Alessandro Bianchi_fotografia e rilievo
L. Ghirri, Ceramiche Marazzi, 1983
Fotografia e rilievo:alcuni casi mantovani
“Uno degli elementi che mi affascinava nelle ricerche concettuali era l’irruzione della possibilità di una sorpresa all’interno del quotidiano anche riferito all’arte. Ma al di là di questo credo di aver appreso dall’arte concettuale la possibilità di partire dalle cose più semplici, dall’ovvio, per rivederle sotto un’altra luce” (1).
Oggi la fotografia è divenuta il veicolo principale della comunicazione del progetto, e non solo diretto al pubblico non specialistico, ma parimenti agli addetti ai lavori. Sulle riviste di settore la fotografia ha preso il sopravvento sul disegno, e i tradizionali strumenti di rappresentazione fondati sulle piante, sulle sezioni e sui prospetti, hanno ceduto il passo all’immagine fotografica, a volte reale a volte sintetica, in qualche altro caso mista. Al di là del giudizio critico – morale sul fenomeno, che in questi anni ha farcito le colonne della stampa specializzata e di quella divulgativa, occorre forse andare alla radice del problema occupandosi di fotografia come mezzo di analisi del reale, e non come sua mera affermazione estetica e di promozione commerciale del “prodotto architettura”.
Dice F. Guerzoni: “E’ un lavoro nato vicino all’idea dei sistemi di rappresentazione quindi di mettere lo spettatore in condizione di credere che il sistema che si attua sul reale finisce per condizionare il reale attraverso il meccanismo di riproduzione. Da qui nacque l’idea di mettere insieme una serie di materiali quali il disegno dal vero di un paesaggio realizzato da un copista, una incisione, una fotocopia, una fotografia virata, una semplice fotografia, un ferrotipo di una stessa immagine, una rovina archeologica. Luigi mi aiutò non solo a realizzare l’opera, ma anche a confezionarla” (2)
L. Ghirri, Modena cimitero (A. Rossi), 1985
Luigi Ghirri dal 1983 apre la sua ricerca fotografica all’architettura con il Cimitero di Modena di Aldo Rossi. I luoghi descritti da Ghirri nelle sue prese sono l’interpretazione personale dei paesaggi, in cui l’architettura non mostra mai la propria autonomia, piuttosto la continuità con la visione del fotografo. Scrive a proposito del suo progetto Topographie-Iconographie: “La fotografia non è pura duplicazione o un cronometro dell’occhio che ferma il mondo fisico, ma un linguaggio nel quale la differenza fra riproduzione e interpretazione, per quanto sottile, esiste e dà luogo a un’infinità di mondi immaginari. Anche gli oggetti che sembrano essere interamente descritti dalla vista possono essere, nella loro rappresentazione, come le pagine bianche di un libro non ancora scritto” (3).
Ecco il punto, “differenza tra riproduzione ed interpretazione”: il rilievo di architettura, il disegnare architettura, non può mai tendere all’oggettività, ad una visione meccanicistico-quantitativa della realtà, come se non fossero dati mediati dalla nostra personale sensibilità. Anzi è pericoloso pensare che, soprattutto ora con l’ausilio degli strumenti informatici e tecnologici, la realtà così come l’invenzione siano frutto di un calcolo, di un teorema dimostrabile.
L. Ghirri, Versailles, 1985
Come ha sostenuto S. Crotti in una recente sessione di Tesi di laurea milanesi (4), tanto più un sistema architettonico è dimostrabile in termini tecnico-tecnologici-informatici, tanto più è pericoloso… perché è immediato, non lascia spazio agli strumenti della riflessione sull’architettura, ai mezzi della critica dubitativa. Ciò che vediamo è mediato dal filtro della nostra percezione, ed essa è legata al nostro passato e alla nostra cultura: non è mai uguale per tutti, suscita in ciascuno motivazioni di apprezzamento o negazione differenti. Quanto più ricerchiamo una visione comune, tanto più ci separiamo da noi stessi: non è scienza e neppure norma, e soprattutto non è obbligatoria, e non si capisce perché oggi molti tendano a costruire pervicacemente tale fredda riproduzione automatica, onnicomprensiva. Michelangelo Antonioni è tra i più straordinari inventori di visioni, di incredibile fotografia cinematografica che si fa favola; eppure non crea nulla, vede in maniera diversa ciò che vediamo tutti. La camera da presa può essere collocata là dove tutti i registi di mediocre caratura la collocano, oppure no, può divenire un “occhio di dio”, che ci fa vedere la realtà secondo un’invenzione, in una sorta di prospettiva verosimile che miscela l’ovvio con l’inaspettato, nel luogo retinico dove il banale diventa sorpresa.
