Luigi Manzione_Abitare collettivo in Francia

Mentre in Italia il “piano casa” del governo Berlusconi si occupa di fornire gli strumenti (o meglio espedienti) per aumentare superfici e volumi delle abitazioni private - con una evidente distorsione terminologica di un precedente, e ben più sostanziale, “piano casa” (quello del 1949) - le esperienze più avanzate di social housing e di abitare collettivo in Europa cercano di mettere a punto politiche e strategie in un’epoca difficile segnata dalla parola “crisi”. Laddove non esiste una cultura disciplinare e un quadro normativo specifico, insieme vincolante e stimolante, difficilmente può svilupparsi una sperimentazione progettuale adeguata. In Italia, infatti, manca da anni una ricerca che sappia coniugare qualità dell’abitare e qualità dell’architettura, qualità degli spazi pubblici e degli spazi privati. Un Paese che ha ormai affidato alla egemonia del mercato, e ai suoi banali egoismi, la produzione edilizia, non ha più alcuna carta da giocare sul tavolo dell’architettura pubblica e, ancor più, della residenza collettiva.

Se poi si guardano i dati statistici, non si può non rimanere colpiti dal ritardo e dall’indifferenza in materia: con soli 18 alloggi sociali per 1.000 abitanti, l’Italia è il penultimo Paese europeo, seguito dalla Spagna. Al primo posto i Paesi bassi, con 147 alloggi sociali per 1.000 abitanti; al sesto la Francia con 69,2. In queste condizioni è obbligatorio rivolgere lo sguardo altrove. Limitiamoci alla Francia (che peraltro ultimamente non gode affatto di buona salute in questo campo) e cerchiamo di capire, in estrema sintesi, quali sono le origini delle politiche residenziali pubbliche e come queste si sono definite nel corso dell’ultimo decennio. All’inizio del Duemila, la Francia mostrava di voler riprendere in mano le sorti della città: è questo l’obiettivo della legge sulla “solidarietà e il rinnovo urbano”, detta “legge Borloo”, approvata nel 2003. Dal 1967 il governo francese non predisponeva un progetto globale di politica urbana di lungo periodo: le novità sono anzitutto di carattere qualitativo, e si inscrivono in un contesto generale ben diverso rispetto a quello dei decenni precedenti. La priorità assoluta è rivolta, non più alla crescita e all’espansione proliferante, ma alla ridefinizione dell’esistente, dal disegno del territorio alla sistemazione dei vuoti urbani, dal rilancio delle agglomerazioni all’estensione e all’adeguamento del parco degli alloggi sociali. Come notava all’epoca Christian Devillers, architetto e urbanista impegnato sul fronte del rinnovamento, per la prima volta la nozione di progetto urbano esce dal recinto disciplinare, formandosi le premesse per “disegnare una visione concreta della città”.(1)

Ci si propone, in sostanza, di ridurre le differenze e le diseguaglianze sociali nelle cosiddette “zone urbane sensibili” (ZUS), con la creazione di un programma nazionale di rinnovamento urbano (PNRU), detto “plan Borloo”, che prevedeva nel periodo 2004-2008 la costruzione di 200.000 alloggi sociali, 200.000 riabilitazioni o ristrutturazioni e 200.000 demolizioni di alloggi vetusti. Ciò con particolare riguardo a due diritti fondamentali: quello alla “qualità urbana e alla mobilità per tutti” e quello all’alloggio. Diritti che trovano posto nei tre settori delle politiche urbane, dei trasporti e dell’habitat, il cui rinnovamento doveva essere perseguito mediante l’estensione dell’intercomunalità democratica, la ricerca della “mixité” sociale ed economica.

Porre l’accento sull’agglomerazione equivaleva a riconoscere che i problemi urbani non si localizzavano solo nelle grandi città, ma anche nei medi e piccoli centri, specie in rapporto al fabbisogno di alloggi sociali.(2) In assenza di un rafforzamento della politica dell’alloggio sociale, le categorie meno abbienti erano praticamente escluse da qualsiasi accesso all’abitazione. Questa inchiesta metteva in evidenza il fatto che, da un lato, i proprietari di appartamenti in condizioni di forte degrado preferivano lasciarli sfitti per non doversi accollare le spese di rimessa in stato e che, dall’altro lato, nell’ipotesi di un intervento da parte dei privati, la conseguenza immediata sarebbe stata un aumento del canone di locazione, un carico insostenibile per le persone a basso reddito.

