Michela Rosso_Corbumania
Nessuna particolare ricorrenza giustifica i fiumi d’inchiostro recentemente versati su Le Corbusier, al centro, nel corso degli ultimi tre anni, di un’esplosione mediatica paragonabile solo a quella che ha interessato, più o meno nello stesso periodo, un altro grande protagonista dell’architettura del Novecento, Frank Lloyd Wright (cfr. Il Giornale dell’Architettura, n. 73). Nella messe di monografie, tesi di dottorato, saggi, ristampe anastatiche e riedizioni critiche, mostre, dibattiti, lezioni ed eventi spettacolari dedicati a quest’indiscusso maestro dell’architettura contemporanea si distinguono senz’altro il gigantesco (e impossibile da maneggiare e forse, anche per questo, virtualmente accessibile in parte sul sito di Phaidon) Le Corbusier Le Grand, (331 x 437 mm,624 pagine, 2.000 illustrazioni per 9 kg); una voluminosa e per certi versi pionieristica biografia dal titolo immodesto Le Corbusier. A Life (Nicholas Fox Weber); una storia illustrata en bande dessinée dedicata al primo 38% della sua vita, firmata da Sambal Oelek, tipico condimento indiano piccante e non de plume del fumettista svizzero Andreas Müller; quattro documentatissimi saggi iperspecialistici (Catherine de Smet, Tim Benton,Jean Louis Cohen e Caroline Maniaque); tre riedizioni d’indiscusse pietre miliari della storiografia sull’argomento (ancora Benton, Max Risselada e Stanislaus Von Moos); la ristampa dell’autobiografia professionale, La mia opera uscita nel 1961 in tre lingue e, per finire, un improbabile saggio recentemente licenziato da Mit Press sui presunti rapporti dell’architetto con la massoneria, la magia e l’occulto. Di fronte a tale dispiegamento d’energie, la domanda sorge spontanea: che bisogno c’era? Una possibile spiegazione sta in un mercato editoriale che si adegua alla cannibalizzazione dei documenti tipica di erudite e sofisticatissime indagini d’archivio, ansiose di ripercorrere la multisfaccettata vicenda professionale e personale di questo poliedrico personaggio, al contempo architetto, urbanista, teorico, pittore, scultore e prolifico scrittore. Ma c’è dell’altro: il mercato dei prodotti culturali è paragonabile a un sistema nervoso affamato di novità, continuamente bisognoso di stimoli. L’architettura è una delle tante branche di questo mercato, capace d’innescare interessi dilaganti, tendenze e mode culturali destinate (forse) a contrastare l’attuale crisi che non ha risparmiato neanche tale ambito.
D’altro canto, come mostra il recente The Rethoric of Modernism di Tim Benton, lo stesso Charles Edouard Jeanneret era ben cosciente dell’importanza che i mezzi di comunicazione di massa avrebbero rivestito nel costruire e consolidare la sua reputazione di architetto moderno. È a partire dal 1917, col suo trasferimento a Parigi, che l’architetto svizzero-francese inizierà sistematicamente a costruire la propria immagine pubblica di leader della nuova architettura, giocando un ruolo di primaria importanza nell’attirare l’attenzione dei media e nel galvanizzare l’opinione pubblica. Le centinaia di lezioni che terrà, saranno per l’architetto di La Chaux-de-Fonds un formidabile strumento di propaganda.
Quelle tenute all’estero erano irrinunciabili opportunità di rappresentarsi come uno dei leader
internazionali del Movimento moderno: era all’estero, piuttosto che nella capitale francese, che
l’architetto riceveva l’accoglienza più calorosa. Dal 1927 in poi, con l’insuccesso al concorso per il Palazzo della Lega delle Nazioni a Ginevra, le sue lezioni diventeranno, sempre di più, il pretesto per un’accanita campagna personale contro l’accademismo.
Accanto alle lezioni, un posto importante nella costruzione dell’immagine pubblica di Le
Corbusier spetta senz’altro ai libri. La coesistenza simbiotica tra architettura costruita e testo letterario, condizione naturale della storia dell’architettura sin dal Rinascimento (oggetto, tra
l’altro, di un recente simposio organizzato dall’Inha a Parigi, dal titolo Le livre et l’architecte), è sempre più spesso al centro degli interessi della comunità scientifica. A partire dal testo chiave di Beatriz Colomina, Privacy and Publicity. Modern architecture as Mass Media,pubblicato nel 1994, tale filone di studi, interessato a definire il rapporto tra l’architettura e le sue rappresentazioni, ha prodotto lavori degni di nota come quello recente di Catherine de Smet su Le Corbusier pubblicista, editore e homme de lettres, com’egli stesso amava definirsi negli anni trenta. Oltre a testimoniare un’originale padronanza nell’uso delle tecniche grafiche, tipografiche e d’impaginazione, i trentacinque titoli pubblicati tra 1912 e il 1965, oltre alle riviste (L’Esprit Nouveau, Plan e Prélude), ai numerosi articoli, ai volumi dell’Oeuvre complète, ai cataloghi e agli album, svelano le complesse strategie messe in campo dall’architetto di origine elvetica al fine di presentare al pubblico il suo lavoro e di dimostrarne l’intrinseca complessiva coerenza.
