Agostino Petrillo_Periferie d’Europa

Ci sono periferie che si orientano necessariamente verso un unico centro, e ci sono periferie che dipendono da una pluralità di centri. La storia della civiltà occidentale, come l’ha letta Fernand Braudel, ci parla di una successione di processi di centrage/recentrage, della nascita, ascesa e declino di centri, che erano al tempo stesso epicentri di grandi imperi economici, della creazione di periferie, esterne/interne. Esistevano poi le periferie estreme, gli spazi che gli storici tedeschi dell’economia chiamavano Außenarena, il campo esterno, dove vivevano Naturvoelker, da contrapporsi ai Kulturvoelker. Territori popolati da barbari, ai margini dei mondi civilizzati. La periferia in linea di massima erano sempre gli altri.

In noi Europei forte perdura una schematizzazione di questo genere, ma con ogni probabilità si tratta di un paradigma fuorviante, di una visione del mondo invecchiata, che non spiega più nulla.

Le periferie si allargano anche in Europa, i fenomeni di declino urbano si intrecciano alla nascita di quartieri dell’esclusione e della relegazione.
Oggi la crescita della periferia in Europa ha la valenza di un sintomo, di un segnale e al tempo stesso di una possibilità.

E’ il segno della nuova frammentazione, del disordine che avanza. La periferia in senso braudeliano, come terreno estremo di esercizio del dominio da parte di una centralità politicamente e geograficamente ben individuata si avvia a divenire un ricordo.
La globalizzazione, tramontato il sogno che essa dovesse forzatamente implicare delle forme strutturate di integrazione politica mondiale, prospetta sempre più divisioni e separazioni. Territori che vincono, territori che perdono.

Cresce il policentrismo dei poteri: più centri, più periferie, internità delle periferie agli stessi centri. Le mappe consolidate si dissolvono. Riemerge nell’atlante del mondo una confusione di poteri che ricorda quella del Territorium medievale. E la città europea? La sua eredità, la sua tradizione? C’è chi ritiene che, se pure ancora esiste, attraversi un periodo di transizione, in cui rischia di rappresentare poco più di “un modello provvisorio”, in attesa che le conseguenze della Globalizzazione ne modifichino ancora più radicalmente la struttura sociale e spaziale. Lentamente la città europea si piega al globale, che la utilizza per le sue finalità. L’intreccio glocale, pur economicamente produttivo, si mostra illusorio per quanto riguarda la speranza di poter condizionare a partire dai luoghi le scelte di fondo, di incidere sulla politica intesa come potere ultimo di decisione e di comando.

Non si tratta unicamente di una riproposizione della vecchia questione della “americanizzazione” della città europea, della ricezione di un modello sociale e produttivo profondamente estraneo, caratterizzato da selvagge e primitive ideologie socialdarwiniste dello sviluppo. L’America è un pretesto, intere sue parti sono già periferia, ghetto, è piuttosto l’ombra delle città globali ad allungarsi sull’Europa, a suggerire che sia in corso l’irresistibile attrazione da parte di un modello diverso, contraddistinto da una estrema polarizzazione sociale. L’ipotesi delle Global Cities, avanzata nel decennio scorso da Saskia Sassen, diviene una sorta di “profezia che si autoadempie”. Il potere decisionale si va concentrando in alcuni luoghi in cui vengono prese le risoluzioni che contano, vengono avviati i processi che riproducono i meccanismi di accumulazione su scala mondiale.

Sono centri di potere che divengono sempre più stellari, puntiformi, da cui si irradiano le reti comunicativo-informative che danno senso all’economia del pianeta, e che ancora dialogano con gli Stati nazionali, ma solo in attesa della loro definitiva obsolescenza. Fuori dai contorni disegnati da queste costellazioni di potere si allarga la distesa delle periferie, in cui vi è stagnazione e non più crescita, in cui diviene remota anche l’ipotesi della dipendenza dal centro. Sia perché il centro non è più uno e unitario, ma vi è una pluralità di centri, che può ignorare la periferia, dimenticarla, sia perché è possibile privilegiare le relazioni con gli altri centri, e relazionarsi con la periferia unicamente mediante dinamiche di sfruttamento occulto, di utilizzo occasionale e predatorio.

La città europea con le sue istituzioni secolari, cresciute in un lungo processo storico, segnata profondamente da un progetto di emancipazione ed eguaglianza, come si colloca in questa situazione nuova? Ha ancora un senso come “tipo ideale” di città, per dirla con Max Weber? C’è un’alternativa al modello offerto dai nuovi, violenti poteri planetari che hanno la loro sede materiale nelle città globali, dalle forze sfrenate dell’economia neoliberale, della commercializzazione del pianeta, che non sia il passivo adattamento e la “colonizzazione” che subiscono le mega-città terzomondiali? Prima che l’Europa divenga in buona parte periferia, è possibile giocare ancora la chance di uno sviluppo autonomo ed originale?

Le risorse da qualche parte esistono. Se i centri delle città europee tendono a diventare il regno delle nuove élites transnazionali, tanto egoiste quanto “cosmopolite” in senso puramente strumentale, legate per la loro sopravvivenza ad universi extraurbani, al network dei grandi centri mondiali, allora forse quello che di migliore la città europea ha prodotto, come orgoglio, libertà, consapevolezza, soggettività, quel che ne ha rappresentato la differentia specifica tende ad essere respinto e confinato nelle periferie. Qui risiede la possibilità, e in questo senso allora bisogna pensare diversamente la periferia. Forse il mondo va ripensato a partire dai margini. Il potenziale endogeno che in essi è rappreso e paralizzato deve trovare il modo di farsi strada, di esprimersi; la cooperazione che è la cifra occulta, il non detto della Città globale può trovare nella periferia il momento del suo disvelamento quale essenza e destino della metropoli. La periferia europea è il luogo, e lo hanno mostrato i recenti fuochi parigini, da cui può ripartire un più ampio discorso sull’eguaglianza, sui diritti. Produrre e animare allora politiche di resistenza, anche locali, ma soprattutto con respiro globale, significa provare a riproporre in quest’epoca di miseria l’utopia della solidarietà planetaria.

[Agostino Petrillo]

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