La strada da percorrere restava allora quella di imporre ai Comuni la costruzione di alloggi sociali laddove questi erano insufficienti o carenti. La “loi SRU” (Solidarité et renouvellement urbains) del 2000 poneva in stretta connessione il diritto all’alloggio con la mixité sociale, imponendo ai Comuni con più di 3.500 abitanti, appartenenti ad una agglomerazione con popolazione superiore ai 50.000 abitanti, che dispongono di un parco immobiliare di tipo sociale inferiore al 20% del parco globale, un programma di realizzazione non solo di generici « logements sociaux », ma anche di residenze per i giovani e per le persone impossibilitate ad accedere ad un’abitazione indipendente. Si prevedeva anche l’imposizione di precise misure di lotta contro l’insalubrità, nel caso di proprietari inadempienti : in tali situazioni, lo Stato e le collettività locali potevano disporre di ampi mezzi per effettuare operazioni di rinnovo e bonifica in sostituzione dei proprietari.(3)

Notevole è stato il contributo delle associazioni che lavorano sul terreno dell’aiuto e dell’inserzione delle persone sfavorite: tra queste si distingue il Mouvement Pact Arim, che, con il concorso dei poteri pubblici e dell’attività di professionisti direttamente impegnati nel sociale, operava al miglioramento delle condizioni abitative, aiutando nella ricerca di appartamenti a basso canone di locazione le persone a reddito debole.

Politica dell’habitat, dei trasporti e dei parcheggi, equità rispetto all’accesso all’alloggio, sono i temi intorno ai quali si polarizza un quadro tecnico e legislativo che punta fortemente a sostenere una adeguata politica urbana in Francia. La complessità delle poste in gioco è evidente: le sorti delle città francesi appaiono interamente affidate alla razionalizzazione dei processi pregressi e in atto, nella prospettiva di porre su un piano di equità le risorse casa e città in un’epoca in cui la multi-etnicità, la convivenza inter-razziale, la rinascita dei conflitti sociali nelle periferie - specie sotto la presidenza di Nicolas Sarkozy -, il riapparire di problemi legati all’igiene urbana impongono una revisione dei meccanismi ultra-liberistici nella direzione di una maggiore giustizia e solidarietà.

In una condizione generalizzata di difficoltà e di disagio parlare di architettura presenta il rischio di trattare questioni puramente formali e di affrontare problemi marginali, se non si riconduce la qualità dell’architettura all’insieme delle tensioni e delle aspettative che attraversano il mondo reale. Il progetto di architettura residenziale, in particolare di logement social, ha in Francia una antica tradizione che risale all’igienismo di fine Ottocento. Fino alla seconda guerra mondiale, la produzione in questo campo era caratterizzata dall’applicazione di modelli sperimentati di habitations à bon marché (HBM). Nei successivi Trente Glorieuses (1947-1974), la scena è dominata dalle habitations à loyer modéré (HLM) e dalla proliferazione dei famigerati grands ensembles e dell’Hard French. Gli anni ’70-‘90 sono poi segnati da un atteggiamento critico verso la precedente età dell’ottimismo, con una riflessione sugli aspetti sociologici che si interseca al rinnovamento del progetto di architettura, in equilibrio tra pièce urbaine, architettura urbana e primi tentativi di rilettura di elementi e impianti in chiave di ecosostenibilità. A partire dal 2000, il tema della qualità ambientale diventa parte integrante della progettazione dell’alloggio sociale, con la realizzazione di interventi a budget limitato (v. l’”alloggio a 100.000 euro” e l’operazione Cité manifeste a Mulhouse del 2005).

Indicare progettisti ed opere esemplari nella condizione attuale di continua rimessa in questione di idee, temi e obiettivi (più o meno fattibili) non è operazione semplice. Consapevoli di ciò, segnaliamo due studi che si distinguono per la qualità della ricerca e per un atteggiamento concreto: atelier da.u e benjaminfleury.

atelier da.u, con sede a Malakoff, comune della prima periferia parigina, è nato nel 1998 dalla associazione di due architetti nati alla metà degli anni ’60, Pascal Arsène-Henry e Philippe Doudrel. L’attività dello studio, basata su un approccio relazionale, è caratterizzata dall’attenzione verso la qualità spaziale e i caratteri del sito, in un’ottica che privilegia la fattibilità tecnica ed economica del progetto. Lo studio ha all’attivo sette progetti di logement social, risultati di partecipazioni a concorsi. Tra questi si segnalano il progetto di 14 case nel quartiere Bel Air a Chartres, vincitore del concorso del 2004, la cui realizzazione è in corso e prevede la riqualificazione della parte nord-ovest del quartiere nella forma di habitat individuale, di cui il 20% destinato ad alloggio sociale. Altro interessante progetto è quello per 21 alloggi PLUS (prêt locatif à usage social) nel quartiere Frassati a Courtry (2002-204), dove la qualità ambientale è al centro dell’intervento. Utilizzazione del legno, comfort igrotermico e acustico, cura per le vedute e l’inserimento nel contesto sono i punti chiave di un progetto che si propone di ricucire il tessuto urbano, ricostituendone il parcellare e rinforzando la presenza di verde e di spazi pubblici. Nel progetto ad alta qualità ambientale, realizzato nel 2004 nel quartiere Mâche Prunelle a Ormesson-sur-Marne - già segnalato su archphoto - 16 case PLA (prêt locatif aidé), ad ossatura e facciate in legno, sono raggruppate in tre bande, con alloggi accoppiati ma caratterizzati individualmente. Il terreno in declivio viene esaltato dalla organizzazione dei corpi edilizi e dal rapporto tra interno ed esterno. Un’attenta riflessione è poi dedicata alla sistemazione paesaggistica dell’area e alla definizione degli spazi pubblici.

