspettativa. La gente che visita le mostre mondiali si aspetta di vedere un’esibizione del nazionalismo e del progresso tecnologico. In ogni caso si aspettano di vedere qualcosa. Volutamente abbiamo scelto di realizzare un edificio dalla visione ostacolata… un edificio in cui non c’era niente da vedere e niente da fare. Era un edificio che non rappresentava niente, ma era un niente spettacolare (D + S 2004).

A Yverdon uniscono due utopie distinte, incongruenti come i tempi che da anni investigano. La struttura d’acciaio infatti ricorda la sperimentazione iniziata negli anni ‘40 -’50 da Buckminster Fuller sulle strutture che abbracciano i vuoti all’interno.
Gli architetti realizzano una piattaforma basata sulla costruzione di una ellisse, dalle dimensioni notevoli: 100 m x 60 m x 10 m, posto a 15 m dal livello del lago. Il padiglione è realizzato con una struttura d’acciaio di tipo Tensegrety a cellule bipiramidali sostenute da 4 colonne.
Il tema io e l’universo, a cui i progettisti sono chiamati a dare risposta, chiarisce l’intenzione progettuale: la forma anulare ricorda gli studi rinascimentali che considerano l’universo come forma conclusa e circolare, come nella tradizione dei circoli neo-platonici. La struttura si presenta enigmatica, staccata dal suolo, che riecheggia nella mente il lavoro di Kiesler, che incredibilmente costruisce strutture avvolgenti che si staccano da terra. Anche a Yverdon D + S staccano la struttura dal filo d’acqua come una palafitta ben saldata su quattro robusti piloni.
Che cosa c’è di innovativo allora in questo progetto che ha avuto una incredibile fortuna?
La macchina, quando è spenta, si mostra silenziosa. Questo progetto è stato l’ossessione dello studio americano per due anni. La scelta era di far svanire la struttura-padiglione in una nuvola di vapore che fosse visibile a distanza dal visitatore dell’Expò. Così la grande struttura è governata da un computer che aziona 31.500 ugelli che prendono l’acqua dal lago e la vaporizzano a grande pressione. D + S spingono ai limiti estremi la ricerca del digitale. La macchina connessa si traduce così in un sistema intelligente ed inquietante che prende vita dalla stessa sostanza su cui si poggia. L’acqua è il nuovo elemento che il digitale investiga. Diverse le strade interpretative, tutte rivolte alla percezione psicologica e sensoriale del visitatore. Il virtuale e il digitale hanno introdotto una nuova dimensione che coinvolge, modifica il sistema di attesa e sorprende. Opera d’arte interattiva che rende pulsante la sostanza stabile del lago attraverso una indefinita sfocatura che fa perdere i confini del reale.
In Blur ricercano un’interazione fisica ed emotiva con il visitatore.
“Interattività fisica vuole dire che l’architettura stessa muta consentendo di esprimere il variare delle situazioni e dei desideri. […] L’architettura insomma può reagire, ma può anche inter-reagire e cioè adattarsi al mutare dei desideri degli utenti attraverso scenari percorribili come se fosse un ipertesto” (Saggio 2003).
L’esperienza si traduce da visiva a sensoriale quando il visitatore penetra attraverso una doppia passerella in fibra di vetro, lunga 110 metri, nella fluttuante piattaforma. La nube vaporizzata rende la percezione indistinta e sfocata. La tecnologia non è mai un sistema neutro e l’acqua bagna gli impermeabili intelligenti, dotati di sensori che si colorano o suonano in base a particolari sollecitazioni. Per D + S il tempo atmosferico si traduce in un tema globale, comprensibile universalmente. Nel rapporto tra individualità e infinito introducono una dimensione di inqualificabile, di non misurabile, lasciando al clima e ai venti la possibilità di variare la massa, la consistenza, la natura stessa della loro invenzione.
A partire dagli anni Ottanta Toyo Ito e Jean Nouvel sono gli architetti che aprono la strada all’architettura smaterializzata. Nel 1999 Ito teorizza sulla Blurring Architecture in una mostra tenutasi a Aachen e successivamente a Tokyo. Ito fa notare che: “Blur significa appannare, sfumare o essere indefinito, impreciso. Perciò Blurring Architecture viene a essere una “architettura dai limiti diffusi”. Si riferisce a un’architettura i cui limiti, oscillanti e sinuosi, sembrano quelli degli oggetti che si trovano in uno stagno dalle acque mosse” (Ito 99).
Tale stato indistinto, poco chiaro, sfocato, ricorda la turbolenza che si crea dalla mescolanza dei liquidi nella convergenza di due fiumi e riporta alla memoria gli studi di Leonardo sui flussi d’acqua.
Eisenman nel 2003 pubblica il testo Blurred Zones. Investigation of the interstizial dove affronta il tema del blurring. In una intervista con Günther Uhlig l’architetto chiarisce la sua visione:
“Il blurring è il tentativo di negare il valore dell’origine, la metafisica della presenza, la motivazione dei segni e il desiderio di informazione” (Eisenman 2000).
Se la cultura degli anni ‘80 aveva introdotto l’abbattimento delle strutture materiali e negli anni ‘90 gli algoritmi ci hanno mostrato nuove strutture generative della forma, a Yverdon D + S spostano l’attenzione su una struttura che scompare, perde di significato, rappresenta il non-definibile, chiarisce un nuovo percorso, forse mai più percorribile tra forma e rappresentazione. La macchina intelligente è la nuova sfida dell’era elettronica, che mostra una nuova interpretazione, che allontana la visione chiara (il termine “prospettiva”, da perspectiva, significa “vedere distintamente, con chiarezza”) a favore di un non definito che ha toccato in profondità l’anima dei visitatori come nelle intenzioni dei progettisti. La tecnologia digitale, acquisiti definitivamente i saperi di natura strutturale, apre lo sguardo verso l’indistinto, l’incommensurabile, l’altro sguardo oltre la finestra, per suscitare emozioni.
Lo spazio del corpo moderno, rappresentato dalla metafora del macchinismo, si trasforma nel corpo elettronico.
D + S intendono così mettere in discussione i principi che da sempre hanno configurato la disciplina architettonica, che aveva lavorato sulla definizione delle coppie dialettiche (dentro/fuori, chiuso/aperto). Blur significa letteralmente fuori fuoco e chiarisce una dimensione di non distinguibile. Perdono di senso concetti come vicino/lontano, interno/esterno. Realizzano la loro opera più complessa mettendo in crisi quello che in tutta la storia dell’uomo ne ha definito la sua capacità di sopravvivenza: il senso della vista. Il visitatore, una volta entrato nel Blur, vive un senso di disorientamento, dovuto ad un’alterazione percettiva, non c’è niente da vedere, tranne la nostra dipendenza dalla stessa visione.