Ma il lavoro editoriale di Le Corbusier conta anche alcuni progetti incompiuti oggetto di
recente interesse critico: è il caso di France ou Allemagne? Enquête sur un côté de l’activité artistique de deux peuples pendant une période historique (1870-1914), esposto per la prima volta in una lettera al collega Auguste Perret datata 14 giugno 1916 e al centro di un piccolo libro firmato da Jean-Louis Cohen. Tale progetto editoriale, coincidente con gli anni della Grande guerra, evidenzia la molteplicità delle allusioni alle culture visive dei due paesi, mostrando una conoscenza approfondita e precisa della cultura tedesca, cui l’architetto è legato da un rapporto di attrazione e repulsione al contempo.
Tutto il testo, giocato sull’opposizione e il confronto, page contre page, tra Francia, nuova patria d’adozione, e Germania, luogo eletto di un’originale formazione di autodidatta, mette in luce il complesso sistema di scelte estetiche, di riflessioni editoriali e di posizioni intellettuali, evidenziando la tensione tra due modelli culturali che rimarrà costante lungo tutta la vicenda intellettuale del maestro. Accanto a questi veri e propri scavi filologici, non va dimenticato il già citato Le Corbusier. A Life, firmato dallo storico culturale statunitense Nicholas Fox Weber, già cimentatosi in passato nella biografia del pittore Balthus. L’incipit è insolito, il racconto di Weber procede a ritroso: la morte, avvenuta nell’estate 1965, per annegamento al largo di Roquebrune Cap-Martin, la cerimonia dei funerali nazionali orchestrata da André Malraux alla Cour Carrée del Louvre, la scomparsa delle persone a lui più vicine, dalla moglie Yvonne Gallis, nel 1957, al padre Georges Edouard Jeanneret, nel 1926, alla madre, Marie Charlotte Amélie Perret, nel 1960. Le oltre ottocento pagine, rivelatrici, tra l’altro, d’illuminanti aspetti del tormentato rapporto di Le Corbusier con le donne, nonché dei suoi numerosi love affairs extraconiugali, tra cui il più noto è quello con la celebre ballerina afroamericana Josephine Baker, lascia emergere, accanto ai compagni di strada più conosciuti (da Perret a Amedée Ozenfant a Charlotte Perriand), alcune figure inattese ma evidentemente cruciali nella sua parabola umana, come quella di William Ritter, professore e critico musicale di Neuchâtel, suo principale mentore e assiduo corrispondente. La vastissima produzione letteraria sul maestro conta infine un numero di contributi che proseguono, arricchendoli, filoni di studi già ampiamente battuti.
Tra questi è certamente meritevole d’attenzione il paziente e utilissimo lavoro che lo storico svizzero Stanislaus von Moos ha dedicato all’aggiornamento e alla revisione critica del suo Le Corbusier. Elements of a Synthesis,pubblicato in prima edizione tedesca nel 1968, riedito nel 1979 in inglese e ora ripubblicato con l’aggiunta di sette postfazioni agli altrettanti capitoli tematici
dell’edizione originale. Un lavoro che, oltre a testimoniare l’agnosticismo filosofico e teorico dell’autore, dimostra il carattere cumulativo, ma anche continuamente falsificabile, di ogni forma di sapere, segnalando all’attenzione di giovani studiosi nuovi possibili itinerari di ricerca nel proteiforme universo lecorbusieriano.
L’analisi genetica dell’opera architettonica inaugurata da Benton, con il suo libro sulle ville progettate negli anni venti, uscito in francese nel 1984, riedito, riveduto e ampliato nel
2007, e proseguita, nel 2004, da Ivan Zacnik con la monografia del Pavilion Suisse alla Cité
Universitaire di Parigi, caratterizza infine il recente testo sulle Maisons Jaoul, ascrivibile al genere della biografia di un edificio. Com’era già stato per il pionieristico volume di Tim Benton, il lavoro della storica Caroline Maniaque distoglie l’attenzione dal risultato finale (l’edificio costruito) per concentrarsi sul processo d’ideazione e costruzione che lo precede, oggetto d’una dettagliata analisi archeologica. Se da un lato si potrebbe obbiettare che tale analisi costituisce per lo storico una pratica gratificante in se stessa, indipendentemente dall’importanza delle scoperte che è in grado di dischiudere, dall’altro va riconosciuto che proprio tale profondità d’indagine consente a Maniaque di spingersi ben oltre le consumate analisi dell’opera, intrecciando la lettura dei disegni e delle fotografie alle relazioni tra l’architetto, il cliente, i collaboratori e gli artigiani, ponendo così le basi per una riscrittura radicale dell’interpretazione.
Questo articolo è stato pubblicato su “Il Giornale dell’Architettura n.76/settembre 2009“. Archphoto ringrazia l’autrice e il caporedattore Luca Gibello per aver concesso il diritto a pubblicarlo.