Henry
quartiere Mâche Prunelle a Ormesson-sur-Marne, planimetria generale

Benjamin Fleury fonda lo studio, con sede a Bagnolet, nel 2004, lavorando in équipe con Philippe Guillemot e Theo Riboud. Dopo alcune esperienze con Paul Chemetov, Benjamin Fleury avvia una ricerca progettuale autonoma connotata da un forte interesse per gli usi molteplici e le mutazioni dei modi di vita, per il contesto e i dati ambientali, con una tensione verso la messa a punto di soluzioni specifiche.

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Choisy-le Roi (ZAC du port), 2009

Lo studio ha finora prodotto tre interessanti progetti di edilizia sociale, di cui uno realizzato nel 2009 per 20 alloggi a Choisy-le-Roi (ZAC du port), in collaborazione con Olivier Sinet associés. Realizzati su terreno inondabile, essi presentano il primo livello adibito a parcheggi in uno zoccolo di cemento.

Fleury
Choisy-le Roi (ZAC du port), 2009

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Choisy-le Roi (ZAC du port), 2009

Con evidente cura per il verde e lo spazio collettivo, la formazione di vedute panoramiche, l’accessibilità alle persone diversamente abili, gli alloggi sono organizzati in due corpi separati: un edificio lineare a sud in rapporto con la strada, che si confronta con l’identità del centro cittadino (paramenti in terra cotta e finestre verticali), a cui si accosta un monolite bianco a nord, che si ricollega al linguaggio delle case dei bordi della Senna per tessere un dialogo con il paesaggio fluviale.

Fleury
La Source, Orleans

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La Source, Orleans

Gli altri due sono progetti in corso: quello (ad altissima perfomance energetica THPE) per 9 case + 24 alloggi bioclimatici è situato nel quartiere de la Source a Orléans. Un doppio orientamento e la presenza di muri ad alta inerzia termica permettono il raffrescamento per ventilazione naturale in estate. Ampie aperture a sud favoriscono un bilancio energetico positivo nelle finestre vetrate, precedute da logge, a cui collabora anche l’isolamento esterno.

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La Source, Orleans

Il progetto per 30 alloggi bioclimatici, anch’essi ad altissima performance energetica, a Villejuif, nella periferia sud di Parigi, propone una rilettura del centro comunale e delle relazioni con i principali edifici pubblici (Hôtel de Ville, mediateca, teatro e chiesa).

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30 alloggi a Villejuif

Ricerca in chiave ecosostenibile, qualità tecnologica e attenzione verso la (ri)formazione dello spazio pubblico sono i principi alla base del progetto. Il taglio in diagonale del lato est del complesso mette in relazione questi edifici pubblici all’interno di una piazza che unifica il nuovo intervento e il preesistente, la residenza e le attrezzature collettive. Una serie di logge - rievocazione della terragniana “Casa Rustici”, già peraltro presente in altre occasioni progettuali parigine - collega i due corpi degli alloggi creando a livello del terreno uno spazio coperto di incontro.

Fleury
30 alloggi a Villejuif

I parametri bioclimatici trovano una appropriata concretizzazione nel soggiorno ad angolo, che beneficia di una doppia esposizione ed offre una grande diversità di vedute sul contesto urbano.

[Luigi Manzione]

(1) Cfr. Matthieu Ecoiffier, ”La ville de demain en chantier”, Libération, 20.12.1999.

(2) Lo mostravano in modo inequivocabile le carte pubblicate sulla stampa francese tra il 1999 e il 2000): una inchiesta apparsa sul quotidiano France Soir (”Logement social. Le rapport qui accuse”, 17.01.2000) rilevava in particolare la perdita di 2.300.000 alloggi a fitto moderato a causa della loro insalubrità, come si evinceva dal rapporto dell’“Alto Comitato per l’alloggio delle persone sfavorite”, secondo cui nel 2000 vivevano in Francia 730.000 senza tetto, di cui 35.000 in centri di accoglienza, 550.000 in albergi o camere ammobiliate, 100.000 alloggiati presso famiglie e 45.000 in alloggi di fortuna (senza contare gli SDF, i “senza dimora fissa”, 98.000 persone)

(3)Secondo uno studio realizzato all’epoca dallo I.A.U.R.I.F. (Istituto di pianificazione e urbanistica della Regione Ile-de-France), ben 1.113 Comuni, di cui 178 nella Regione Ile-de-France, non raggiungevano la soglia limite del 20% di alloggi sociali (in Francia denominati H.L.M., abitazioni a fitto moderato). Per questi comuni la legge prevedeva l’imposizione della creazione della quota minima del 20% e, per rendere tale obbligo ancora più vincolante, si disponeva che i Comuni inadempienti dovessero pagare una tassa di 1.000 franchi (del tempo) l’anno per ogni alloggio mancante rispetto al raggiungimento del minimum.