Fabrizio Violante+Katia Rossi_Play it again, Robert
“Gli europei hanno un senso innato della totalità organica o della composizione, ma devono acquisire il senso del frammento, e possono farlo solo attraverso una riflessione tragica o un’esperienza del disastro. Gli americani, al contrario, hanno un senso naturale del frammento e quel che devono conquistare è il sentimento della totalità, della bella composizione”.
Gilles Deleuze (1)
I titoli di testa scorrono su una lunga inquadratura fissa che incornicia un banale scorcio rurale del Midwest, un’antenna e un serbatoio dell’acqua davanti a un cielo all’imbrunire, in sottofondo la radio si sintonizza su una stazione di musica country: ci si aspetterebbe a questo punto l’avvio del solito viaggio on the road attraverso larghe praterie ricordando quel che rimane delle vecchie storie della frontiera, tra vaccari (lì li chiamano cowboy, cela va sans dire), piccoli grandi uomini, soldati blu, mezzogiorni di fuoco e sfide all’o.k. corral; ma invece le immagini sfumano nelle luci di un caffè di provincia, un diner che sembra rubato a un quadro di Edward Hopper, riflesse in una pozzanghera.
È qui che ci viene incontro un detective stralunato, un po’ Bogart e un po’ Keaton, splendidamente interpretato da un divertito Kevin Kline, e comincia a raccontarci una storia… Ecco, si potrebbe dire che l’ultimo film di Robert Altman, ottuagenario oscar alla carriera, sia tutto in questa apertura: anche questa volta il cineasta di Kansas City fa i conti con i miti dell’America, dei generi del cinema classico hollywoodiano, per non prenderli sul serio.
La rivisitazione dei generi è infatti una delle caratteristiche ricorrenti dei film di Altman, che li ha percorsi praticamente tutti - dalla fantascienza (Conto alla rovescia, Anche gli uccelli uccidono) al triller psicologico (Quel freddo giorno nel parco, Images), dal western (I compari, Buffalo Bill e gli indiani) al noir (Il lungo addio), dalla commedia (California poker) al musical (Nashville) -, sempre stravolgendone la struttura, così che, come ha sottolineato Emanuela Martini, “nessuno di questi corrisponde, se non minimamente, al genere cui in superficie si richiama” (2).
Il regista muove da situazioni tipiche della vecchia Hollywood per sbugiardare l’immagine stereotipata dell’american way of life e fare a pezzi i suoi miti. Quello del cinema di Altman è quindi un universo popolato da anti-eroi, un mosaico di personaggi non protagonisti (e paradossalmente The Player, I protagonisti, è il titolo del film che, premiato per la regia a Cannes, lo ha rilanciato agli inizi degli anni novanta), dove attori principali e secondari si equivalgono. Se in Radio America l’incipit è interpretato dal detective Guy Noir (l’improbabile nome del personaggio è evidentemente un’ulteriore ironica de-mitizzazione del protagonista tipico del poliziesco classico) è solo per spiazzare lo spettatore, che nel giro di pochi minuti viene portato dalle atmosfere western al noir, al vero genere del film, il musical, genere corale per eccellenza; si perché trent’anni dopo la realizzazione del suo capolavoro, Nashville, Altman torna al film musicale.
Se il film del ‘75 era una parabola sulla musica country come specchio dell’America profonda, Radio America (oggi) sembra voler portare avanti quel concerto country, riproporre quella struttura corale allegramente indisciplinata con la quale Altman dette corso al (suo) nuovo cinema americano. Che voglia parlarci della stessa America? La domanda, come si dice, nasce spontanea, dal momento che molte, moltissime, sono le risonanze fra un film e l’altro, da un film all’altro. Nashville rimane sicuramente un film chiave per comprendere la cultura americana: cinque giorni della vita di ventiquattro personaggi che si muovono nella capitale della country music, durante il suo celebre festival e nell’anno del bicentenario della nascita degli Stati Uniti, in una girandola di situazioni e suoni in presa diretta (è lo stesso regista ad avvertire che Nashville non ha musica di sottofondo, ma solo musica dal vivo).
Ma se allora Altman filmava lo spettacolo di un’America disorientata, la contraddizione tra i suoi valori fondanti e la loro falsificazione in nome degli interessi personali e politici, adesso non può che celebrarne l’ultimo spettacolo.
L’America sta morendo, così la sua musica non è più suonata nella strada e tra la gente del festival, ma sopravvive soltanto alla radio, che malinconicamente trasmette A Prairie Home Companion, il programma di Garrison Keillor, autore della sceneggiatura e interprete di se stesso, che dal 1974 va in onda dal Fitzgerald Theatre di St. Paul, Minnesota, Midwest appunto.
