Paolo Berdini_La comunità di Olivetti
Quando Adriano Olivetti decide di realizzare un nuovo stabilimento di produzione a Pozzuoli, affida il progetto al grande architetto e intellettuale napoletano Luigi Cosenza a cui chiede che siano create ampie finestre verso il mare e verso il parco (che verrà progettato da Pietro Porcinai) così da rendere più gradevole e bello il luogo di lavoro. Era il 1955 e in quel periodo le fabbriche erano rigorosamente chiuse verso l’esterno. Piccoli fortilizi che giravano le spalle alla città. Olivetti afferma invece che la fabbrica deve dialogare con la natura e il paesaggio. Questa attenzione al luogo in cui vivono per molte ore al giorno i lavoratori non è né l’unica né la più importante novità che introduce nel panorama culturale italiano.
L’ambiente in cui si forma Olivetti, il padre ebreo e la madre valdese, gli consente di costruire una visione del mondo complessa e originale. Afferma che la vita produttiva è soltanto uno degli aspetti della persona umana. Un altro, fondamentale, è quello relativo agli ideali spirituali e alla crescita culturale. I due aspetti devono, sono sue parole, riunificarsi nel progetto di società futura che ha in mente, e cioè nel modello comunitario che si organizza dal basso. Nel pensiero olivettiano, la città è la proiezione fuori delle mura dei luoghi di lavoro: la qualità degli spazi pubblici e dei servizi serve a favorire l’evoluzione della coscienza civile degli abitanti. Se dunque, come nel caso di Pozzuoli, Olivetti pone grande attenzione alla qualità dei luoghi del lavoro, ben maggiore energia dedica nella sua vita ad affermare l’esigenza di creare città vivibili in grado di facilitare “l’autoaffermazione della persona”.
Il suo impegno per diffondere la pianificazione del territorio e delle città non è pertanto un fatto tecnico: deriva dalla consapevolezza che soltanto con scelte complesse e condivise si possono creare luoghi armonici in cui vivere bene. La pianificazione è il metodo con cui gli interessi della comunità possono prevalere sul dominio dei pochi proprietari degli immobili: l’interesse e il profitto non sono i soli orizzonti da perseguire. E’ per questa profonda convinzione che Olivetti incarica i grandi nomi dell’architettura razionalista italiana (BBPR, Bottoni, Figini e Pollini) di redigere nel 1936 il Piano territoriale della Valle d’Aosta di cui il canavese faceva parte e negli anni che vanno dal 1947 al 1950 la redazione del piano regolatore di Ivrea. Negli anni ‘50 assume la direzione di Urbanistica, l’autorevole periodico dell’Istituto nazionale di urbanistica e poi la presidenza stessa dell’istituto. Un impegno che tenta di legare le esperienze pratiche –coronate da insuccessi perché la prima verrà accantonata dal regime fascista e la seconda bocciata dal consiglio comunale di Ivrea- alla riflessione teorica e alla redazione di proposte di riforma urbanistica. In quegli anni l’Italia vive il suo periodo più fecondo di riforme in questo campo, dal decreto ministeriale sul diritto agli spazi pubblici, alla legge ponte che salvaguarderà i centri antichi fino alla legge Bucalossi che nel 1977 tenterà di rendere l’urbanistica una prassi normale in ogni città italiana. L’Inu vive la sua fase più feconda diretto da Giovanni Astengo e Edoardo Detti che aveva lavorato come assessore nella Firenze di Giorgio La Pira.
Il decreto sugli spazi pubblici risale al 1968, ed è indubbio che il lavoro dei tecnici del ministero dei Lavori pubblici allora guidato da Giacomo Mancini trasse ispirazione dalle esperienze di Ivrea, dove la politica dell’azienda favorì l’apertura di una estesa serie di servizi sociali che non ha uguali con nessuna altra città italiana di quel periodo. La scuola materna, il doposcuola, i centri culturali, la biblioteca i servizi sanitari integrativi. Tutti edifici, come noto, firmati da grandi architetti.
Nel pensiero olivettiano, poi, le città non devono distruggere lo spazio naturale che le circonda, ma vivere in equilibrio e rispetto della natura. E’ noto ad esempio che l’obiettivo di contenere la crescita urbana di Ivrea -che pure sarebbe potuta diventare una città di più ampie dimensioni demografiche in relazione alla dimensione del numero dei lavoratori impiegati nell’azienda- fu risolta con una intelligente politica dei trasporti. A questa scelta illuminata si deve la preservazione della bellezza del canavese. E per sottolineare l’importanza del suo pensiero nei decenni successivi alla sua morte, la lettura della città come organismo complesso verrà ripresa da Antonio Cederna che nei suoi scritti affermerà “che il compito della pianificazione è quello della tutela dell’identità culturale e dell’equilibrio naturale dei luoghi”.
