Piero Orlandi_Non si possono separare le cose dal loro divenire
La cultura urbanistica degli anni Settanta conosce una specificità bolognese ed emiliana: è la pratica della conservazione del centro storico, che per i decenni successivi ha costituito l’obiettivo primario del governo del territorio nella regione, transitando con poche variazioni nella legge urbanistica dell’Emilia-Romagna, nei piani regionali - territoriale e paesistico - e di qui nelle articolazioni di scala provinciale e comunale.
All’inizio degli anni ‘90, si è cominciato a vedere che la sola conservazione, soprattutto se troppo impostata sul vincolo, sul veto, sul blocco, non poteva bastare, che nel frattempo la città era cresciuta ed era cresciuta troppo, e che i costi economici ed ambientali della città diffusa consigliavano opportune politiche pubbliche volte all’addensamento, alla costruzione della città su se stessa. Si è vista la necessità di ridefinire gli obiettivi di intervento su città che non crescevano più in termini demografici, nelle quali la grande espansione aveva eroso i confini che le distinguevano dalla campagna. La prima risposta è stata il progetto urbano, ritenuto adatto per ridare “forma e immagine” alla città moderna attraverso un intervento per parti. Il progetto urbano si è anche progressivamente confuso coi “programmi complessi”, che a partire dai primi anni novanta sono diventati un fondamentale canale di finanziamento e di istituzionalizzazione delle pratiche progettuali, oltre che terreno di incontro per differenti politiche urbane.
Anche l’Associazione Nazionale Centri Storici ha sentito il bisogno di reagire, rinnovando le linee della propria azione nel convegno di Perugia del novembre 2003, e assumendo la dimensione paesistica del progetto come la prospettiva nuova da cui guardare alla città e al territorio e ai loro rapporti cruciali con la modernità: non è più tanto vero che il progetto deve relazionarsi al contesto, deve invece creare esso stesso il paesaggio. La tutela non deve gestire vincoli ciechi e muti, ma richiede progetti di innovazione conservativa che rispecchiano l’evoluzione del concetto stesso di conservazione: “non si possono separare le cose dal loro divenire”. Si parla di una visione progettuale, non statica, del patrimonio culturale, e dunque di un progetto contemporaneo del patrimonio culturale. Sono definizioni, e le definizioni sono spesso abbastanza larghe da essere alla fine condivise da tutti; è il confronto sulla prassi che segna le differenze di opinione. Ma passano idee nuove: non è vero che il modo migliore per occuparsi dei centri storici è lavorare sulle periferie per abbassare la pressione sulle zone centrali?
Creare nuove centralità altrove, e anche nuove immagini urbane, nuovi simboli di urbanità alternativi a quelli della storia e della tradizione; realizzare nuovi servizi, nuove opportunità esterne, utili a mitigare la densità di funzioni nel centro e a ottenere una sua svalutazione relativa, sia in senso economico che simbolico: ciò produce conseguenze calmieratrici sui valori immobiliari, e dunque consente un maggiore uso abitativo, in parziale alternativa a quello attuale (uffici, banche, commercio). Anche secondo la convenzione europea del paesaggio, non ci si dovrebbe più occupare soltanto delle aree di qualità, ma anche di quelle parti del territorio che finora sono state considerate “brutte”, e sulle quali si sono commesse tutte le nefandezze o banalità progettuali, “tanto l’ importante è preservare le parti di pregio”. Roberto Cecchi, direttore generale del Ministero Beni Culturali, ha detto in un incontro pubblico che paradossalmente è sulle “bruttezze naturali” che dovremmo lavorare, e lo slogan mi pare efficace.
Negli anni Settanta la conservazione ha abbandonato il concetto di monumento e ha introdotto il concetto di tessuto, serialità, ecc. Ma l’edilizia seriale non è propriamente architettura: le facciate, i portici, il ritmo delle aperture, ecc. rispondono a un disegno semplice, a volte povero, schematico, un disegno che nel progetto del nuovo sarebbe definito con ogni probabilità ripetitivo e scadente. Da più parti ci si torna a chiedere: perché la perdita di un elemento di questa serialità dovrebbe essere una perdita grave? Mantenere norme di intervento urbanistico con contenuti di questo genere non significa forse ispirarsi a una concezione del progetto urbano troppo nostalgica? Perché la nostalgia dovrebbe essere il sentimento dominante del progetto? E in alternativa, cos’è dunque il progetto contemporaneo del centro storico di cui si parla?
