Giovanni Bartolozzi_Mies a Firenze: solo design
Aspettavamo da tempo quest’evento. E non solo per necessità didattiche o per il piacere di poter divorare dal vero le morbide poltrone di Mies, ma anche per avere una risposta attiva, concreta, operativa, dalla città di Firenze, dagli amministratori comunali e soprattutto dalla facoltà di architettura che ancora una volta si nasconde dietro la maschera dell’indifferenza e della superficialità. Eppure si è parlato per anni di una grande mostra itinerante su Mies van der Rohe agli Uffizi, spesso segnalata come occasione di respiro internazionale mossa proprio dalla facoltà di architettura. Così, mentre quest’ultima promuove una noiosa e prevedibile lezione dell’architetto ticinese Mario Botta in occasione della prolusione del nuovo anno accademico, si lascia sfuggire l’occasione di riaprire un dibattito su un indiscusso protagonista del razionalismo europeo, precludendone una capillare penetrazione di contenuti e spunti che sarebbe andata, finalmente, al di fuori delle consuete nozioni storiografiche impartite con rigore nelle cattedre universitarie.
Architettonicamente deludente il contenuto della mostra. Non tanto per la scelta delle opere esposte, che anzi testimoniano in sintesi, attraverso tre fondamentali tappe, quali l’edificio per il Weissenhof di Stoccarda, la casa Tugendhat a Brno e il padiglione tedesco a Barcellona, il lavoro riguardante la prima e più importante fase, evitando quindi di documentare la fase americana spazialmente appiattente e volta ad una sintesi ossessiva tra struttura e forma che ostacola la fluidità spaziale introdotta nelle opere del periodo tedesco e in particolar modo nel prestigioso padiglione di Barcellona.
Stranamente la guerra non produsse in Mies alcuno sconvolgimento, nè tanto meno la necessità di mettersi in discussione. E mentre un Le Corbusier va fisicamente in letargo tra i Pirenei, dipingendo mostri biomorfi, per risvegliarsi stravolto e dubbioso, pronto a rinnegare il suo passato e a dedicarsi integralmente alla costruzione di una nuova società, mentre Scharoun si nasconde nella sua patria senza sfuggire all’inumano, mentre Wright si batte, con ancora scarso successo, per la sua architettura organica, l’America vede in Mies e in Gropius (e non solo) una nuova speranza per fronteggiare l’effervescenza rivoluzionaria che aveva diversamente coinvolto buona parte dell’Eupora, derivante anche dal sostanziale apporto, metodologico più che pratico, fornito dai due all’interno del Bauhaus. Ma, “all’opposto di Gropius”, osserva Argan in un serrato confronto, “Mies non si pone problemi sociali e non ha problemi urbanistici diretti”.
La mostra ha dunque un buon pregio: illustra, ma con mediocrità, le tappe sostanziali del periodo più rivoluzionario di Mies, che si conclude con il padiglione tedesco. Si ripensi per un istante al contributo spaziale del padiglione tedesco nel pieno razionalismo dei primi anni ‘30. Mies è il primo che sostanzia spazialmente le sperimentazioni neoplastiche di Theo Van Doesburg, le quali, nella loro freschezza sperimentale, erano rimaste in buona parte operazioni telluriche, cioè di superficie. Le sperimentazioni di Van Doesburg e dell’intero gruppo De Stijl, innescata dalla scintilla Mondrian erano ancora fortemente bidimensionali, poiché agivano sull’involucro murario scardinando gli spigoli, incastrando e slittando i piani in un gioco quasi instabile vivificato dai colori. Ma lo spazio interno era ancora statico per quanto dinamicamente involucrato. Ecco allora l’apporto di Mies: all’incastro e allo slittamento planimetrico e materico delle lastre, egli fa corrispondere anche lo scorrimento spaziale. Fenomeno unico di scorrimento orizzontalizzato con graduali esplosioni sui lati e verso l’alto, che smaterializzano lo spazio risucchiandone la densità. Sta qui l’apporto innovativo e non in tutti i superficiali aspetti che l’accademia e perfino molti professori di progettazione hanno assorbito (dai pilastri cruciformi all’uso del marmo) tralasciando la sostanza; insisto: lo spazio interno orizzontalmente slabbrato.
Ma ritorniamo alla mostra. Le fotografie e le piante del padiglione sono ben note a tutti grazie alle numerose pubblicazioni, tanto che, su quest’aspetto, qualunque mostra apporterebbe un contributo minimo ma globalmente valido, soprattutto giocando sulla dimensione dell’immagine. Ma come fa uno studente, magari ai primi anni, a comprendere questo fondamentale traguardo spaziale con un plastico molto ridotto come quello esposto alla mostra? Sarebbe stato così difficile realizzare un plastico molto più grande, considerando le dimensioni effettive dell’edificio e la semplicità realizzativa che caratterizza l’opera?
Affidare la turbolenta concezione spaziale del padiglione tedesco di Barcellona ad un plastico molto piccolo, come quello esposto, equivale a smorzare e impedire al pubblico la percezione della tensione spaziale sfuggente che sostanzia l’edificio. Lo stesso ragionamento potrebbe essere esteso ai plastici degli altri due edifici esposti, ma sarebbe chiedere troppo, poiché, effettivamente, il loro apporto non sta tanto sul piano spaziale, ma su altri importanti aspetti che in quest’occasione è impossibile approfondire. Ma per il padiglione tedesco si sarebbe veramente potuto far di meglio, onde evitare la consueta banalizzazione dell’opera e soprattutto per abituare subito gli studenti a ragionare in termini di spazio. Cosa non semplice, soprattutto a Firenze.
Quanto detto fortunatamente non distoglie dalla contemplazione delle poltrone di Mies, come la ben nota “Barcellona” esteticamente insuperabile e riprodotta in serie ancora oggi da molte ditte e, come se non bastasse (e questo rende tutto più assurdo), riprodotta anche in scala nella mostra.
Una mostra di design dunque, impacchettata come fosse un regalo confezionato dal prestigioso Vitra Museum di Weil am Rhein e spacciata per una mostra di Architettura e Design attraverso volantini e manifesti (questi ultimi sparsi per tutta Firenze) graficamente infelici e sicuramente molto costosi. Certi che il contributo della Facoltà di architettura, assieme ai prestigiosi sponsor che supportano l’evento, avrebbe potuto in qualche modo compensare le mancanze della mostra, naturalmente sul terreno architettonico e magari agevolare anche una riduzione del prezzo, ci auguriamo migliori risultati per i prossimi eventi fiorentini. Si ripensi magari e per un solo istante a cosa implicava organizzare una mostra a Firenze quando un intellettuale dimenticato del calibro di C. L. Ragghianti era in piena attività.
©copyright archphoto-Giovanni Bartolozzi