Il Paesaggio italiano (5), un progetto cui Ghirri si dedica nel 1989, definito come “una geografia sentimentale dove gli itinerari non sono segnati e precisi, ma ubbidiscono agli strani grovigli del vedere” (6), è l’autore che si confronta con la meditazione intimistica della visione, quasi quel vedere nascesse da dentro, che necessitasse di trovare una giustificazione nella realtà circostante. Come quando andiamo in biblioteca, e senza avere un’idea precisa su cosa vogliamo leggere, ci ritroviamo di fronte due milioni di volumi: cosa fare? come scegliere? Al contrario, sulla scorta di un’idea non ancora meditata, una sensazione, una voce, ci possiamo muovere in quella stessa biblioteca come nelle stanze di casa nostra; troviamo una via tra mura di libri i cui titoli sono mattoni, ma non ci perdiamo e arriviamo in fondo, a dimostrare quella sensazione originaria con la quale siamo entrati. Nello stesso modo vediamo, vediamo con un’idea in testa.
M. Rigoni, M. Rocco, A. Zanolla
I lavori che vengono presentati in questa ricerca sono il frutto di cinque anni di corso di “Tecniche avanzate di rilievo”, dal 2005 al 2010, presso il Polo universitario di Mantova afferente al Politecnico di Milano. La riflessione che li permea proviene dalla necessità di raccontare i luoghi dell’architettura, e le architetture ovviamente, attraverso questo occhio attento a raccogliere i dati sensibili, quasi sentimentali, del paesaggio italiano mantovano, senza perdere di rigore scientifico nelle misurazioni e nella rappresentazione. Ma oggetto dell’interesse di questi studi non sono stati i mezzi e la loro pruriginosa esibizione – oggi tanto di moda, fra scanner tridimensionali e foto-restitutori – ma l’architettura dei luoghi, colta e guardata con un mezzo in più (peraltro non così nuovo), e cioè la fotografia applicata alle proiezioni ortogonali dei prospetti, delle sezioni, e talvolta delle piante.
I mezzi utilizzati per i rilievi e per i grafici sono quelli divenuti comuni negli studi professionali, presenti ormai ovunque negli atelier di architettura e ingegneria che si occupano di recupero e restauro del costruito. Mezzi e strumenti il cui uso è abituale da circa venti anni, ma in molti casi senza un orientamento disciplinare e metodologico che ne indicasse l’utilizzo dedicato… come se fosse stata data in mano ad un bambino una semplice matita e, per ovvie mancanze formative, il fanciullo la utilizzasse solo per fare degli scarabocchi.
F. Mondini, M. Raimondi
Il computer ed i suoi software sono solo mezzi, mezzi per disegnare che hanno preso il posto dei tecnigrafi, delle righe e delle squadre; occorre una formazione precisa per disegnare edifici anziché imbarcazioni, anziché componentistica meccanica, anziché modelli per abiti. E’ un problema legato al fine e non al mezzo; ecco perché utilizzare i software in circolazione da vent’anni anziché continuare a specializzarsi su nuovi strumenti informatici, su “nuovi mezzi”, che in questi ultimi due decenni hanno sostituito per interesse il fine della ricerca divenendo autoreferenziali. La rivoluzione informatica è compiuta, ora basta, occorre tornare al nocciolo del nostro impegno, all’architettura. Scriveva R. Longhi in un suo bel saggio giovanile: “Ma la tecnica comincia e finisce quando i colori sono stati comperati dal droghiere, quando la colla è pronta, quando il blocco di marmo è misurato. Vi ho mai parlato della bellezza dei colori minerali rispetto ai vegetali, forse? Questo sarebbe parlare di tecnica. Ma subito dopo comincia l’arte e con l’arte il godimento artistico”(7).