Nel film si immagina che la trasmissione sia giunta alla sua ultima puntata - fagocitata dalla modernità e dall’economia delle multinazionali, incarnate dal tagliatore di teste interpretato con fisica convinzione da Tommy Lee Jones, che ha acquistato il teatro per demolirlo in vista di una più redditizia destinazione - seguita, praticamente in tempo reale (poco più della durata dell’intero programma radiofonico), da una regia fluida e dinamica, con tre macchine da presa sempre in movimento tra il palcoscenico e i camerini, a filmare la folla dei personaggi in lunghi piani-sequenza e zoomate per sottolineare, sospingendo in avanti il primo piano, che lo spettacolo va avanti anche al di là dell’inquadratura.
Viene fuori così il ritratto di un Paese nostalgicamente ancorato alle sue radici, alle praterie, alle ballate e ai cowboy, dove famiglie intere calcano la scena cantando strazianti ricordi d’infanzia (bravissime come attrici e, sorprendentemente, anche come cantanti, Meryl Streep e Lily Tomlin), che emergono vividi dal background americano. Lo stile del film, che conferma ancora una volta la predilezione del suo regista per le storie corali ma minori, restituisce appieno quella che per Deleuze è la cifra della grande letteratura americana, caratterizzata da un naturale senso del frammentario. Una letteratura a cui manca il sentimento della totalità, perché l’America è fatta di stati federali abitati da popoli immigranti, minoranze che formano un mondo come insieme di parti eterogenee non totalizzabili, un vero e proprio patchwork.
L’americano in questo senso è colui che custodisce il germe di una grande potenzialità: essendosi liberato della funzione paterna inglese, è il figlio di tutte le nazioni e alla filantropia paternalistica ha sostituito una società di fratelli quale nuova universalità, almeno sulla carta…. Poiché invece si tratta di una società di figli mai pronti a diventare adulti, sembra suggerirci Altman, che da sempre nelle sue opere rincorre questa America capace soltanto di passare da un’infanzia all’altra (e lo fa soprattutto con America oggi), un’America di cui non può far altro ormai che celebrare l’ultimo canto.
In questo senso l’esperienza del regista non è separabile da quella peculiare esperienza americana che dà all’opera frammentaria il valore immediato di una enunciazione collettiva, in cui i vari processi di convivialità non preesistono, ma si elaborano via via in modo da creare un tessuto di relazioni mobili che fanno sì che la melodia di una parte (con Radio America è proprio il caso di dirlo) intervenga come motivo della melodia di un’altra. Di qui la centralità della musica, che campeggia sovrana nel film rimbalzando convulsamente da un personaggio all’altro. Di qui anche la centralità della presa diretta nella quasi documentaristica restituzione dei dialoghi: Altman permette sovente ai personaggi di parlare contemporaneamente, fino quasi a impedire la comprensione dei dialoghi stessi, che si sovrappongono generando una sorta di assemblea plenaria che dai camerini si sposta quasi senza soluzione di continuità sulla scena.
Voci, suoni e rumori mescolano realtà e finzione, proscenio e dietro le quinte, campo e fuori campo, magistralmente tenuti insieme da una regia sempre attenta a non distinguere tra i due palcoscenici, quello della vita e quello del teatro. L’overlapping dialogue è l’espediente altmaniano non soltanto per tenere sempre desta l’attenzione dello spettatore (come più volte lo stesso regista ha confessato), ma soprattutto per restituire il caos che rende irriconoscibile la realtà e dare conto della identità schizoide della società americana. All’overlapping corrisponde dunque la preponderanza delle relazioni, che si impongono soppiantando i soggetti, smembrati da questo sentimento innato della frammentarietà.
Sin dai suoi primi film, Altman rompe infatti con la tradizione narrativa cinematografica, scegliendo di mettere in scena essenzialmente le relazioni esistenti tra i diversi personaggi, relazioni di numero sempre crescente e di spessore sempre maggiore, che sono come il motore della Storia nel flusso caotico delle vite che tutto macina, passato e presente. Il suo interesse per le scene minori e i frammenti, che è più importante di qualsiasi considerazione complessiva, lo conduce ad una vera e propria spersonalizzazione che, lungi dall’essere il sintomo di un’apparente latitanza autoriale, cela in realtà l’assenza di qualsivoglia sistema gerarchico che regoli l’orchestrazione dei caratteri. È come se Altman sottraesse ogni rilevanza al personaggio per risignificarlo nella totalità del coro, in modo tale da costruire una sorta di tutto, tanto più paradossale in quanto viene solo dopo i frammenti e li lascia intatti, evitando di totalizzarli.
