Matteo Agnoletto_Ground Zero.exe: costruire il vuoto
In anteprima pubblichiamo un estratto di Ground zero.exe, appena uscito per la collana Percorsi (edizioni Kappa) curata da Michele Costanzo, scritto da Matteo Agnoletto una delle personalità più convincenti del dibattito architettonico critico nazionale (under 40), forse l’unica, per la semplice ragione che studia e approfondisce le tematiche affrontate.
Ground zero, progetto scaturito dal mercato più che dalla tragedia umana, evidenzia ancora una volta quanto l’architettura contemporanea sia in difficoltà soprattutto nei confronti dell’etica.
Il progetto politico prevede di COSTRUIRE, non prevede il vuoto lasciato dalla “pianificazione” attuata dai terroristi, un evento che avrebbe dovuto modificare la coscienza collettiva americana, provocando una seria autocritica sul modo di governare il mondo.Questa preview anticipa il prossimo numero di Archphoto che verrà dedicato al Nordamerica.
[Emanuele Piccardo]
01 - New York, 11 settembre 2001, h. 08.46
“Il pilota verificò, una dopo l’altra, alcune cifre e fu contento di scoprirsi solidamente seduto in cielo”.
Antoine de Saint-Exupèry, Volo di notte
Alle 08.46 (ora locale) dell’11 settembre 2001, il Boeing 767, volo 11 dell’America Airlines, decollato da Boston con rotta Los Angeles, si schianta a 756 Km/h contro la Torre Nord del WTC a New York, infilzandosi tra il 94° e il 98° piano.
Il dirottamento è guidato da fanatici suicidi fondamentalisti. 81 passeggeri, 2 piloti e 9 addetti all’equipaggio, cadono vittime innocenti del più tragico atto di guerra contro la Nazione americana . Quel giorno segna il terribile ripiegamento dell’esasperazione della tecnica e dei suoi progressi su se stessa e contro l’umanità.
Tramutandosi da servizio pubblico in bomba, l’aereo capovolge il suo significato di simbolo dell’evoluzione tecnoscientifica, di strumento inventato per raggiungere e oltrepassare il cielo . Non solo: i kamikaze trascendendo il sogno dell’uomo-macchina delle avanguardie europee e, facendosi essi stessi ordigno mortale, irrompono nella sfera dell’estetica. L’arte e, in particolare l’arte d’avanguardia, è così definitivamente estremizzata e il suo compimento è portato a termine : la profezia di Le Corbusier sull’annientamento della città si tramuta in realtà. Progettare una difesa per i grattacieli contro gli attacchi aerei diventa parte della composizione architettonica a soli 66 anni di distanza dagli inquietanti disegni della tavola n. 17 della Ville Radieuse. Lanciati indisturbati nella corsa verso il cielo, i grattacieli trovano nell’aeroplano un potenziale nemico.
Nel preciso istante della collisione il mutamento innescato nel rapporto automatico tra progettazione e forma è relativo alla sicurezza degli edifici . Costruire un’opera che garantisca la sopravvivenza dei suoi abitanti viene esplicitata, ora, come necessità indispensabile ed esclusiva, condizionando le scelte di progetto, contaminando l’involucro architettonico e sommandosi alle intangibili priorità dettate dall’industria e dalle holding di potere. Di fronte a tale rimescolamento dei significati canonici della natura del grattacielo -comprensivo dell’unicità del caso deputato a farsi custode del ricordo- i precedenti modelli risultano improvvisamente inadeguati.
La perdita delle Twin Towers si estrinseca in un primo radicale cambiamento: collocandosi in un frangente storico, icona della mondializzazione, la cui certezza più limpida è stupire, creando destabilizzanti morfemi figurativi, alle 8.46 dell’11 settembre 2001 viene, inconsciamente, concepita una generazione di grattacieli, i “grattacieli globali”, la cui prima apparizione sul palcoscenico della città coincide con le proposte di ricostruzione del nuovo WTC.
03 - La tirannia del grattacielo
“Le formiche costruiscono un grattacielo, un grattacielo con due braccia tese verso gli dei”.
Philippe Petit, Toccare le nuvole
In un saggio del 1975, Manfredo Tafuri pone l’accento sull’anomalia delle Torri gemelle, la cui paradossale contraddizione consiste nella volontà di sottrarsi al caos metropolitano, di farsi struttura dotata di un massimo carico di comunicatività, completamente introversa, nonostante sia radicata nel cuore della downtown e costretta a continui confronti con la città. L’esasperazione dimensionale di questo “événement interrompu”, secondo la definizione tafuriana, si perpetua nello sdoppiamento vertiginoso dei 110 piani e 415 metri di altezza , dei colossi di acciaio e vetro progettati da Minoru Yamasaki.