La mentalità emiliana in questo, non è cambiata molto negli ultimi quarant’anni. Se cerchiamo una risposta a quesiti di questo tipo nel Quadro Conoscitivo del nuovo Piano strategico strutturale di Bologna, ne troviamo una al capitolo “La conservazione e la tutela del patrimonio storico del centro: bilancio del passato e considerazioni per il futuro”. Vi sono contenute affermazioni apodittiche del tipo: “il linguaggio architettonico: l’inserimento del nuovo nell’antico (previa demolizione dell’esistente) è ormai, in generale, sul piano normativo e legislativo oltre che culturale, un problema superato”. Vuol dire: se mai a qualcuno venisse in mente di riprovarci, attaccando la sacralità di norme scritte per non esser mai mutate, sappia che è un barbaro. Siamo sulla linea dei libelli di Perluigi Cervellati e dei recenti, apocalittici prodotti editoriali di Vittorio Sgarbi. Ma il fatto è che anche al di fuori delle zone storiche la prassi del recupero ha fatto scuola al punto che ora a Bologna sono degni di attenzione anche gli edifici a corte dello IACP (ora ACER): se i tagli degli alloggi sono inadeguati, si demolisce, ma per ricostruire con la stessa forma e tipologia.
Il ripristino è una modalità di intervento che ormai si applica a qualunque costruzione abbia più di qualche decina d’anni di età. E il restauro dell’architettura antica è sempre più antico e sempre meno moderno, sempre meno un progetto contemporaneo, appunto. Sempre meno “incontro tra la memoria e il nuovo”, secondo la definizione di Manfredo Tafuri.
Wim Wenders ha trovato l’espressione confetteria urbana, per una concezione del restauro che arriva all’accanimento a resuscitare ogni preesistenza, e che soprattutto è ispirata solo dalla nostalgia. Un restauro da storici dell’arte, non da architetti e nemmeno da urbanisti. Dice Wenders: “In un film a carattere storico è sconsolante vedere la città sgombra, con le antenne smontate, ogni cosa pulita. Non ho mai visto un film storico in cui una macchina sporca attraversasse la scena. E’ sempre tutto così incredibilmente lustro: nel set di una strada di New York a cavallo del secolo, anche il sudiciume risulta pulito. L’idea di storia su cui tutto ciò si basa è completamente falsata. Provo la stessa impressione quando in una città si cerca di riesumare il passato con lo stesso gusto: mi sembra di assistere a un film storico: eppure basterebbe considerare che, anche quando era presente, quel passato non era così agghindato, così tirato a lucido. In questo modo, invece di creare un legame col passato, si trasforma il passato in un cliché. E accaduto anche a Berlino, sia a est che a ovest, nell’ambito del giubileo cittadino. In quell’occasione hanno pulito e imbellettato molti luoghi e, a un tratto, quegli stessi luoghi non avevano più storia, ma solo il cliché della storia. Il restauro perciò è un esercizio di equilibrio, come camminare sulla fune, alla minima esagerazione è il disastro: basta eccedere nella pulizia, rendere troppo bella una facciata, e ci si ritrova con una città alla Disneyland”.
Anche se vogliamo essere prudenti e vogliamo negare che oggi ci sia bisogno di inventare uno spazio contemporaneo, uno stile, un linguaggio nuovi, dobbiamo almeno riconoscere che c’è però bisogno di trasformare, di inventare la trasformazione. Si parla molto di identità, come parola-guida del progetto. Ma l’identità non si basa solo con la memoria, l’identità è anche e soprattutto costituzione di un soggetto, singolarità, riconoscibilità. Ovvero: non c’è solo l’identità composta di ricordo, nostalgia, rievocazione, ma anche l’identità come ricerca di una individualità. Questo porta a dire che l’obiettivo del progetto urbano non deve essere rifare la città storica, ma se mai agire con tecniche urbanistiche analoghe, coerenti, paragonabili. Non credo si possa ancora agitare oggi la stessa vecchia questione: il moderno rende tutto uguale, atopico. E’ una idea che si ritrova in un film di Jacques Tati, Playtime, ma era il 1967, e l’idea allora era nuova e graffiante! Oggi mi pare un po’ stantia. Uno dei maitres à penser della cultura bolognese ancor oggi, è Eugenio Riccomini, un ex soprintendente e storico dell’arte, che nei convegni dice: “Guardate fuori dalla finestra. La periferia è uguale a se stessa, qui come a Mannheim”. Ma perché, le città murate medievali non si assomigliano, e Pietrogrado non ricorda Berlino? Ancora, Riccomini dice: “Tutti vanno al Guggenheim di Bilbao solo perché c’è andato l’amico”. Ma perché, non è lo stesso per l’Ermitage? Chi capisce Gehry? E chi capisce davvero Rubens? E’ solo vero che Rubens piace più di Gehry, ma il motivo che spinge le masse di qua o di là è identico. Esiste un’industria turistica, ecco il motivo.