Nei lavori degli studenti si noterà una particolare attenzione alla pagina grafica composta attraverso una sorta di racconto dell’edificio rappresentato, come se le architetture rilevate fossero “personaggi in cerca d’autore”. Questa è la chiave che lega la lettura personale dell’edificio e del paesaggio di contorno con il rilievo (che è disegno dal vero) e si esplicita nella rappresentazione sempre differente – perché realmente, materialmente e sensibilmente, affatto diversa – delle architetture.
L. Crotti, P. Giannini
I lavori più maturi denotano una visione sinottica della rappresentazione, in cui piante-prospetti-sezioni sono disegnate in un’unica macroscopica tavola secondo percorsi e proiezioni legati da un filo rosso concettuale, cadenzato da fotografie dello stato dei luoghi, da carte storiche e contemporanee e dalla critica iconografica delle stesse, da schizzi di prelievo delle misure e da letture dell’edificio. Maggiore è la riduzione ad unità della complessità, maggiore è il livello qualitativo raggiunto dallo studente. E’ chiaro che questo metodo di lavoro non può prescindere dalle intrinseche capacità intellettuali dell’apprendista architetto, che legge gli elementi visivi come se fossero parole di un libro, cercando di dare senso attraverso la parola enunciata – con tonalità, accenti e cadenze – a quello che vede. Non una falsa e millantata lettura obiettiva, piuttosto una rivendicabile e opinabile lettura personale.
S. Albarello, F. De Gobbi, S. Fiorio
F. Bissa, L. Gobbi, E. Guarato
Vorrei concludere con una una riflessione su T. Guerra, poeta e scenografo delle mie parti, dell’alto Montefeltro (la valle del Marecchia) da poco ritornato ad essere romagnolo. Nei suoi Luoghi dell’anima (8) il grande saggio di Pennabilli mostra un “paesaggio dell’anima” molto simile, per certi aspetti, a quello di Ghirri: “L’orto dei frutti dimenticati”, “La strada delle meridiane”, “Il giardino pietrificato”, “L’angelo coi baffi”, “Il santuario dei pensieri”, “Il rifugio delle madonne abbandonate”, “La Madonna del rettangolo di neve”, sono paesaggi e architetture d’invenzione, ma più reali – sicuramente più autentici – di tanta vernacolare coeva cultura imitativa, che scambia la svenevolezza e il romanticismo delle forme del “c’era una volta” per un ritorno alla tradizione, e quindi alle buone cose, ai valori. Tutt’affatto: è solo l’invenzione del reale che è “reale”, il “verosimile” che ci fa essere contemporanei e non nostalgici… il resto e ipermodernismo (postmodernismo) per le categorie di M. Tafuri, “gaia erranza”(9).
S. Chiarini, S. Cremonese, C. Mombelli
(1)A. C. Quinravalle, Viaggio dentro un antico labirinto, immagini di L. Ghirri, D’Adamo, Bergamo 1991
(2)Intervista a F. Guerzoni di L. Gasparini, Modena, 9 novembre 1999
(3)L. Ghirri, Still-Life. Topographia-Iconographia, in “Camera Austria” n. 7, 1982, pp. 23-33
(4)Intervento (citato a memoria dall’autore, e per questo non virgolettato), elaborato durante il commento alle Tesi di laurea, sessione del 4 Maggio 2010 presso il Politecnico di Milano, Facoltà di Architettura e Società
(5) L. Ghirri, Paesaggio italiano / Italian landscape, in “Quaderni di Lotus”, Electa, Milano 1989
(6)L. Ghirri, Niente di antico sotto il sole / scritti e immagini per un’autobiografia, a cura di P. Costantini e G. Chiaramonte, pp.151-152, S.E.I., Torino 1997
(7)R. Longhi, Breve ma veridica storia della pittura italiana, p. 19, BUR Supersaggi, Milano 1994
(8) Cfr. www.museialtavalmarecchia.it/
(9) M. Tafuri, Storia dell’architettura italiana, Einaudi, Torino 2002