Andrea Repetto_Lo spettatore della quinta fila
Esterno notte: piove, c’ è una leggera nebbia, lo spettatore attende che qualcuno si avvicini alla cassa, per non essere il primo a fare il biglietto.
Interno: nella sala con le poltrone rosse, lo spettatore prende posto a metà della quinta fila, qualche istante prima che si spengano le luci, in sottofondo, percepisce il leggero rumore della macchina da proiezione. Su “Texas” si sono spese tante parole, anche per la mancata ammissione al concorso alla Mostra di Venezia e l’ inserimento nella sezione “Orizzonti”, che gli ha permesso visibilità e ampio riconoscimento.
Fausto Paravidino, autore, regista e attore teatrale, fa sua un’ imperdibile occasione per mettersi in discussione, raccontando storie diverse in maniera efficace e dosando il ritmo della narrazione in funzione delle differenti situazioni raggiunge l’obiettivo. Racconta la generazione dei quasi-trentenni, dei quarantenni e degli over-sessanta, gruppi che appartengono a generazioni del paesaggio. La provincia, nel nostro caso sud-alessandrina, l’ ovadese, tra la montagna e la pianura, conquista il titolo di “luogo-non-luogo”, in cui l’ apparente scarsa identità lo relega al ruolo di periferia, non è chiaro di cosa, ma molto probabilmente di se stessa.
“Provincia non più rurale e non ancora urbana… un posto dove non c’ è nemmeno un cinema ed i cellulari non prendono”, in realtà una provincia cresciuta troppo in fretta, che in pochi anni da agricola si ritrova ad essere, suo malgrado, post-industriale.
Lo spettatore della quinta fila è abituato a frequenti riflessioni sul territorio, alle possibili interpretazioni e non può non annotare queste considerazioni. Oltretutto conosce molto bene tutte le locations, che costituiscono il proprio quotidiano. “L’ autostrada che non si ferma mai, neanche di notte”, il centro commerciale (che è diventato il punto di riferimento della zona), il controcampo tra la struttura portante di un capannone isolato ed uno degli ultimi baluardi della siderurgia italiana, persino l’ inquietante sfondo della scena che prelude ad un possibile dramma fa parte di un suo passato prossimo; la stazione, i locali, le vedute ed i vicoli del paese ed anche la variopinta automobile sono tutte immagini un po’ troppo familiari che, venendo proposte secondo una scrupolosa regia, cercano di distrarlo dallo svolgersi degli accadimenti.
Un gruppo di ragazzi che tentano di vivere il loro tempo, consapevoli di non poterlo fare, almeno nel posto dove sono nati, che sono inevitabilmente a stretto contatto con chi ha più del doppio della loro età e fatica ad adeguarsi di fronte alla fine di un’ era (rurale) che ha caratterizzato i luoghi. Le immagini si susseguono molto energicamente, mentre Enrico (Fausto Paravidino), un po’ voce fuori campo ed un po’ parte attiva della scena, presenta i vari personaggi, alcuni addirittura resi caricatura per divertire il pubblico, le loro storie e, soprattutto, sogni ed aspirazioni.
Sogni… espressione che male si combina con la mentalità degli anziani, sono loro, infatti, a dettare le regole su cui si basa la vita di un piccolo paese, nel quale resistono i valori di sempre: il prete, il dottore e la maestra, le tre figure cardine sono e devono continuare ad essere d’ esempio per tutti. In quel contesto sociale già stonerebbe che proprio la maestra avesse gli occhi di un azzurro così intenso come quelli della sua interprete, figuriamoci poi se arrivasse a dare scandalo! Già la maestra, Maria, (una bravissima Valeria Golino) sposata con Alessandro (Valerio Binasco) un “bravo ragazzo” suo coetaneo, ma al tempo stesso un po’ sconfitto e succube della famiglia, appartiene alla “generazione di mezzo”, che si identifica con i ragazzi e non con i loro genitori, ha ancora tanti sogni incompiuti, ma deve fare i conti con una malvissuta realtà: la solitudine.