Veniamo a Bologna.
Ci sono molti modi di descriverla, come ci sono per qualunque altra città. Proviamo a farlo ad esempio con i numeri. Anche con i numeri ci sono mille modi, uno è dare le percentuali del territorio comunale per destinazioni d’uso: il 28% è occupato da infrastrutture e zone di interesse generale, il 20% è composto di zone agricole, il 18% sono zone a tutela paesaggistica, il 16% è residenza, l’ 8% attrezzature e servizi di quartiere, il 4% sono aree produttive… Indubbiamente, non è un gran modo per capire la città. Proviamo con i numeri della demografia. Nei quartieri del centro storico vivono nel 2003 quasi 53.000 persone, nelle zone periferiche oltre 320.000. E’ un dato di qualche interesse: un abitante vive in centro per sei che stanno in periferia. I quartieri più popolosi sono periferici: Bolognina 32.143, Mazzini 37.830, San Vitale 32.049. I più densi quelli centrali: Marconi oltre 13.000 abitanti per chilometro quadrato, il centro storico nel complesso circa 11.000, nel quartiere Colli invece vivono 342 abitanti ogni kmq. Sono abitanti fortunati, più fortunati di quelli del centro che a loro volta sono più fortunati di quelli delle periferie. Hanno più spazio, meno inquinamento, ambiente e paesaggio di qualità; magari corrono più rischi di subire furti o di avere un cattivo collegamento col centro quando nevica, ma mi pare che il bilancio resti positivo. La collina a Bologna è stata lasciata all’uso di pochi. Ci sono alcuni parchi pubblici, è vero; peraltro, anche se non ho dati (non credo esistano, dopo tutto), penso siano poco frequentati, perché fuori mano. Ma insomma, la collina è patrimonio di pochi fin dalle scelte urbanistiche dell’amministrazione comunale negli anni Sessanta.
C’è stata a Bologna, dalla fine degli anni Sessanta, una tendenza riduzionista delle politiche urbane: nello schema del Piano Intercomunale del 1967 gli abitanti insediabili nel territorio bolognese sono 700.000, contro le previsioni di un milione di abitanti del PRG del 1958; la contrazione della crescita demografica si coniuga con la conservazione ambientale del centro storico e della collina, “due valori urbani fortunosamente integri” di 450 ha e 4000 ha (Parametro, n. 1, maggio-giugno 1970). C’è addirittura una città interrotta, verso la collina, ci sono i margini di una ricca espansione residenziale che d’improvviso è stata bloccata. Sono margini riconoscibili ben più di quelli che si slabbrano verso la pianura.
Nel 1969, anno di adozione del piano di tutela del centro storico, il centro di Bologna, depauperato di circa il 50% di abitanti rispetto agli anni dell’ultima guerra, vedeva all’interno delle mura tutto il direzionale, i servizi (dalla scuola dell’obbligo all’Università), ospedali, caserme, carceri, macelli, commercio minuto, i primi supermercati, artigianato produttivo, depositi, fiere, cinematografi, musei, gallerie, ristoranti, alberghi, ecc. A queste condizioni era impensabile attuare una politica della tutela e della conservazione che desse al centro storico un suo ruolo specifico ed equilibrato rispetto alla periferia monofunzionale, in continua espansione per effetto del piano del 1955, che prevedeva una Bologna da un milione di abitanti ed un centro storico trasformato in centro direzionale. Decentrare le funzioni incompatibili con il centro storico, rifondare e valorizzare le periferie attraverso sia una politica urbanistica riformista che attraverso la istituzione di 14 quartieri, definire un ruolo di eccellenza del centro storico, è stato l’obiettivo del piano del 1970, riportando la previsione della popolazione da un milione a 500.000, con il principio che sarà poi definito a sviluppo zero.
Questa stagione dell’amministrazione della città oggi assume caratteri quasi mitici, perché riesce a coniugare sia la conservazione dell’ esistente che un progetto di città nuova: a partire dal maggio del 1968 comincia la collaborazione di Kenzo Tange, incaricato del progetto urbanistico di una struttura direzionale per la zona nord della città. Il progetto, denominato Bologna 1981, non è una semplice previsione di standard, un’area con un indice che produce espansione generica e forse sprawl; è un vero progetto urbano destinato - per la parte che sarà realizzata - a produrre architettura e parti di città riconoscibili.
