Giorgio Bologna_Evoluzione della cattività

Giorgio Bologna
The wood beyond the world by William Morris

“Via sia la luce” e luce fu.
Così inizia il primo libro della Genesi, ovvero così inizia – una – storia degli uomini.
Quello che però si dimostra estremamente importante, non è la citazione o il riferimento o ancora l’accenno ad una religione, piuttosto è la necessità degli individui di appropriarsi della visione e della vista. La necessità della chiarezza per rendere possibile il tracciamento di un limite, di un margine, che per quanto fragile possa essere si impone come diaframma tra il sublime della natura e la corruttibilità dell’uomo.

L’evento naturale è insito nell’esistenza umana da quando questa ha inizio, eppure per tutto il corso della vita, si ripete una mancanza di confidenza con l’habitat e le sue manifestazioni.
In tutte le civiltà – così dette evolute – il tracciato che si interpone tra natura selvaggia e ambiente controllato è sempre estremamente solido, caratterizzato anche da aperture controllate nella proporzione e forma, ma soprattutto con una sola costante: la possibilità di essere chiuse. L’essere umano, pare un’unità scissa da ciò che l’ha generato, in questo distacco oltre ad aver perso il contatto primario con l’ambiente naturale, diffida di questo, del suo fascino e della sua forza che spesso viene gestita, incanalata sfruttata e plasmata secondo le necessità.
Quello che è facile comprendere è la presenza di una razza aliena su un pianeta sconosciuto, che si muove per lo più su rotte bene note, battute e sicure, dove imperano alti pali in grado di illuminare tracciati che portano da un insediamento all’atro: roccaforti entro le quali, il paesaggio è pilotato e gestito, riprodotto in scala e modellato in maniera tale da apparire addomesticato, ammansito. La sensazione è quella di una società che tiene in cattività energie che non è effettivamente capace di “nutrire” e con cui non è in grado di convivere se queste vivono allo “stato brado”.

Ecco allora che dalla permeabile tenda da deserto, di passa alla palizzata, alla città murata fino alla metropoli, che si stacca dal suolo, ed in esso si infiltra fino in profondità; l’importante è porre un limite, sia una linea, un muro, un segno.
Dal tepee al rifugio antiuragano, cos’è cambiato?
È mancata la consapevolezza di essere sulla crosta terrestre, è mancata la relazione con “il Grande Spirito”, ovvero è venuta meno l’accettazione del non essere invincibili; intere popolazioni approvano e testano piani di evacuazione di edifici, quartieri e città in caso di cataclisma, i singoli individui costruiscono rifugi monofamiliari per proteggersi con provviste monodose sufficienti per il tempo – stimato – necessario a scampare il pericolo, gli edifici diventano “anti-“, piuttosto che adattarsi ad una possibile rigenerazione. Tutto sembra realizzato per un’eternità programmata, per durare contro ogni previsione.

Rifugi urbani, tunnel, gallerie, sistemi di limitazione delle maree e delle mareggiate si ergono a protezione dell’integrità della razza umana, città si arrampicano su versanti e alle pendici di vulcani, su spiagge sabbiose, senza considerare che tutti questi elementi, sono vivi, in movimento ed evoluzione. La precarietà delle nostre orme viene alla luce di fronte alla catastrofe, quando le energie di un intero continente in migrazione si scatenano, quando i sistemi urbani collassano sotto la pressione di eventi geologici e meteorologici; gli esseri umani allora raccolgono nelle loro borse la loro porzione di esistenza per rifugiarsi in luoghi sicuri.
Luoghi sicuri: i bunker.
Siano essi ipogei, fuori terra o parzialmente scavati nei versanti, rassomigliano tremendamente alle grotte: una sola entrata, controllabile, spazi pan-ottici, con forme centriche, entro le quali radunarsi, comunicare ed attendere la fine del disastro.
Dunque un inconscio, che spinge gli esuli esseri umani a riconciliarsi con le origini, con le radici: il fare provviste, il raggiungere un posto sicuro che ben differisce dal modello domestico contemporaneo, il ricongiungersi con individui della stessa specie in uno spazio unico, polifunzionale, strutturato attorno ad un centro.

Entro questi ambienti compressi, stipati di riserve di cibo e acqua, come nelle migliori tane, però, si trovano sempre alcuni elementi che tornano a stabilizzare la realtà dell’emergenza in qualcosa di più controllabile: lampade, lampadine, candele; corpi illuminanti di diversa natura, dai quali – storicamente – non riusciamo a separarci,sono oggetti che, più delle linee, dei tracciati, dei muri e diaframmi simili, premettono di estendere il nostro sguardo – e conseguentemente – il nostro confine nei confronti dell’esterno selvaggio, pericoloso e semisconosciuto, concedendoci quindi un’apparente grado di conoscenza superiore.

L’essere legati a queste certezze fragili o meno che si considerino ha mutato il modo di colonizzare il paesaggio, di viverlo e di abitarlo; ha decretato l’esistenza di una profonda faglia tra l’essere parte di un sistema o viverci a contatto. Si è sviluppata la tendenza a vivere in parallelo con un ambiente ormai divenuto – per noi – ostile, che però riconduce, talvolta, a tornare a quella forma mentis animale, di gruppo e di collettività, che ci appartiene ancora più dell’alienazione in continuo divenire dai bisogni fisiologici, dal “sentire” e percepire.

Non è più chiaro, allora, se siamo noi ad esserci auto-circoscritti in riserve – seppure molto estese – nelle quali sentiamo di essere padroni, che si rivelano poi biomi “ad hoc” per la razza umana o se davvero siamo riusciti a relegare ad un esterno marginale la natura selvaggia e violenta.
In entrambi i casi, il distacco pare impossibile, ma non per cause bilaterali: continuiamo ad essere dipendenti e legati per la sopravvivenza all’esterno, continuiamo a scoprire Luoghi, forme di vita, fenomeni che poi rifuggiamo. Continuiamo, fortunatamente a relazionarci con il Sublime di un mondo che forse, piuttosto che esserci asintotico, preferirebbe essere a noi divergente, per come ad esso ci stiamo relazionando.

[Giorgio Bologna]