Giovanni Bartolozzi_Si piega ma non si spazia
Le webzines e le riviste di architettura hanno dedicato scarsa attenzione alla mostra dell’architetto romano Alessandro Anselmi allestita al MAXXI di Roma, limitandosi a segnalare l’evento, ma senza azzardare delle riflessioni. Perché occorre riflettere su questa mostra? Si potrebbe rispondere in diversi modi, oppure in una sola parola: per la problematicità di Anselmi.
Non ci interessa un’analisi sistematica sull’attività di Anselmi, cerchiamo invece di individuare i punti di flesso di un cammino formativo iniziato da studente con il G.R.A.U., proseguito negli anni ‘70 “quasi” in parallelo alla marcia in dietro postmoderna e approdato, dopo diverse esperienze estere, negli anni novanta con proposte aggressive e certamente singolari nel panorama italico. La prima sterzata significativa è segnata dall’orrenda Biennale veneziana dell’80 che sancisce la fine del G.R.A.U., segue un periodo d’incarichi in Francia che innescano un importante rinnovamento del linguaggio, certamente accelerato dalla sensibilità architettonica francese, fino al recente Municipio di Fiumicimo.
La mostra testimonia, infatti, un cammino evolutivo segnato da sterzate, ripensamenti e cambi di direzione. In quarant’anni di attività professionale, Anselmi ha strutturato un linguaggio individuale, ma l’aspetto significativo riguarda il rigenerarsi del linguaggio, affiancato da operazioni progettuali di supporto. Non si tratta di stilemi linguistici riproposti o declinati in vario modo, ma di una sorta di azzeramento del linguaggio divenuto adesso operazione, atto progettuale, che Anselmi controlla alle varie scale, dall’edificio all’allestimento della stessa mostra, dove mostruose istallazioni direzionano il flusso senza imporre un percorso. Si tratta in sostanza di un sapiente lavoro di piegatura delle superfici, com’è evidente dal titolo della mostra: “piano, superficie, progetto” e perfino dall’originale volantino.
Proviamo adesso a scavare a fondo in quest’ultima direzione. E soffermiamoci per esempio sul Municipio di Fiumicino che sembra il principale protagonista della mostra. Occorrono però due importanti premesse. La prima: si tratta di un edificio progettato circa dieci anni fa, tra il 94-95, che a causa degli inceppi burocratici italiani è stato ultimato lo scorso anno. Ciò a dimostrare che Anselmi batte questa strada da più di dieci anni. La seconda: è fondamentale, e per certi versi insolito, che un architetto attivo da decenni, riesca a direzionare la sua attività di ricerca attraverso tagli netti o graduali. Altrimenti avremmo gli Adolf Natalini, i Giorgio Grassi o i Mario Botta che seguitano a seminare da ogni parte del mondo, e ormai da decenni, i soliti scatoloni con la teoria unica del finestrellismo esasperato (ed esasperante).
Ma torniamo a Fiumicino. Qual è il vero significato, il vero tormento nascosto dietro questo edificio e più in generale dietro gli ultimi progetti di Anselmi? Non ci sono dubbi, si tratta dell’inserimento di un edificio all’interno di un contesto urbano consolidato, stratificato e spesso anche degradato. Lo sforzo di Anselmi è certamente teso in questa direzione. Non si tratta più di volumi che tentano un pacato e mimetico inserimento attraverso una logica storicista di continuum volumetrico, ma di superfici a forte tensione plastica che tentano una fusione con il contesto, con il suolo. Ma fino a diventare suolo esse stesse. “Le mie architetture” dice Anselmi, “sono sempre dei muri che si arrotolano, si contorcono, si intersecano, le superfici possono essere curve, sghembe, complesse, piano e superfici sono gli elementi dominanti, poi ci sono anche dei volumi, ma come parti secondarie, sottostanti, contenute, in secondo piano dal punto di vista espressivo”.
A ben guardare, il progetto dell”86 per il Municipio di Rezè-les-Nantes in Francia, tentava già un inserimento urbano filtrato dalla superficie verticale incurvata, nel tentativo di stabilire una morbida tensione formale con la retrostante Unitè d’abitation di Le Corbusier. Anselmi continua a lavorare con le superfici ma adesso le ribalta in orizzontale, le fende, le piega, le raccorda.
