Francesco Gastaldi_Abitare collettivo in Italia
Riflessioni di inizio secolo sull’abitare collettivo in Italia
In pochi anni, fra il 1962 e il 1974 vengono immaginati e poi costruiti nel nostro paese progetti di architetture residenziali estremamente eterogenei, ma accomunati dalla speranza di realizzare modelli organizzativi, spaziali e di società nuovi (ad esempio il Biscione a Genova, il Gallaratese a Milano, Le Vele a Napoli, Rozzol Melara a Trieste, lo Zen a Palermo, il Corviale a Roma). Nell’Italia del “miracolo economico”, in una stagione di crescita verso logiche di sviluppo illimitato, in cui le città costituiscono polarità forti e attrattive in continua crescita, vengono pensati insediamenti per migliaia di persone: 2.700 al Gallaratese, quasi 13.000 allo Zen. Soltanto in alcune città di provincia movimenti cooperativi costruivano quartieri di edilizia estensiva costituita da villette unifamiliari poste in lottizzazioni a scacchiera (l’esempio più rilevante è forse l’operato della Cooperativa La Famiglia di Brescia, con i suoi numerosi quartieri satellite attorno alla città). In nome di una salvaguardia dell’individuo contro l’anonimato della città a cui erano sottesi valori etici e gli emigrati dalla campagna vivevano in rioni di villette con un fazzoletto di terra attorno.
In questa stagione l’Europa e il mondo intero hanno guardato alla cultura architettonica e urbanistica italiana come al fronte avanzato della ricerca sulla città. Si tratta di interventi pensati e progettati da architetti al centro del dibattito architettonico come Luigi Carlo Daneri, Carlo Aymonino, Aldo Rossi, Francesco di Salvo, Vittorio Gregotti, Franco Purini, Mario Fiorentino. Nel momento in cui i cantieri partono e si realizzano, non sono ancora emerse le contraddizioni nel modello di sviluppo finora seguito: crisi energetica, austerity, questione ambientale sono ancora parole sconosciute.
Le realizzazioni risentono di questo clima da grande euforia collettiva, che attraversa anche l’architettura, dove grandi risorse pubbliche permettono la realizzazione di opere rilevanti in città assolutamente impreparate ad accogliere un afflusso massiccio di persone provenienti dalle aree rurali e dal Sud. A Genova e Torino, immigrati vivevano nelle baracche di cantieri, in scantinati, solai, edifici bombardati destinati a demolizione, cascine abbandonate, in condizioni estremamente precarie; a Milano si verificò il fenomeno delle “coree”, gruppi di case edificate di notte, senza alcun permesso urbanistico, su terreni agricoli. Sono gli anni, della grande “speculazione edilizia” che investe non solo le coste, per la costruzione di seconde case, ma anche l’edilizia residenziale, specie a Roma dove nel 1970, una casa su sei era abusiva e 400.000 persone vivevano in abitazioni che ufficialmente non esistevano.
La casa in Italia più che un bene primario era (ed è) tradizionalmente considerata parte integrante del nucleo familiare e per le persone semplici lavoratrici era motivo di orgoglio poter abitare in appartamento. La contrapposizione tra il vivere “rurale” e il vivere “cittadino” era oggetto di una discussione portata alla ribalta da canzoni di musica leggera come “il ragazzo della via Gluck” che ormai si andava spegnendo avendo la tipologia plurifamiliare il sopravvento, sia per motivi prettamente pratici di spazio, sia perchè materializzava il mito della modernità, dell’esaltazione delle nuove conquiste della tecnica.
Le realizzazioni menzionate si pongono dunque da un lato, come un invito a pensare nuove, più adeguate configurazioni spaziali per la società contemporanea, dall’altro lato tendono a dare una soluzione reale, pragmatica e legale al problema della casa. Oggi i nomi di questi quartieri godono di cattiva fama, si tratta di parti di città degradate, invivibili, stigmatizzate come da evitare, ove si concentrano (o si sono concentrati) fenomeni di marginalità e disagio, ma si tratta di realizzazioni oggi impensabili per impegno finanziario, culturale e progettuale.
Gli interventi che qui si propongono, hanno il merito, fra gli altri, di richiamare un dibattito ormai inesistente sui quartieri di edilizia residenziale pubblica, soprattutto oggi, alla fine di un decennio che ha profondamente modificato la natura del mercato immobiliare e della produzione abitativa e ci troviamo di fronte ad una crisi profonda che investe i meccanismi finanziari dei beni immobili; un decennio, inoltre, in cui la crescita dei prezzi e dei canoni locativi degli immobili a destinazione residenziale è stata particolarmente sostenuta.
A fronte di questo scenario e del contestuale trasferimento delle competenze dallo stato alle regioni e ai comuni, alcune città hanno iniziato a predisporre una serie di strumenti a sostegno dell’offerta di abitazioni. Nel corso degli anni Novanta e del primo decennio degli anni duemila, l’offerta abitativa pubblica è notevolmente diminuita e l’emergenza abitativa è divenuta un fenomeno più articolato e complesso. Nonostante qualche recupero degli ultimi tempi, manca ancora un discorso pubblico complessivo sul problema della casa che definisca il problema come una priorità politica e sociale, costituisca il quadro di riferimento capace di canalizzare risorse e di sollecitare l’azione di soggetti diversi verso finalità ed obiettivi comuni, caratteri che invece sono chiaramente rintracciabili e identificabili nella stagione degli anni Sessanta.
Francesco Gastaldi è ricercatore in Urbanistica, Università IUAV,Venezia