In un ambiente così circoscritto, dove le opportunità sono davvero limitate, tutti più o meno fanno le stesse cose e frequentano gli stessi luoghi, non si può evitare di incontrarsi, sia pur senza conoscersi realmente. E’ quindi naturale che la storia di Maria si incroci con quella di Cinzia (la seconda protagonista interpretata da un’ altrettanto brava Iris Fusetti) e del suo fidanzato, due donne accomunate dalla sincerità assoluta, dal rifiuto dell’ ipocrisia. Cinzia è alla ricerca di un affetto anche familiare poco manifestato e della considerazione degli altri, vorrebbe essere “la fidanzata di Gianluca (Riccardo Scamarcio) e non il suo zainetto”, mentre Maria vive un rapporto quasi piatto, sperando sempre che il suo compagno, prima o poi, sia in grado di prendere decisioni autonome.
Durante il “colpo di fulmine”, dapprima tenta la via dell’ autodifesa attraverso il ricordo delle frasi decisive nel momento in cui si era innamorata di Alessandro, ma questa volta citare le immagini del “pudore del protagonista dei film western, che cela con la tesa del cappello l’ atto di baciare la sua bella” non serve a nulla, anzi è proprio lei a fare il primo passo verso una relazione che immediatamente è sulla bocca di tutti, che non nasconde, ma non la rende felice; un sogno che non si sta avverando, ma la porta ad essere solo “un bel trofeo” ed (in previsione del quarto atto che l’ Autore definisce cechoviano e non ci mostra, lasciando ad ognuno la facoltà di completarlo) i due mesi trascorsi nell’ essere desiderabile e nel non invecchiare, “amandosi e basta”, la indurranno a riconsiderare il tutto, sempre però in un contesto di assoluta solitudine, fino a mostrarsi nell’ esteriorità, non senza soffrirne, come i benpensanti l’ hanno malignamente definita: una puttana.
Le immagini sono tuttaltro che imperfette, la scelta degli esterni lascia intravedere particolare conoscenza ed attenzione al paesaggio che accompagna la storia, gli interni (merito della scenografa Laura Benzi) sono di una realtà impressionante e l’ illuminazione utilizzata per girare le scene è molto accurata; lo spettatore della quinta fila divora uno per uno tutti i fotogrammi della pellicola 35 millimetri, ormai sta perdendo la percezione della poltrona su cui siede, sostituendola con altre sensazioni: l’ aria, la nebbia, l’ umidità, persino gli odori sono gli stessi che ha lasciato fuori da quella sala ed inizia ad avere dubbi prossimi ad allucinazioni, non sa più da che parte dello schermo si trovi.
Fausto, (lo spettatore si permette il tono confidenziale, essendo stato fotografo di scena in una delle sue primissime esperienze cinematografiche) dopo aver ricordato che “siamo tutti nipoti di Pavese e Fenoglio”, propone anche due delicate citazioni del Partigiano Johnny diretto da Guido Chiesa: la prima attraverso l’ immagine di un Alessandro bambino dietro alla finestra, osservatore di un chiaro riferimento al periodo della guerra, la seconda nella particolare inquadratura, dall’ alto della collina, di una vigna invernale.
Lo spettatore della quinta fila è estasiato dalla fotografia, mai casuale, il taglio dei primi piani, l’ utilizzo dello sfocato, la prospettiva grandangolare, il movimento della macchina da presa, i più piccoli dettagli e le sfumature. Anche se il regista lo provoca con le due diverse scelte di montaggio, tutto è così perfetto da sembrare vero, persino una bottiglia bordolese che al termine di una scena si è trasformata in un fiasco, ma forse nessun’ altro lo ha notato.
“The crying game” accompagna i titoli di coda, si riaccendono le luci, lo spettatore della quinta fila esce, per la quarta volta in pochi giorni, da quella sala (chissà cosa avrà pensato di lui la proprietaria del cinema), appena fuori lancia un’ occhiata ad un’ “esterno” che è lì, a pochi metri; riaccende il cellulare, che mostra solo una tacca e, poco convinto che tutto sia davvero come gli sembrava prima di vedere il film, oltre che nella nebbia, si addentra nel centro storico, ricordando a se stesso: ” non siamo mica bestie”.
Si ringrazia la Fandango per la collaborazione
alcuni link di approfondimento
http://www.drammaturgia.it/recensioni/recensione1.php?id=2655
http://www.hideout.it/index.php3?page=notizia&id=1601
http://www.effettonotteonline.com