Non a caso Altman ha dichiarato da sempre di essere interessato più alle motivazioni dei personaggi che non alle trame complicate, per cui girando un film si riferisce alla sceneggiatura semplicemente come a una traccia (spesso addirittura alcuni passaggi della trama sono lasciati alla deduzione dello spettatore, ancora una volta per mantenerne viva l’attenzione), continuandone la scrittura anche durante le riprese, e consentendo ai suoi attori ampi margini di improvvisazione: “è tutto nelle loro mani. Io mi tiro un po’ in disparte senza intervenire più di tanto. Gli errori caso mai posso correggerli in montaggio. I miei attori devono essere però creativi e non semplici corpi da spostare qua e là” (3). Ciò che ne risulta non è affatto una bella composizione, con l’inevitabile imporsi di una forma totalitaria, ma un eterogeneo processo di relazionalità, una vera e propria polifonia.
È il cinema stesso, sembra insegnarci Altman, a possedere un’innata disposizione a farsi sorprendere e trasportare dalle dinamiche che emergono da un collettivo calato in un contesto; il regista deve solo scegliere gli attori e la situazione, creare le giuste condizioni: “Tutto quello che faccio è mettere insieme alcuni elementi quando si conosce il soggetto del film e l’atmosfera della storia. Dopo aver definito il cast dei personaggi e averli disposti nell’area del set, essi devono iniziare a creare perché sono gli artisti. Solo a questo punto è possibile stabilire lo stile come aspetto visivo del film. Si decide dove collocare la camera, si scelgono le posizioni e i piani. Poi quando tutto questo è deciso, il mio lavoro è fatto” (4).
Tuttavia, al di là di questa splendida riproposizione di un musical alla Altman, il dato che più deve farci riflettere sembra essere la scelta del mezzo di informazione al quale il film dà, come detto, non solo voce e immagine, ma corpo. In un’epoca in cui si assiste al processo di evoluzione delle comunicazioni, dell’informatica, della televisione e del cinema, un’epoca la cui cifra è diventata l’accelerazione e il tempo si contrae spesso e volentieri nel visuale, non può non sembrare anacronistico rivolgersi alla rappresentazione di una trasmissione radiofonica. In un mondo dove tutti vogliono comunicare per immagini, Altman sceglie di dare spazio alla radio; di dare spazio con la radio a quell’America che aveva già fotografato trent’anni fa, sebbene mostrandocela adesso sul viale del tramonto.
Ecco perché, nonostante le premesse che richiamandosi a Nashville lasciavano intravedere una via d’uscita, una nuova possibilità cinematografica, l’affresco mostratoci in Radio America, anche se risolve egregiamente il paradosso di applicare il cinema alla radio, ha ineluttabilmente i caratteri nostalgici di chi, voltandosi indietro a contemplare un’intera vita, non crede più alle belle speranze e si limita ad ascoltare.
Ciò che salva complessivamente il film è la semplicità del tocco con cui il regista riesce ancora una volta, pur in un film su commissione e sul non sempre convincente copione di Keillor, a restituirci un’allegoria del suo amato-odiato Paese, che ride alle barzellette goliardiche dei suoi cowboy un po’ suonati, che si lascia distrarre da un programma fuori (dal) tempo, ignaro della verità fuori casa, e che si illude che un angelo in impermeabile bianco si porti via il cattivo di turno. In questo senso il titolo italiano, così come era stato per America oggi, bene rende la vocazione del regista di narrarci appunto l’America, e con essa tutto il nostro mondo.
Radio America quindi, dopo il passo falso del precedente The company, è di nuovo un film altmaniano in senso stretto, e naturalmente ci auguriamo che questo ultimo spettacolo narrato, con i suoi tanti lutti (serenamente elaborato è quello per la morte del vecchio cantante, visto che “non ci si deve disperare di fronte alla morte di un uomo vecchio”, come dice l’angelo, e lo spettacolo non può che continuare) e il memento mori del finale, non sia il canto del cigno di uno dei grandi dinosauri del cinema americano: play it again, Robert.
[Katia Rossi+Fabrizio Violante]
Questo testo è stato pubblicato in ‘Carte di cinema-viaggi al termine della visione’ n.19, 2006, pp.14-16
(1) G. Deleuze, Critica e clinica, tr. it. di A. Panaro, Raffaello Cortina, Milano 1996, p. 79.
(2) E. Martini, Il lungo addio, l’America di Robert Altman, Lindau, Torino 2000, p. 45.
(3) Cfr. F. De Bernardinis, Robert Altman, Editrice Il Castoro, Roma 1995, p. 4.
(4) Cfr. E. Magrelli, Robert Altman, La nuova Italia, Firenze 1977, p. 6.