Abbiamo trasformato e applicato le nostre conoscenze teatrali, riorganizzando la capacità di concentrazione e ridefinendo lo spettacolo. Il nostro incarico era di realizzare uno spettacolo che non dipendesse da un arco teatrale. Diversamente dallo spettacolo concepito per una platea raccolta, abbiamo voluto fare uno spettacolo diffuso per un pubblico disperso che estendesse la capacità di concentrazione attraverso un lieve senso di disagio (D + S 2004).

Jacques Derrida nel 1990 ha scritto Memorie di Cieco dove indaga il tema della cecità nella storia della pittura. Decostruisce l’idea di una visione chiara e distinta a favore di una memoria dell’immagine in cui il visibile cela l’invisibile o il non ancora visto. Nella sua concezione l’immagine non è più il punto di arrivo quanto la soglia oltre la quale vedere, che al contempo mostra il suo punto cieco. Derrida chiarisce che la visione non può più appagarsi della sola vista, ma necessita di un trasferimento verso gli altri sensi. “L’udito va più lontano della mano che va più lontano dell’occhio” (Derrida 2003).

L’indefinito e l’inspiegabile appartengono alla dimensione artistica e letteraria ed attraversano nei secoli la storia. Honorè de Balzac, ne Il capolavoro sconosciuto scritto nel 1832 ed ambientato nella Parigi del 1600, si interroga sulla vera essenza dell’arte. Il giovanissimo Nicolas Poussin si reca nello studio del pittore Francis Porbus. Il destino vuole che qui incontri l’anziano pittore, dal carettere burbero, Frenhofer, detentore del “segreto della pittura”, che in totale isolamento e segretezza da dieci anni lavora al suo capolavoro, la Belle Noiseuse. L’artista in questo lavoro ricerca la bellezza assoluta. Per completare la sua opera ha bisogno di una modella che incarni questo ideale.

