Emanuele Piccardo_Il common ground dell’ovvietà
Common ground, senso comune, è il titolo della Biennale di Architettura curata dall’architetto inglese David Chipperfield. Ancora una volta è un architetto il prescelto, a parte le brevi parentesi di Sudjic (critico), Forster (storico) e Burdett (sociologo urbano).Un fatto anomalo del tutto italiano che evidenzia la mancanza di una cultura politica nell’affidare la direzione della Biennale ad un curatore /critico o ad uno storico dell’architettura. Così come accade per la Biennale Arte o Cinema dove il direttore è un critico che propone la sua idea avendo però un retroterra teorico dal quale elaborare e sviluppare un tema. Ci saremmo aspettati, come ha fatto Barbera per il cinema, che Chipperfield trattasse il tema della crisi e le sue influenze sull’architettura e la società ma forse avremmo preteso troppo da un architetto che produce edifici minimalisti, corretti, senza avere un progetto teorico. Più volte ho espresso perplessità sulle modalità della Biennale per trasformarla in una più onesta fiera dell’architettura qual’è già oggi. Una messa in scena teatrale con attori-architetti a recitare la parte dei benpensanti, senza incidere sulla città del mercato attuata dai grandi gruppi finanziari. In contrapposizione all’inconsistenza teorica espressa da Chipperfield, sono i padiglioni nazionali a risollevare le sorti della Biennale. Su tutti spicca il padiglione della Gran Bretagna curato da Vanessa Norwood e Vicky Richardson, che affidano a dieci gruppi di ricerca formati da architetti, curatori, critici, l’analisi del common ground tra gli architetti, sia in relazione ad opere specifiche quali residenze, edifici pubblici, sia nel verificare l’impatto sociale dell’architettura. Vengono esaminati diversi contesti geo-politici: Brasile, Russia, USA, Olanda, Giappone, Cina, Thailandia, Germania, Inghilterra, Nigeria e Argentina. L’obiettivo è creare un emporio delle idee, dove sono mostrati i risultati della ricerca e una serie di proposte provocatorie per attivare un dibattito in Inghilterra. Così il gruppo Aberrant Architecture ha indagato il progetto per la realizzazione di scuole pubbliche Ciep (1980) in Brasile, coordinato da Oscar Niemeyer,Leonel Brizola, Darcy Ribeiro che prevedeva la costruzione di 10,000 edifici con una qualità degli spazi architettonici elevata, garantendo strutture adeguate alla funzione educativa. E ancora nel lavoro di Liam Ross & Tolulope Onabolu si confrontano le regole edilizie di Edimburgo in rapporto all’informale non regola del costruire edifici a Lagos in Nigeria. Invece nella ricerca condotta da Elias Redstone a Buenos Aires è operativo il Fideicomiso, una sorta di credito di fiducia, che lega l’architetto all’ipotetico committente/acquirente. Ciò consente la progettazione di alloggi che riflettono le necessità degli acquirenti innovando sia le pratiche architettoniche sia quelle immobiliari. Un discorso complementare ma differente viene affrontato dalla Germania nell’attivare un dibattito sulle tre R: Reduce/Reuse/Recycle. Nonostante l’allestimento,troppo asciutto e criptico, non faccia percepire in modo chiaro il senso del tema, il progetto ha il merito di riflettere sul patrimonio edilizio esistente e sulle architetture moderniste del dopoguerra. Così viene ripensato l’uso e il riciclo, non solo della funzione, ma anche dei materiali, enfatizzando le architetture come risorse culturali e sociali per ridefinire il futuro delle città e della società tedesca.
Uscendo dall’Europa è il padiglione americano, curato dalla critica Cathy Lang Ho, che risulta essere il più interessante per il tema, Spontaneous interventions. Cittadini,attivisti, artisti, architetti, hanno partecipato ad una open-call con la presentazione di 450 progetti ridotti successivamente a 124. Dalla biblioteca nello spazio pubblico in una piazza di New york al SeeClickFix, un sito web e una applicazione per smartphone che segnala i problemi di manutenzione urbana in tempo reale sia al municipio di New Haven sia ai media. Una partecipazione attiva in pieno stile americano, dal sapore hippie, ma efficace nei risultati.
La conclusione spetta al padiglione italiano, curato dall’architetto Luca Zevi, il cui titolo le Quattro Stagioni (tra la pizza e l’opera di Antonio Vivaldi) appare inappropriato quanto il sottotitolo “da Adriano Olivetti all’Architettura del made in Italy”.
Da una parte si valorizza il progetto politico olivettiano e dall’altra si accoglie il visitatore con un giardino spontaneo che rappresenta più che un’idea legata al paesaggio la pubblicità di un vivaista. Nessun accenno alla crisi, al senso comune, tema dato da questa Biennale molle,bensì si presenta un coacervo di progetti di architetture industriali il cui pregio è la qualità di alcuni autori come Guido Canali, Piero Lissoni e Cino Zucchi, quest’ultimo presente anche nella sezione internazionale con una collezione di oggetti kitsch degni del miglior Dorfles.
Certo è che paragonare l’avanguardia olivettiana che ha realizzato un progetto politico di città e di industria usando tutte le espressioni culturali, dall’arte all’architettura, con gli industriali italiani del ventunesimo secolo appare una forzatura non supportata dai fatti.
Il grande assente è il dibattito che altri padiglioni suscitano. Noi dibattiamo su tutto tranne che pretendere di avere una classe dirigente preparata ed efficiente nelle sedi preposte come il Ministero Beni Culturali e la sua direzione generale per l’architettura. Occorre più serietà e preparazione in chi governa la cultura nel belpaese, uscendo dalla logica delle opportunità per pochi, dalla gestione curatoriale inesistente del Maxxi, l’unico museo nato senza collezione, alla gestione della nomina del curatore del padiglione italiano. In una recente intervista a proposito della biennale veneziana, Aurèlie Filippetti, ministro della cultura francese ha affermato che è “compito dello stato formare i futuri architetti e incoraggiare le giovani creazioni” enfatizzando il ruolo delle scuole per sviluppare una educazione artistica e culturale delle giovani generazioni. Una lezione che non abbiamo ancora imparato.