Mattia Darò_La citta ideale
Riflettere sull’importante e impegnativo titolo (La ciudad ideal) della 2° Biennale di Valencia, inaugurata l’8 Giugno e che terminerà il 30 Settembre 2003, provoca allo stesso tempo una paura d’impotenza e un sano ingenuo ottimismo.
La città ideale non si sa mai cosa può divenire nelle mani di artisti e/o architetti. Potrebbe essere la visione paradisiaca di un mondo perfetto, sublime perché non raggiungibile, oppure la profezia di una prossima catastrofe distruttiva. Nel mondo contemporaneo, dove la città urbanizzata è divenuta il territorio che detiene le maggiori complessità di decifrazione, dove nessun rilievo riesce a essere veritiero per molto tempo, dove hanno fallito, perché troppo costrittivi, tutti i più importanti tentativi di progettazione urbana nel tempo, ha ancora senso progettare città ideali?
La Biennale, diretta da Luigi Settembrini, sembra dare una risposta positiva, in un modo nuovo e inconsueto. Valencia, città catalana di mare, a circa 300 km da Barçelona, è una città dalla doppia faccia: possiede un centro storico con tessuto medievale bello ma da recuperare, dove l’antichità è fatta di horchaterias, cervezerias, plazitas, bares, il bellissimo mercato central e allo stesso tempo di vuoti urbani, palazzi decadenti, prostituzione e immigrazione. L’altra faccia è quella che potremmo chiamare di Calatrava, vista la presenza di uno dei suoi più bei ponti e soprattutto della nuova e stupefacente Città della Scienza, ma anche del Jardin del Turia, la conversione di uno dei due tratti di fiume che attraversano la città in parco urbano lineare che ospita giardini e attrezzature sportive in sequenza.
In questo contesto non appare per niente fuori-luogo l’ambizioso progetto di ciudad ideal, che in tutte le manifestazioni ospitate non abbandona mai il carattere di concretezza, che le proposte di tutti i partecipanti, anche se tutti artisti, in un modo o nell’altro, hanno.
Tutte le iniziative della Biennale, dalle mostre alle installazioni, dai film alle rappresentazioni teatrali, danno l’idea di assolvere un duplice compito, quello di rispondere alla funzione primaria di una Biennale di comunicare (senza che questo diventi una dittatura come in altri contesti) e di raccogliere una riflessione tematica interessante.
E così, se nella mostra Sociopolis, curata da Vincente Guallart, un gruppo di affermati architetti (star e quasi star tra cui: Toyo Ito, MVRDV, Abalos&Herreros, Greg Lynn, FOA, François Roche, Manuel Gausa) si cimentano nel progetto di un campus sociale (case, servizi per gruppi sociali bisognosi) in un’area della periferia di Valencia, nella mostra microUTOPIAS, a cura di Francisco Jarauta e Jean Louis Maubant, sempre altri architetti assieme ad artisti che lavorano sull’urbano (da mostri sacri come Rem Koolhaas a Frank Gehry, che mostrano però solamente i video dei loro ultimi progetti, a gruppi come Asymptote, Coop Himmelb(l)au, Decoi, Jacob&MacFarlane, Prada Pool a solisti vecchi e nuovi come Peter Cook, Shigeru Ban, Constant, Didier Faustino, Yona Friedman, Kas Ososterhuis e gli artisti Vito Acconci, Daniel Buren, il sensazionale Joop van Lieshout, Gordon Matta-Clark) ci propongono come potrebbe cambiare il rapporto con la città e il territorio se cambiasse solamente il modo di ognuno di viverli e utilizzarli (appunto le microutopie).
Incredibilmente ricca di suggestioni e argomentazioni è l’installazione video di Nigel&Coates e invece provocante e scanzonata è la manifestazione degli edifici messa su da Jordi Colomer, così come sono esemplari le installazioni degli unici due gruppi italiani invitati: Gianni Pettena, che mostra l’animazione della sua famosa installazione Archipensieri, dove il rapporto tra territorio e idea di architettura sono messi in crisi da una ludica installazione, e IAN+, che espongono i plastici di 4 portaerei che hanno perso la loro funzione belligerante e sono divenute appunto delle nuove microutopie (landscape, housescape, sportscape, artscape).
Nello storico Convento del Carmen invece, Will Alsop e Bruce Mc Lean curano un mega-allestimento dal nome A&M, il magazzino del comportamento adeguato, un negozio di esperienze e di sogni che ospita un drink-bar, un barbiere, sale di proiezione 3D dove ci si può sdraiare e riposare…
La sezione della Biennale più bella e significativa è Solares, curata da Lorand Hegyi e prodotta dalla Fondazione Culturale Edison di Parma. Questa esposizione nella città sembra rispondere meglio di tutte alla problematicità di cos’è una città ideale oggi. Sfruttando proprio i vuoti urbani di Valencia (i solares) o le facciate cieche degli edifici fatiscenti, una quarantina di artisti si è appropriata di questi spazi creando ognuno una piccola opera d’arte dove “l’estetica dei solares mette in evidenza la continua trasformazione della nostra cultura, l’anarchica creatività di questa trasformazione. Tramite la positivizzazione di questi spazi deboli e negativi, solares diventano una vera metafora della città ideale”.
E così, girando e perdendosi per Valencia con una piantina ma anche senza, ci si imbatte nelle opere di Gilbert&George o Ilya e Emilia Kabakov, un video girato a Stromboli da Marina Abramovic, i manifesti di Orlan, le fotografie di Wim Wenders, i bellissimi vasi di fiori pop di Gloria Friedmann, un pezzo di facciata prefabbricata di Bertrand Lavier, gli specchi rivolti verso il cielo di Michelangelo Pistoletto, i neon di Maurizio Nannucci ambientati in una meravigliosa plazita circolare e porticata.
Evviva, quindi, il progetto di questa 2° Biennale di Valencia che, ponendo la città come argomento principe della manifestazione, riesce a far parlare la città stessa, forse più degli artisti. Fa sensazione perché progetti del genere aiutano le città a rivivere e ad utilizzare anche temporaneamente la creatività di artisti e di architetti per comunicare che non esiste mai un solo punto di vista sulle dinamiche urbane, anzi guai a pensarlo.
©copyright archphoto-Mattia Darò