Fabrizio Violante_Un ricordo di Dino Risi
Era stanco dei suoi troppi anni, Dino Risi. Era nato a Milano novantuno anni fa ed era laureato in medicina. Con realistica rassegnazione aveva abbandonato da tempo il cinema, pensando che non fosse un mestiere per vecchi. E’ stato un prolifico regista della commedia all’italiana, contribuendo a fare grande il nostro cinema con un’ironia acuta e senza remore, uno stile tanto personale che i francesi, la cui critica ne aveva riconosciuto il valore ben prima di quella di casa, ne hanno tratto l’aggettivo dinorisienne. Non amava definirsi autore – i film di Antonioni non si tratteneva dal definirli di una noia mortale –, ma era certamente un maestro, un animale da cinema. Approdato alla regia con il film Vacanze col gangster del 1952, Risi ha svecchiato la commedia disimpegnata alla Camillo Mastrocinque, squarciando con la lama tagliente della satira il velo perbenista e clericale a copertura dell’anima cialtrona, pruriginosa e arrivista dell’Italia del boom. Interpretati dagli inarrivabili leoni dell’immedesimazione e della caratterizzazione Sordi, Gassman, Tognazzi, Manfredi e Mastroianni, i palazzinari, gli arrivisti, i truffatori, gli uomini disonesti per necessità, le beghine, le mogli fedifraghe, i lavoratori maltrattati, gli impiegati sfaticati, gli intellettuali disillusi, i politici intrallazzatori, i portaborse profittatori e tutti gli italiani medi che popolano i suoi film, al di là del semplice bozzetto macchiettistico che caratterizzava molto del cinema popolare di allora, rivelavano agli spettatori, senza ricatti moralizzatori, l’altra faccia del successo economico, della borghesia industriale, della crescita del tenore di vita e delle beghe di una società (in)civile che, lontani finalmente i disastri della guerra, si godeva l’euforia del progresso. Mentre Fellini inseguiva i suoi fantasmi e Antonioni si dava alla descrizione cerebrale della borghesia incupita da un mondo in cui non si riconosceva più, Risi – con Monicelli e Comencini, su tutti – si impegnava nella difficile arte della commedia popolare volta a divertire e avvertire il (grande) pubblico. Un cinema certamente di successo, che univa il riso e l’autentica e, perché no, cinica descrizione dei costumi e delle fregature dell’Italia neo-capitalista. Insomma, Dino Risi è stato un artigiano di talento che ha reso importante e celebrata la commedia all’italiana, la tradizione migliore del nostro cinema che sapeva raccontarci senza annoiarci. Una tradizione, diciamolo, da troppo tempo fagocitata dalla deriva della visione ombelicale di tanti neo-autori, che da almeno vent’anni hanno ridotto molta della produzione italiana a film di interni che allontana il pubblico e fa mormorare la critica. Invece Risi, insieme a straordinari sceneggiatori come Maccari, Scola, Age, Scarpelli, sapeva descrivere col suo sguardo realisticamente critico e distaccato il carattere peggiore degli italiani, in cui anche si riconosceva («sono stato stupido, infedele, bugiardo, vile, ipocrita, fatuo, furbo, vanesio, indecente, annoiato, triste, invidioso, disperato»), ma che profondamente lo deludeva. Almeno tre i film della sua ampia produzione (più di cinquanta pellicole, non sempre giustificate dal suo talento) che tutti dovrebbero aver visto e che ogni scuola del paese dovrebbe proiettare ai suoi studenti. Innanzitutto Una vita difficile (1961), a mio parere il suo figlio più maturo, amaro racconto di un resistente che si fa coinvolgere e stravolgere dal conformismo del miracolo economico, interpretato dall’italiano tra gli italiani Alberto Sordi, qui alla sua prova più convincente (e più lontana dagli stereotipi della sua maschera). Poi sicuramente Il Sorpasso (1962), il suo film più ricordato, in cui Vittorio Gassman – attore caro al regista e quasi un suo alter ego – interpreta un fanfarone italiano in vacanza, che percorre a tutta velocità (la vita e) l’Aurelia strombazzando e sfottendo gli altri automobilisti, tirandosi dietro un timido studente (che ha la faccia pulita di Jean Louis Trintignant) fino alla curva fatale del finale disperato; finale che il produttore Cecchi Gori tanto aveva avversato. Infine I mostri (1963), straziante, grottesca galleria di personaggi incarnazione della umanità sbagliata del belpaese, resi con convincente mimetismo dagli indimenticabili Gassman e Tognazzi.
«Meno male che non sono morto oggi, andavo con due righe in cronaca», aveva dichiarato Dino Risi con ironia quando se ne erano andati Antonioni e Bergman. Invece è morto lo scorso sette giugno a Roma, e noi lo piangiamo: ridendo con i suoi film…