Alessandro Bianchi_Tradizione e contraddizione nell’architettura mediterranea
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L’architettura mediterranea - quella storica e quella attuale - ha come riferimento naturale il mare: l’acqua è il fondale prospettico di ogni idea di edificio e l’orizzonte ne costituisce il non-limite del medesimo quadro prospettico. Di per sé tali connotazioni sono detentrici di un sapore romantico leggibile attraverso due registri: il primo è legato alla nostalgia e il secondo è sensibile alla conservazione. Ce n’è poi un terzo che si lega al progetto tout-court, ma la faccenda si complica perché si esce dal retaggio ideologico (così caro alla cultura italiana contemporanea) generato dai primi due registri e comprensibile solo agli architetti e non ai cultori della materia.
Torniamo ai primi due registri. La nostalgia produce come risultato architettonico una stucchevole quanto drammatica pantomima dell’architettura, a tratti popolaresca e a tratti da “piccolo mondo antico”, insomma un pò radical scic; un unico stile fatto di forme echeggianti i modelli classici folkloristici da una parte, e quelli arabi-arabescati dall’altra, unendo in un sol colpo le aspettative del popolo e della nuova borghesia, se non addirittura della sedicente nobiltà. Se ne hanno numerosi esempi lungo tutte le coste italiane, dall’Adriatico allo Ionio al Tirreno, sino alle formidabili architetture (sic!) caramellate di Porto Cervo e Porto Rotondo in Sardegna.
Per il secondo registro, la conservazione, l’approccio edificatorio invera una dicotomia di produzione: da un lato la conservazione di un edificio esistente con qualche minima qualità storico-edilizia, dall’altro la connotazione di un nuovo edificio in forme mimetiche di quelle storicizzate. Chi la propugna è normalmente una persona colta - a volte un letterato - al quale però interessa poco o nulla la ricerca progettuale contemporanea, l’architettura di adesso… la disdegna, non la reputa all’altezza del passato al quale s’inchina. Chi conserva un edificio esistente senza un particolare valore architettonico (con riferimento ai beni vincolati con la legge 1089 del 1939) o chi trasferisce le forme di un antico edificio in uno nuovo è solitamente convinto - solitamente non significa sempre - che l’attualità produca solo “buffonate” o, traslando dalla lirica, “opere buffe”. Gli autori sono dei clown asserviti alla messa in scena, simpatici interpreti della “comedie humaine” che si priva del confronto col passato sul piano progettuale.
Chi ama il passato con intensità e con intelligenza dovrebbe però capire la necessità di creare un presente che sia storicizzabile, che sia riconoscibile ora e domani, e per fare ciò occorre credere nel nostro quotidiano, anche oltre i propri pregiudizi e le proprie paure.
Quando poi l’attualità produce realmente “buffonate” - a giudizio collettivo e non soltanto specialistico - occorre porre un freno; la contemporaneità è effettivamente divertita dalle “buffonate”, anche se la pop art e il postmodernismo le definiscono e le concepiscono in altri modi e Robert Venturi e Rob Krier ne hanno fatto una scuola. Bisogna anche dire, ad onor del vero, che le “buffonate” divertono perché la leggerezza di un divertissement distrae dalle ferree leggi del mercato democratico, dagli orari d’ufficio o dal rapporto con noiosissimi colleghi che parlano solo di vacanze in paradisi tropicali (o artificiali come dal genio di Q. Tarantino immaginati).
Facciamo altri esempi di architetture marine contemporanee e scegliamo la località turistica per eccellenza in Italia, Rimini. A Rimini hanno costruito due edifici emblematici M. Fuksas e P. Portoghesi: il primo l’edificio che sostituisce il fabbricato del famoso Caffè delle Rose e il secondo il centro commerciale Savoy. Entrambe le fabbriche hanno la stessa destinazione d’uso (commerciale, terziario, abitativo e ricettivo) ed ambedue si affacciano sul mare, su quel mare poco romantico che rappresenta la città romagnola, anche dopo il romantico tentativo felliniano dell’Amarcord (girato a Roma negli studi di Cinecittà… una Rimini un pò più fantastica di quella esistente). Ebbene la diversità dell’approccio e dei riferimenti stilistici fra i due architetti sembrano annullati dal contesto informale in cui si collocano e all’apparenza i due interventi sembrano due giocattoli studiati per stupire e, forse, per divertire. Nulla da eccepire per la città delle vacanze: ma come la mettiamo con i riminesi che amano la loro città e che odiano il becero turismo attratto anche dai balocchi sberluccicanti?
O ancora pensiamo all’epico Sud. Quando andiamo al Sud (italiano, europeo, esotico) pensiamo alle vacanze, e le vacanze le associamo alla tranquillità, la tranquillità al passato - forse ai ricordi - sicuramente pensiamo alla contrapposizione tra il nostro “pessimo quotidiano” e l’ancestrale ascesa ai ricordi di “tempi migliori”. Ma perché non riusciamo a far coincidere il quotidiano con il tempo migliore? Gli psicologi si divertono - e con metodo scientifico - a spiegarcene le ragioni (talvolta, anzi spesso, dalle pagine di qualche rotocalco in bella vista nelle sale d’attesa dei dentisti), e a dare loro man forte ci sono sociologi e antropologi. I filosofi, invece, sembrano battere la fiacca oltre che la ritirata: problematizzano, problematizzano sempre, senza il coraggio di una cura propositiva, senza il coraggio di una visione eroica.