Con grande difficoltà Poussen convince la sua Gilette a posare. Vinte le resistenze di Frenhofer che non voleva mostrare la sua opera completata, Porbus e Poussin scoprono che il capolavoro misterioso è in realtà un’accumulazione di “colori ammucchiati confusamente che colano in mille rivoli strani che formano un muro di pittura”. Da tale materia informe appare un piede di donna, perfettamente dipinto. Balzac anticipa un punto centrale delle ricerche che investiranno il ‘900, lo spostamento dell’arte verso il mondo informe e non descrivibile, che sfugge, non più a fuoco.
Diller e Scofidio, da sempre interessati all’uso della tecnologia ad alta definizione come medium, a Yverdon interpretano il sito come un foglio e utilizzano l’acqua per mettere in crisi la visione, per produrre come affermano gli stessi progettisti un’architettura anti-eroica, una tecnologia dalla bassa definizione, indefinita come una nuvola, attraverso il sistema più evoluto che la tecnologia mette a disposizione, per amplificare l’atmosfera di incertezza dovuta alla nebbia.

L’offuscamento è anche un meccanismo di difesa dalla sorveglianza. Qui la tecnologia è usata contro se stessa. La materia, lo spazio e l’informazione entrano nella dimensione virtuale. Il formale si è dissolto nel senziente. E’ il paesaggio, che liquefacendosi, acquista una vita autonoma ed inquietante, palpitando e pulsando.
Quando Papini nel 1931 scrive il libro GOG, in pieno clima futurista, dedica un racconto alla nuova scultura, tra ironia, gioco, nuova coscienza.
“Venite, mi disse. Vedrete ciò che non vi sarà dato vedere in nessuna galleria, in nessuna esposizione del mondo. Ho inaugurato, dopo millenni, una scultura nuova, mai praticata da nessuno. […] Vi ho pur detto che ho imparato a creare il “mai visto”. Sono anch’io scultore! - ma non già al grossolano modo di tutti. L’antica scultura massiccia e pesante, eredità degli Egiziani e degli Assiri, ha ormai fatto il suo tempo. Corrispondeva a civiltà religiose, monarchiche, lente, primitive. Oggi siamo scettici, anarchici, dinamici, cinematici. […] L’unica soluzione plastica possibile consiste nel passare dall’immobilità all’effimerità”.

Così lo scultore iniziò a lavorare con le sue mani la scultura di fumo.
“Guardatelo! Fate presto! Imprigionatevi nella memoria la forma! Fra pochi secondi la statua svanirà come una melodia che svanisce! […] - Il capolavoro è morto come muoiono tutti i capolavori! Che importa! Posso rifarne quanti voglio! Ogni opera è unica e deve bastare alla gioia d’un minuto unico. Che una statua duri dieci secoli o dieci secondi che differenza c’è rispetto all’eterno, poiché tanto quella di marmo che quella di fumo debbono alla fine sparire”.
A Yverdon-les-bains D + S accendono la macchina sensibile, sprigionano la nube di rugiada sul pubblico senziente, ricostruiscono un’immagine sfumata del lago per millenni rimasta inalterata, e sul tema io e l’universo scelgono una rapida emozione che si dissolve.

[Antonello Marotta]

Antonello Marotta, Diller + Scofidio. Il teatro della dissolvenza, IT Revolution in Architettura, Edilstampa, Roma 2005, prefazione di Antonino Saggio.

D + S 2004 - Le citazioni dei pensieri di Diller + Scofidio si riferiscono ad un’ampia intervista realizzata dall’autore e rilasciata dagli architetti per la realizzazione del libro. L’intervista è stata tradotta da Barbara Pasqualetto

Bibliografia relativa ai due capitoli

Lyon 97 - David Lyon, L’occhio elettronico. Privacy e filosofia della sorveglianza, Feltrinelli, Milano 1997.
Saggio 2003 - Antonino Saggio, L’architettura informa, in Furio Barzon, La carta di Zurigo. Eisenman De Kerckhove Saggio, Testo & Immagine, Torino 2003.
Ito 99 - Toyo Ito, Blurring Architecture [1999], in Giovanni Longobardi, Toyo Ito. Antologia di testi su L’architettura evanescente, Edizione Kappa, Roma 2003.
Eisenman 2000 - Peter Eisenman a colloquio con Günter Uhlig, Il carattere critico dell’architettura, in Domus n. 824, Marzo 2000.
Derrida 2003 - Jacques Derrida, Memorie di cieco. L’autoritratto e altre rovine, Abscondita, Milano 2003.

Archphoto ringrazia l’autore ed Edilstampa per aver concesso il diritto di utilizzo gratuito

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