Da una parte l’impronta “romana” che rimanda a Quaroni, Ridolfi, Moretti e che trova riscontro anche nel lavoro di Purini e Cellini. Come la forma piena, pesante, definita, netta, plastica, rappresentata con schizzi e disegni dal timbro corposo, materico, intenso. Dall’altra un procedimento progettuale leggero, tellurico, avvolgente. Sono questi due ingredienti degli ultimi progetti di Anselmi, due ingredienti che ancora non trovano una sintesi, tanto da poter esser virtualmente separati. Immaginate per un istante di sollevare la superficie piegata di Fiumicino: resterebbero i due volumi perimetrali. Si tratta dunque di una procedura apparentemente stratificata, dove il livello finale - la superficie piegata, cioè l’ultimo strato - gioca il ruolo principale o, per dirla con Anselmi, di maschera: avvolge, involucra, raccorda, slancia. E tutto finalizzato a creare una nuova immagine urbana tesa a svuotare l’invaso, per lasciare spazio alla grande piazza inclinata.
Il progetto è quindi generato da un’idea di città, e certamente trova riscontro in quel canale internazionale che ricerca un’architettura generata dall’elaborazione di un’idea di paesaggio, infatti, come osserva Antonino Saggio, la piegatura di Anselmi “fa pensare al famoso atto eisenmanniano del folding”.
Ma a Fiumicino lo spazio interno subisce passivamente la piegatura della superficie esterna, restandone quasi immune, tranne che nelle facciate. Se da una parte il Municipio recupera una seducente immagine urbana attraverso uno spalto che stabilisce un continuum tra piazza, facciata e copertura, dall’altra rinuncia all’integrazione tra spazio urbano e spazio interno, poiché la superficie piegata crea una frattura netta tra dentro e fuori. “Piano e superfici” spiega Anselmi, “potrebbero introdurre una ulteriore categoria, cioè la maschera. E’ come se l’edificio assumesse una maschera che permette all’architettura di non presentare quello che c’è dentro”. Ma stratificare le funzioni (edificio-piazza inclinata-copertura), non implica necessariamente l’occultarne delle parti e dei contenuti. Tutt’altro. La stratificazione è convincente nella misura in cui tutte le parti interagiscono su più livelli nel creare il risultato finale.
Un piccolo modello di studio esposto alla mostra, un semplice foglio di cartoncino piegato, conferma la matrice urbana di questo progetto, cui tuttavia non fa riscontro un’idea spaziale altrettanto convincente e originale. L’atto del piegare sembra quindi ridotto ad azione aprioristica, che si esime dall’esprimere dei contenuti spaziali interni tanto da precludere un’integrazione aggressiva e pregnante della superficie piegata con l’interno. Come se non ci fosse stato alcun passaggio intermedio tra l’idea rappresentata nel modello di studio e la realizzazione, cosicché la superficie piegata appare ibernata, congelata, quasi piovuta cielo. Ne è ulteriore prova il trattamento della grande piazza inclinata che si presenta come un ampio vassoio urbano totalmente svuotato. Né soste, né sedute, né spazi verdi o coperti, né piccole funzioni sociali. Insomma, nessun elemento lascia immaginare una piazza attiva, pensata come elemento di aggregazione sociale. E perfino le scale, che avrebbero potuto funzionare come sedute distribuite lungo tutta la superficie della piazza, sono ridotte al solo lato destro per assecondare la rotazione dei due piani.
Ecco allora perché occorre riflettere sul Municipio di Fiumicino e sugli ultimi lavori di Anselmi, alcuni dei quali, come il progetto per la stazione di San Pietro a Roma, mostrano già un’evoluzione del rapporto superficie-contenuto. Certamente Fiumicino segna un traguardo nell’attività di Anselmi e perfino nel quadro dell’architettura italiana. Si è parlato a lungo degli edifici progettati da architetti stranieri in Italia, abbandonandosi alle facili polemiche, forse poco costruttive, come quelle sulla chiesa di Meier a Roma o sull’auditorium di Niemeyer a Ravello. Ma si è dedicata scarsa attenzione ad un evento tutto italiano, che incarna la formazione tortuosa di un architetto romano e che, attraverso le poche opere realizzate, porta i segni e il peso della burocrazia italiana.
Gli ultimi lavori di Anselmi aprono le porte ad un nuovo modo di contestualizzare gli edifici. Ad una nuova sensibilità urbana tesa a svuotare gli invasi, a modellare le superfici, a connettere e raccordare i piani. Ma al contempo generano dei vuoti che sono soltanto la conseguenza di una scena urbana ideale e che, contrariamente a quanto sostiene Anselmi, andrebbero integrati, innervati e plasmati con lo spazio interno.
In conclusione chiediamo ad Anselmi un altro sforzo. Riconosciamo in queste ultime opere un passo decisivo e importante nell’architettura italiana contemporanea, ma ne lamentiamo anche dei nodi irrisolti, delle problematiche aperte. Per questo ci aspettiamo da Alessandro Anselmi un altro dei suoi scatti.
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