Qui è un architetto che scrive, appassionato della sostanza delle cose, ed in chiave relativistica alla Vattimo, si potrebbe dire, della “propria” sostanza delle cose. Qual’è questa sostanza? Per un architetto la lacerante idea e insieme meravigliosa della potenza delle cose che, combinate, diventano architettura, architettura quotidiana e basta, senza aggettivi, senza riferimenti letterari. Se l’edilizia diventa architettura è veicolo di belle sensazioni visive (di colpire “l’arcipelago delle emozioni” come dice E. Borgna), la quotidianità del bel-vedere e del bel-sentire crea sollievo e allontana l’idea che la tranquillità e il benessere fisico e intellettuale si possa raggiungere solo in vacanza! Forse allora anche il mitico Sud, per gli Italiani e gli Europei, sarà un paesaggio contemporaneo, di vita quotidiana, che si confronterà sullo stesso piano con le città a vocazione lavorativa.
E’ una questione aperta quella della mediterraneità come identità; purtroppo spesso questa identità è utilizzata subdolamente come azzeramento della contemporaneità e del confronto con essa, nell’arroccamento su posizioni fuori dal nostro tempo.
Siamo quotidianamente esposti ad una sorta di incanto paesistico: ma questo vale solo per noi e per la nostra arretratezza. Così la Sicilia, e in generale il Sud Italia, ci appaiono appunto come luoghi “per” la vacanza, e non di vita reale. Forse l’Italia tutta è destinata a divenire il “vacation state” degli Stati Uniti d’Europa, così come il Maine lo è per gli Stati Uniti d’America. Siamo incantati e storditi, mentre chi ci comanda asseconda in buona fede - forse!?! - lo sfascio, dei costumi in primis. Che ruolo abbiamo, come architetti, in un Paese con tale vocazione? Non saprei, forse un ruolo importante come commerciali, forse ridicolo come progettisti.
Ripetiamolo: non è un periodo peggiore di altri, non c’è nessuna crisi dell’architettura né del pensiero architettonico (non si è mai scritto tanto come adesso, anch’io sono qui a scrivere perché non ho incarichi, forse sennò me ne starei zitto) c’è invece la perenne tensione ad uscire dal proprio personale mondo in crisi, la tensione a migliorarci, a scoprire perché le cose dell’architettura, per come sono messe, ci danno fastidio.
Altro tema che riguarda anche le città di mare. Ora sono banditi molti concorsi di architettura all’insegna della “riqualificazione” e fra questi anche diversi lungomari italiani: da quello di Savona a quello di Salerno per risalire fino a Trieste, la penisola italica sembra essere toccata da un vento di novità, e cioè dalla scoperta che non si può soltanto parlare di degrado ma che bisogna agire. Peccato che quella denominazione, “riqualificazione”, porti con sé quello stantio odore di romanticismo che è proprio della nostra cultura di questi ultimi decenni. Vale a dire che viviamo nella convinzione che l’Italia sia stata per intero - nulla escluso - un paradiso naturale e ovunque ben antropizzato, dimenticando che la ricostruzione del dopoguerra ha accumulato numerosissimi insediamenti disordinati e poco qualificanti. Sarebbe più opportuno quindi parlare di concorsi di “qualificazione” piuttosto che di “riqualificazione”, rivendicando con un po’ di dignità contemporanea il ruolo di protagonisti nella definizione degli assetti territoriali e urbani. Ma del resto tutto il nostro parlare è affetto dai “c’era una volta…”, forse perché va di moda non prendersi sul serio.
Probabilmente la più bella architettura osservata quest’estate è quella di un allestimento, in cui il mare non è asservito a lavagna sulla quale segnare i capricci di un architetto, piuttosto il mare diventa la quinta sonora di un panorama folgorante. Da villa Rufolo a Ravello (sulla Costiera di Amalfi) si osserva l’infinito, il vero non-limite, eppure l’architettura che allestisce questo belvedere artificiale (costituita di tubi Innocenti arrampicati a fatica sulla collina, per metà naturale e per metà costruita) non è il prodotto di un languido e salottiero approccio svenevole di fronte alle meraviglie della natura. Un palco, quello di Ravello, pensato con l’involontarietà di chi ha la vista abbacinata dalla bellezza del paesaggio e che solo a questa presta attenzione ma con raziocinio. Nessuna cura nel dettaglio, estrema cura della visibilità: solo l’intenso odore delle sedie in plastica della platea, cotte dal sole mediterraneo, richiama l’attenzione del visitatore sull’allestimento artificiale tutto proiettato - e pensato - a definire il rapporto fra ascoltatore-orchestra-mare: un rapporto musicale.
Insomma, lasciandoci alle spalle le esperienze degli eco-mostri di Fuente e Punta Perotti, cerchiamo di non farci convincere che la soluzione sia affilare la matita del conservatore e spuntare quella del progettista: diamo al conservatore ciò che è del conservatore, e al progettista quel che è del progettista, senza pregiudizi. In questo senso cerchiamo di non svenire davanti a quel mare nostrum così bello, almeno come architetti, almeno quando progettiamo, per evitare la sindrome del “Io ballo da sola” di Bernardo Bertolucci, dove la magnifica natura toscana vince sul genio del magnifico regista, dove la svenevolezza squaderna i limiti della razionalità.
(Costiera di Amalfi: disegni di Alessandro Bianchi, fotografie di Nico Colucci, scultura in maiolica di Sergio Scognamiglio)
©copyright archphoto-Alessandro Bianchi