Umberto Cao_Due o tre cose sulla IX Biennale
La prima cosa che viene in mente è che una “metamorfosi” non c’è stata: la nona edizione del nostro celebrato “Festival di Architettura” è in linea con le edizioni precedenti, almeno le ultime due, quelle di Fuksas e di Sudijc. Ce lo conferma innanzi tutto il carattere compilativo e totalizzante della rassegna, almeno quella delle Corderie, da sempre il nucleo più significativo; quindi il consueto disinteresse per le opere degli italiani, condiviso ormai con la Biennale Cinema; infine la dimensione “muscolare” dello sforzo organizzativo disperatamente appeso alle estemporanee esibizioni (installazioni?) delle star internazionali.
Ma forse è bene sia così. Come potrebbe altrimenti il progetto di architettura competere con le dimensioni ipertecnologiche della multimedialità contemporanea? Come potrebbe confrontarsi con quella proiezione di squali in alta definizione su schermo di oltre 350 metri quadrati, gonfiato con 600 metri cubi di aria, che occupava l’intera Piazza San Marco “noleggiata” da Dreamworks per 5 milioni di euro proprio la sera della vernice della Mostra? Come potrebbe proporsi al grande pubblico se non con star che percorrono le rive e i giardini con codazzi di fans e bodygards? Ma soprattutto come potrebbe colpire la nostra fantasia stordita dal cruento realismo di guerre e tragedie planetarie?
Se abbiamo per tanti anni lamentato l’isolamento della nostra disciplina e del nostro mestiere, eccoci serviti: l’Architettura è in scena come spettacolo più che come speranza. Ricordo che l’inizio di questa nuova dimensione furono le celebrazioni UIA nella rinnovata Barcellona del 1996, attraversate da impensabili raduni popolari, affollamenti e feste al seguito delle cerimonie e delle conferenze. In otto anni, e con 3 o 4 edizioni della Biennale di Venezia - ma anche delle tante “biennali” che ormai si diffondono nel mondo - l’Architettura ha trovato la giusta considerazione nell’ambito dell’informazione e comunicazione di massa.
E si! Perché in questi stessi otto anni, mentre esplodeva il meritato successo professionale di architetti come Eisenmann o Gehry, Hadid o Foster, Koolhaas o Ito, Piano o Fuksas… le grandi città europee si trasformavano: Berlino ricostruiva i suoi vuoti con una spettacolare cantierizzazione, Londra e Rotterdam trasformavano il loro porto fluviale, Amsterdam si riproduceva nell’acqua, Atene costruiva le sue olimpiadi e persino Roma, un po’ in affanno, affidava incarichi alle star dell’Architettura. Contemporaneamente le metropoli dell’oriente, indipendentemente dai dettami ideologici, si ricostruivano affidandosi a incredibili esuberanze architettoniche.
La sensazione è che le due velocità con cui normalmente cresce e si trasforma il pianeta rischi di spaccare in due anche il mondo degli architetti, aprendo una voragine di incomunicabilità tra ricerche pazienti e impazienti fantasie, tra pratiche di mestiere e sperimentazioni tecnologiche, tra mezzi semplici e strumenti di avanguardia.
E’ questa la storica contrapposizione tra continuità ed avanguardia e tra conservazione e innovazione, oppure il conflitto tra chi riesce a costruire nelle affollate atmosfere metropolitane e chi invece resta a sperimentare nella penombra davanti al monitor di un computer? Oppure ancora tra chi realizza opere semplici ma significative che non fanno “cassetta” e chi invece trova facili spazi di comunicazione e pagine patinate?
La realtà è che l’alleanza tra il potere politico ed economico (finalmente conquistato dall’Architettura) e il mercato della editoria e della comunicazione (legittimato dai crediti culturali), ha stabilito le regole del gioco, ha vinto, e ha scelto “Metamorph”.
Allora giudichiamo la nona Biennale Venezia per quello che vuole essere: una rassegna esuberante e completa (con l’inspiegabile rifiuto di Koolhaas) delle opere degli architetti che più hanno successo e visibilità internazionale.
E’ molto spettacolare e certamente stimolante per il grande pubblico l’allestimento di Asymptote delle corderie, che ospita una rassegna suddivisa in tematiche generiche quanto artificiose (chi ha capito cosa sono gli “iper-progetti”?), nelle quali sono state faticosamente fatte rientrare da Forster opere di architetti che andavano comunque invitati: una grande “baldoria” di figure - quasi tutte peraltro già note e pubblicate - fatte per stupire ancor prima di essere comprese, una disinvolta miscellanea di linguaggi e stili che lascia un amaro senso di disorientamento. Il risultato di questo sconcerto è che non pochi visitatori della kermesse inaugurale, anche e soprattutto giovani insospettabili, rimpiangevano le prime Mostre della Biennale: tornava il ricordo di quella inquietante “Presenza del passato” (1980) fortemente tematizzata da Portoghesi; oppure la nostalgia della grande “chiamata alle armi” di Aldo Rossi sui temi veneziani (1985). Sono passati venti anni, certamente l’Architettura - e noi stessi - siamo cambiati, ma era un altro modo di costruire un dibattito, puntando sui giovani senza complessi ed esterofilie.
Oltre le Corderie, sull’acqua dell’Arsenale è stato realizzato il padiglione di Cecchetto, intensamente minimalista (certamente la migliore “installazione”), all’interno del quale però l’allestimento è curato dalle singole municipalità delle “Città d’acqua”, con l’inevitabile prevalenza degli aspetti di promozione politica rispetto ai contenuti architettonici.
Più discontinua e confusa la mostra del Padiglione Italia: la rassegna di Zardini sugli “interni” ha il merito di costruire un percorso tematico e di avvalersi di invenzioni scenografiche certamente fascinose per il pubblico; ma alla fine la sensazione è che non sia una mostra di architettura ma una rassegna di belle foto d’autore. Poi all’interno del Padiglione è il caos, perché la mancanza di un allestimento coordinato e di un percorso definito mette insieme in modo incomprensibile installazioni, collezioni fotografiche e una mostra su auditori e teatri. Certamente più gradito il caos dichiarato e teorizzato nella metafora sulla torre di Babele apparentemente caduta ma certamente ricomponibile, proposta da Scolari, oppure quello genialmente attuato nel Padiglione giapponese, i cui curatori hanno rinunciato al facile trionfalismo dei successi architettonici del loro paese per irridere allo spazio architettonico attraverso la infinita moltiplicazione della iconografia “otaku”.
Un discorso a parte merita il Padiglione della DARC, al quale tutti guardavano come possibile “luogo” per una riflessione sull’architettura italiana, conoscendo l’infaticabile attività di Baldi ed il suo sincero impegno nella promozione dell’architettura di qualità. Ma l’idea di chiamare 10 noti testimoni dell’architettura italiana contemporanea per raccontarci la loro opera preferita tra quelle realizzate negli ultimi 50 anni e di farla fotografare da altrettanti bravi fotografi, non ha funzionato. Ma come! In una Biennale tutta sbilanciata sulla metamorfosi senza ritorno dei linguaggi contemporanei e sulla esaltazione della potenza di fuoco degli architetti più internazionali, l’unico spazio italiano ci mostra per l’ennesima volta la Torre Velasca, il Collegio di Urbino ed il Gallaratese. Come a dire: in Italia nulla di nuovo, siamo stati bravi ora è finita!