Il 16 settembre 1968 si inaugura la prima zona pedonale in via D’Azeglio e - udite, udite! - il modello fisico-spaziale che la ispira è un’ opera contemporanea, del 1953, il complesso di abitazioni e negozi Lijnbaan, opera di Van den Broeck e Bakema nel centro di Rotterdam. In altre parole: i riferimenti operativi per una scelta progettuale che qualifica il centro storico sono eteroreferenziali, non tratti dalla cultura della conservazione, come a mio avviso succederà sempre più spesso nel futuro.
Il 21 giugno del 1969 il Consiglio Comunale approva la variante al PRG per il centro storico, l’8 agosto del 1969 Paolo Monti inizia il suo rilevamento fotografico con le strade svuotate dalle auto (vedi “Bologna Centro Storico, catalogo della mostra del 1970 a Palazzo D’Accursio). L’uso della fotografia per documentare le scelte urbanistiche e territoriali discende dalle esperienze condotte in quegli stessi anni con le campagne di rilevamento promosse dalla Provincia di Bologna e dalla Soprintendenza alle Gallerie di Andrea Emiliani. Ma è molto diverso l’uso ideologico della fotografia che fa Paolo Monti dall’uso ideologico della fotografia che fa oggi, ad esempio, la rivista del TCI, ripetendo allo sfinimento modelli superati: mostrare come esistente e auspicabile il paesaggio “falso” di ieri, “falso” in quanto inesistente se non a costo di una selezione maniacale del punto di vista che esclude le forme e le presenze sgradite alla composizione estetica del quadro, è un progetto utopico che risponde a una volontà di marketing menzognero e antistorico che vende un prodotto non originale, una copia contraffatta.
Con il passare degli anni si radicalizza il ripiegamento su se stessa della città: con il piano dell’ 85 c’è l’invenzione delle zone integrate di settore, le aree della media periferia in parte già urbanizzate e in varia misura intercluse nel sistema urbano, da attuarsi attraverso i disegni urbani concertati. Nel ‘96, ad undici anni dall’adozione del piano, (Dossier Urbanistica Informazioni n. 151, gennaio-febbraio 1997) solo il 22% dei DUC è realizzato, al ritmo di meno del 2% all’anno, ovvero una attuazione delle previsioni espansive che potrebbe durare mezzo secolo. Intanto, la popolazione della città, nel decennio 1981-1991 è calata del 12%, da 459.000 a 404.000 abitanti, e ora (2004) è di 375.000.
Parallelamente c’è stato il formarsi dell’ideologia dominante della conservazione: del centro storico, in primo luogo, ma anche sotto forma di blocco all’espansione verso la collina, e in generale come valorizzazione e tutela del verde, del paesaggio, ecc. Bologna è stata celebrata - come noto - per il PEEP in centro storico, per il piano dell’edilizia universitaria che ha consentito il riutilizzo di molti elementi della cosiddetta “edilizia specialistica”, per il sostanziale mantenimento del tessuto sociale del centro. Questo alla lunga ha mostrato la corda, il centro si è museificato, terziarizzato, “banchizzato”, i negozi sono diventati solo boutiques, gli alimentari e il piccolo artigianato sono stati espulsi, ecc.
L’impressione è che le due politiche (riduzione e conservazione) in sé e separatamente avessero allora una prevalenza di caratteri positivi, ma che abbia giocato in modo negativo la loro combinazione, il loro intreccio, soprattutto nel periodo medio-lungo. L’esasperazione delle politiche conservative in una sorta di destino e la degenerazione del piccolo è bello in una nuova versione della “medietà” tipicamente bolognese (un in medio stat virtus fatto di buon senso, di una buona dose di prudenza, anche di chiusura localistico-provinciale) hanno prodotto, mescolandosi, una serie di blocchi operativi - ingigantiti probabilmente anche dalla flessione degli investimenti pubblici nell’ ultimo decennio e dai limiti della classe politico-amministrativa: blocchi che sono particolarmente percepibili nell’obsoleto sistema della accessibilità al centro, nella bassa qualità ambientale conseguente alla mancanza di valide alternative al traffico privato automobilistico e nella non soluzione della questione metropolitana: ovvero nel rapporto tuttora inesistente tra il capoluogo e i comuni della cintura, lasciato irrisolto dopo una esperienza promettente e fondamentale come quella del piano intercomunale, anche questo in declino dalla metà degli anni Settanta.