Questo binomio fu posto da Gigi Scano alla base di una proposta di legge di riforma urbanistica promossa dagli urbanisti che collaborano al sito www.eddyburg.it fondato da Edoardo Salzano, presidente dell’Inu negli anni ’80. A distanza di cinquant’anni dalla morte di Olivetti sembra inevitabile dover prendere atto di un sostanziale fallimento del disegno urbanistico olivettiano. Lo dimostrano almeno tre elementi. Il primo è il generale trionfo della cultura della cancellazione delle regole urbanistiche in atto da almeno venti anni e concretizzatosi nella legge di cui è primo firmatario l’on. Lupi (pdl), che cancella gli standard e –per molti versi- la stessa pianificazione urbanistica.
Il secondo è quello della sostituzione della prassi complessa della pianificazione con una serie di progetti tra loro scoordinati ed approvati con deroghe mediante “l’accordo di programma”. Il terzo è infine relativo allo ruolo dell’Istituto nazionale di urbanistica che in anni recenti ha privilegiato eventi che vanno sotto il nome di Urbanpromo, mentre Olivetti stesso metteva in guardia dal privilegiare le mere ragioni del profitto. In questi anni di liberismo selvaggio è stata oggettivamente sconfitta la cultura della pianificazione.
Ma questo giudizio negativo è profondamente sbagliato per almeno tre ordini di considerazioni che partono proprio dalla città di Ivrea. Uno dei pilastri del pensiero olivettiano è l’idea “dell’impresa responsabile” che privilegia una sistematica opera di formazione dei tecnici e dei lavoratori. Questa straordinaria scuola, è lunga la lista degli intellettuali che hanno lavorato a Ivrea- ha lasciato un vasto tessuto di conoscenze ed esperienze che permette ad Ivrea di continuare di guardare al futuro anche in questo momento di crisi. Mentre a livello nazionale si persegue una sistematica demolizione della scuola pubblica e dell’università e della ricerca, nella capitale del canavese continua a vivere una cultura straordinaria. Lettera 22 è come noto esposta al Modern art di New York: un piccolo punto della periferia del mondo è diventato centrale proprio grazie alla qualità del lavoro di una comunità.
Il secondo motivo di ottimismo riguarda la qualità dello spazio fisico di relazione della città di Ivrea in cui il grande patrimonio di interventi dei decenni olivettiani continua a produrre idee feconde di riuso, di nuova utilizzazione pubblica, come ad esempio il museo all’aperto. Si continua cioè a stratificare e perfezionare la struttura urbana formata in quegli anni lontani. Altre città, lasciate ad una disordinata crescita speculativa pagano oggi un prezzo altissimo per la oggettiva contrazione dei servizi pubblici. I luoghi pensati e pianificati affrontano meglio i momenti di crisi salvaguardando la qualità della vita. Un modello per l’Italia.
Il terzo è infine relativo alla dimensione urbana di Ivrea, una dimensione che ha permesso di mantenere identità e comunità. Stiamo vivendo una evidente crisi dei grandi aggregati urbani in termini di convivenza civile e in termini di gravi livelli di inquinamento ambientale. Il sogno olivettiano della piccola comunità favorisce invece quelle integrazioni di funzioni produttive, agricole e ambientali oggi indispensabili per gettare le basi per una nuova fase di sviluppo fondato sulla cultura dell’inclusione. Sono certo in questo senso, e vorrei concludere con una visione augurale, che Ivrea sarà inserita nel patrimonio culturale tutelato dall’Unesco. Sarà un evento di portata straordinaria. A parte infatti alcune meravigliose città del rinascimento (Ferrara, Pienza, Mantova e Sabbioneta) l’orologio delle nostre città tutelate si ferma a Crespi D’Adda e cioè ai decenni a cavallo dell’ottocento. La declaratoria dei motivi della protezione parla esplicitamente di “company town”, di città nata per volontà di imprenditori illuminati.
Ivrea sarebbe invece il primo esempio di una città preesistente rimodellata e reinventata secondo paradigmi moderni del periodo industriale e attuati nel rispetto della sua storia e della sua natura. Una città che ha messo al centro la dignità del lavoro e delle persone e ha favorito la diffusione della cultura. Una città inclusiva dunque, un esempio straordinariamente attuale che potrà ancora portare grandi frutti nel futuro dell’Italia. Un modello del tutto simile a quello di Ferrara che attualizzò il vecchio centro medievale in una ampia visione rinascimentale. E se in quel luogo era comunque il “principe” che plasmava la città secondo i suoi desideri, nel caso di Ivrea le trasformazioni hanno riguardato una popolazione intera, mettendo in moto un grande processo di evoluzione sociale e di inclusione. Ulteriore conferma dell’importanza di uomini come Adriano Olivetti che hanno saputo svolgere fini in fondo il ruolo di classe dirigente di cui oggi si sente un assoluto bisogno.
Paolo Berdini è docente di Urbanistica presso la Facoltà di Ingegneria di Roma Tor Vergata. Ha pubblicato per Donzelli il libro “La città in vendita. Centri storici e mercato senza regole“