Innalzate tra il 1966 e il 1973, per un quarto di secolo hanno dominato, senza rivali, il cielo della città come “eccezione metropolitana”.
Demolendo 13 edifici, per far posto ai flat-topped, il profilo di Manhattan subisce una mutazione improvvisa e inaspettata. In realtà, i ‘giganti’ di New York , sfasati di 42 metri, uno rispetto all’altro, rappresentavano il vertice di un sistema urbano esteso su una superficie di mq. 64.000.
Nella loro inaudita dimensione, la coppia dei ‘tubi’ d’argento è la definitiva consacrazione della tipologia del supergrattacielo: un concentrato di forze economiche e finanziarie senza precedenti.
Ogni torre si incastonava nella roccia di Manhattan, scendendo in profondità per m. 30.
Lo scavo di fondazione, circondato da un muro perimetrale di calcestruzzo armato, si è rivelato dopo l’impatto in tutta la sua ruvidezza come unico segno superstite. Gabbie metalliche realizzate intorno a un core centrale in acciaio (formato da 4 pilastri a cassone a sezione rettangolare) le Twin erano a pianta quadrata, della larghezza di m. 63,7 . Le pareti esterne portanti, stabilizzate da 59 pilastri cavi irrigiditi da traversi orizzontali, erano elegantemente smussate agli angoli e rivestite in alluminio con, predisposta, la guida in acciaio inossidabile per il meccanismo automatizzato della pulizia dei vetri. Ogni elemento prefabbricato della struttura dei pilastri esterni era alto tre piani ed era fissato per incastro ad un suo complementare. Le 43.600 finestre, arretrate rispetto allo schermo di facciata, creavano un sottile effetto di pixelizzazione ante litteram. Il dimensionamento era calcolato per tollerare le sollecitazioni a venti di 225 Km/h. Gli open spaces delle piattaforme operative si sviluppavano per una lunghezza completamente libera di m.18,3, calcolata dal core centrale alla parete esterna.
Erano serviti da 3 vani scala e da 102 ascensori complessivi, di cui 50 al piano terra raggruppati in tre nuclei, a servizio di zone di circolazione diversificate e collegate ciascuna a uno sky lobby, capolinea intermedi al 44°, al 78° e al 107° piano. Gli ascensori (dalla portata di 55 persone) non avevano fermate intermedie, a differenza di quelli per il servizio locale che percorrevano un terzo dell’altezza dell’edificio. Molto economica la rifinitura interna: solai in getto di calcestruzzo su lamiera grecata e controsoffitto in cartongesso per celare l’impianto d’illuminazione.
Ma la principale speculazione del WTC era nell’assenza di aree per la residenza. La filosofia del “fabbricare spazio da affittare” raggiungeva l’apoteosi. L’investimento imprenditoriale assorbe ogni centimetro quadrato della superficie disponibile, massimizzandone il valore sul mercato: un’isola del tesoro nel cuore della metropoli, emblema di un sistema terziario onnivoro.
Il suo carattere imperioso decuplicava quanto John Wellborn Root aveva sempre inseguito nei primi grattacieli dell’era moderna: “monumenti nobili e durevoli alla benefica età del commercio”. Nel luogo dominato dalla regola della Griglia, l’opera di Yamasaki negava violentemente il riferimento dimensionale alla città, salvaguardandone, però, quello formale, dilatato a scala divina. La sua misura, valutata rispetto all’investimento capitalistico, stabiliva all’ennesima potenza l’impersonalità e l’oggettività dei supergrattacieli. La riduzione all’astrattezza del rivestimento -la cui unica concessione decorativa si svelava nell’unione all’ottavo piano di tre pilastri in un unico elemento discendente verso terra a disegnare una sorta di ‘neogotico’ arco veneziano, rafforzando il radicamento alla strada per inquadrare le lobby pubbliche delle hall rivestite in marmo- denotava l’assenza di una qualsiasi volontà soggettiva.
Prodezza fantascientifica a servizio di tutte le genti e le razze di New York, il WTC non poteva decadere in libere grafie autoreferenziali. La concessione alla tradizione della tipologia storica del grattacielo si esauriva, ancora una volta, nella tripartizione base/fusto/sommità: al basamento ‘neogotico’, faceva da contrappunto, in cima, una ‘greca’ formata dalla ramificazione delle nervature dei pannelli che componevano la schermatura esterna.
L’irruenza dell’anonimato veniva percepita in tutte le declinazioni progettuali dell’edificio.
Sdoppiandosi, le Twin Towers proclamavano la loro condizione di unicum, ponendo un limite tra la consuetudine e l’abnorme, tra il logico e l’illogico, tra la scala umana e la scala disumana.
Gli architetti chiamati a sostituire il WTC dovranno scegliere se stare al di qua o al di là di questa efficiente frontiera dell’assurdo.
©copyright archphoto-Matteo Agnoletto-Kappa edizioni