Del resto tutti sanno che Bologna è una città vecchia, una città dove aumenta progressivamente l’indice di dipendenza. Il glossario del Settore Programmazione, controlli e statistica del Comune lo definisce come il rapporto tra la popolazione inattiva - bambini e anziani - e la popolazione in età lavorativa [(0-14)+(65 e oltre) * 100 / (15-64)]. Una città dove questo indice aumenta è per definizione una città non indipendente, non libera. Condizionata da fattori demografici troppo pesanti. Da quali politiche sono dipesi, attuate o fallite che siano? Quanto ha influito la politica del piccolo è bello integrata con quella della conservazione? Quanto si deve a questo understatement il manifestarsi di alcune condizioni opache della bolognesità odierna: il calo demografico e l’invecchiamento della popolazione, l’immagine antica e per molti versi obsoleta, l’evidente inadeguatezza tecnologica dei trasporti, dell’accessibilità al centro, ecc? Prendo un concetto tratto dal libro di Zygmunt Bauman, Modernità liquida: “…ci si sente liberi nella misura in cui l’immaginazione non supera i desideri reali e nessuno dei due oltrepassa la capacità di agire.
Tale equilibrio può dunque essere raggiunto e preservato in due modi diversi: ridimensionando i desideri e/o l’immaginazione, oppure ampliando la propria capacità di agire”. Sembra che a metà anni Sessanta Bologna abbia scelto di ridimensionare desideri e immaginazione. Per lo meno non ha certo agito, se agire significa scegliere di aprirsi al nuovo (arte, idee, architettura, culture altre…). Una tendenza che non sembra conoscere mutazioni con il cambio di amministrazioni, nemmeno con i ribaltoni politici, né col passare dei decenni.
La stessa tendenza a frenare, a ridurre, a contrarre, c’è stata anche a livello di pianificazione regionale. In Regione ha significato realizzare il policentrismo emiliano, una serie di città medio-piccole allineate sulla strada-città della via Emilia. Dunque, capoluogo e regione sono stati uniti nel contrastare la formazione di un’area metropolitana. Che invece si è ugualmente formata per quel che attiene le spinte derivanti dai fenomeni sovralocali: conurbazione industriale sulla via Emilia, espansione residenziale in periferie qualitativamente scarse e monofunzionali, collasso della stazione e del sistema tangenziale, invasione di super e ipermercati, fine del rapporto città-campagna, espulsione dal centro storico di attività artigianali, di mercati rionali, ecc. Così come Bologna si è contenuta, per effetto degli impulsi della Regione si sono sviluppate in modo analogo tutte le piccole città, nessuna area ha trovato emersione metropolitana se non la costa turistica e il distretto ceramico di Sassuolo.
In sé questa ideologia dominante ha ovviamente avuto anche molti effetti positivi: la qualità dei servizi pubblici, in primo luogo; la non necessità di investire in grandi opere, anche perché la città ha vissuto a lungo di rendita sugli sforzi degli anni sessanta e settanta: tangenziale, asse attrezzato, fiera. E ancora: la buona tenuta sociale, ovvero il controllo dei conflitti che solitamente accompagnano il forte sviluppo demografico; l’equilibrio della ricchezza e dei redditi. Ma si è pagato un prezzo molto forte rimandando di continuo decisioni importanti sull’accessibilità al centro (in particolare, la lungamente attesa dotazione di parcheggi interrati), sui trasporti pubblici, sul ridisegno delle centralità urbane; i progetti che si sono succeduti (e i concorsi, sempre disattesi: della stazione ferroviaria, dell’ex manifattura Tabacchi) hanno pagato una sorta di pedaggio che li costringeva alla invisibilità: meglio niente che il rischio di sbagliare, meglio niente che il rischio di smentire queste politiche che sembrano assunte per l’eternità: il piccolo e l’antico. E il locale.
Lo sguardo all’altrove si è spento con gli anni Settanta. Negli anni ‘70 la cultura bolognese guardava alle esperienze straniere in urbanistica: il distretto fieristico, i quartieri popolari immersi nel verde come nei paesi nordici, i modelli scandinavi perseguiti dal migliore professionismo locale, la dotazione infrastrutturale di livello europeo (tangenziale e assi attrezzati di penetrazione urbana). La stessa cosa nell’arte: la nuova galleria d’arte moderna di Leone Pancaldi, i totem di Pomodoro in piazza Verdi, l’unica esperienza di arte contemporanea in centro; esperienza anche questa mai più rinnovata, sulla scorta della interdizione al moderno nel centro antico, oggi sostituito dalla statuaria monumentale religiosa e civile di forme classiche.
[Piero Orlandi]
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