Alessandro Bianchi_Cuba, le idee muoiono d’inedia
Biblioteche ovunque, come le facce di Fidel e del Che. La medicina? Superlativa. Eppoi? Le idee, le idee e ancora le idee. Ovunque, sono sbattute ovunque scritte sulle idee: sui muri delle case, nei cartelloni pubblicitari (ops!,“comunicazione sociale”, la pubblicità commerciale è proibita), sulle magliette, nelle cartoline, agli ingressi dei negozi… ovunque, tranne che sulla faccia della gente, del pueblo de Cuba. Quelle facce sono esauste delle idee, non ne parlano, gli viene il vomito: vogliono altro, avere una vita normale. Ora hanno scoperto che è possibile – una vita normale – da quando Fidel Castro ha aperto le frontiere ai viaggiatori di tutto il mondo per compensare economicamente la caduta dei rapporti commerciali con l’Unione Sovietica, nel 1991. Hanno parlato con i “turisti” di
tutto il mondo e hanno capito che la loro non era una vita normale, ma una sorta di materializzazione terrestre di un mondo delle idee di matrice platoniana. Ma come – si saranno chiesti i più giovani, coloro che sono nati dopo il 1959, anno della vittoria della Revolution socialista – non ci avevano detto che questo è il paradiso, che solo qui conta l’uomo, che l’Impero americano è corrotto e degradato e che la vita è vita solo qui? Non ci avevano detto socialismo o muerte, hasta la vittoria siempre, unità e solidarietà nel lavoro? Perché allora permettono all’Occidente di entrarci nel
ventre seminando germi di morte e di corruzione morale? Perché il turista ci racconta di non stare così male a casa sua, che la povertà nel suo Paese non raggiunge soglie superiori al 10% della popolazione, che lo stato è stato sociale anche da loro? Allora Fidel, che succede alla Rivoluzione?
E intanto la polizia aumenta, i soldati aumentano: i salari sono fermi ad una media di 10-15 dollari al mese, ma i controllori sono diventati la metà dei controllati. Ci ricorda qualcosa questa depressione/progressione di valori sociali, sulla sponda opposta del nostro mare Adriatico?
All’Havana, ci rammenta uno studente universitario della capitale, ci sono tre milioni di abitanti, di cui uno è nella polizia o nell’esercito. 1 poliziotto ogni 2 cittadini: non è paradossale, è parossistico, una barzelletta! Perché tanto controllo quando il paese è così civilizzato e tranquillo?
Fidel pubblica sull’unico quotidiano nazionale, il Granma (otto pagine in tutto, di politica, politica ed ancora politica), un editoriale alla settimana con cui se la prende sistematicamente con los Estados Unidos, suo nemico giurato. Ma la gente, cosa dice? Che il bloqueo – l’embargo – è lo strumento propagandistico del governo cubano per difendersi dall’accusa di aver impoverito un popolo laborioso, per difendere la corruzione di alcuni ministri con il conto corrente nelle banche spagnole, per difendere l’ormai indifendibile sistema marxista-leninista. Non una persona con la quale abbiamo parlato (e abbiamo risieduto per un mese solo presso famiglie cubane, dando passaggi in auto ad almeno cinquanta persone di cultura ed estrazione diverse), non una dico, se l’è presa con gli Stati Uniti per la situazione economica in cui versa il Paese: il problema, dicono tutti, è del Gobierno de Cuba che da cinquant’anni è arroccato su posizioni insostenibili.
Un detto locale recita: due fidanzati con il naso grosso non riescono a baciarsi; così sono Cuba e gli Stati Uniti, entrambi orgogliosi e senza la capacità di perdonare gli errori reciproci.
Il Paese in cui tutto è illegale, sta degenerando nelle viscere: donne costrette – bene o male – a prostituirsi, uomini ubriachi sin dalle prime ore del giorno. Anche questo fatto, non ci ricorda qualcosa di già avvenuto nei paesi dell’Est Europa?
Per contro, Cuba è unica al mondo per la conservazione del proprio patrimonio architettonico. Le guerre per l’indipendenza dai colonizzatori spagnoli, francesi e inglesi, e la successiva presa comunista del Paese non hanno prodotto devastazione: le città sono integre, certo un po’ invecchiate e poco mantenute, ma ciò che c’era c’è. Tanto è vero che l’Unesco ha dichiarato “patrimonio dell’umanità” i centri storici di quattro città cubane: Habana veja, Cienfuegos, Trinidad, Camagüey, oltre ad altre ricchezze paesaggistiche e naturalistiche come la valle di Viñales, il
parco nazionale sbarco del Granma, il paesaggio archeologico delle prime piantagioni di caffè nel sud-est di Cuba, il parco nazionale Alejandro de Humboldt; e infine il Castello di San Pedro de la Roca a Santiago di Cuba. ll partito, in questi 50 anni di Rivoluzione, appare non essersi curato troppo di questo patrimonio (escludendo i restauri in corso e già completati nelle città testé menzionate divenute patrimonio dell’Unesco) ma nel contempo non ha prodotto mostruosi edifici nei centri abitati con sostituzioni orribili di pezzi di contesto urbano (pensiamo a ciò che è successo nei paesi dell’Est Europa, a partire da Berlino, e in Cina). Anzi ha realizzato simpatici complessi futuristici in piena
campagna o in riva al mare, dalle forme cuspidate e colorate, atti ad ospitare comunità di “uomini nuovi” come voleva Che Guevara. Ora purtroppo hanno perso il loro fascino giovanilistico – credo che l’ultimo edificio pubblico a Cuba sia stato fatto vent’anni fa, quando ancora la CCCP finanziava i vari progetti infrastrutturali e residenziali – ma hanno conservato l’ingenuità e insieme la spregiudicatezza architettonica di una volontà tutta proiettata al sogno.
La città dell’Havana ha un’estensione notevolissima, con edifici di assoluto pregio che ricoprono chilometri e chilometri del malecon (il lungomare). Dal centro storico fino a Miramar, la linea costiera dell’Havana è un susseguirsi di architetture coloniali e post-coloniali, con picchi di eccellenza rappresentati dalle meravigliose ville dei primi del novecento, costruite dai dignitari locali (foraggiati dagli statunitensi?). Essì perché gli USA, prima di Fidel Castro, praticamente possedevano l’isola con centinaia di imprese che producevano e commercializzavano canna da zucchero, caffè, tabacco, rum, ecc. in tutto il mondo… poi è arrivato Fidel, appunto, che per mano del suo Ministro dell’Industria – indovinate un po’ chi fosse fino al 1966, data della sua morte in Bolivia?
Un tale di nome Ernesto Che Guevara… – le ha nazionalizzate tutte, una a una, a blocchi di qualche centinaia. Ora, si capisce, l’America non ci sta, e passo dopo passo, di crisi in crisi (dalla “baia dei porci” alla “crisi dei missili”, quest’ultima ha fatto sfiorare al mondo la terza guerra mondiale, sotto la presidenza Kennedy del 1961-62) i rapporti fra Cuba e Stati Uniti vanno in pezzi. E’ vero anche che la Cuba di Batista, il dittatore imposto dagli USA e dalla mafia, che governava Cuba prima della Rivoluzione, non fosse proprio una società benefica e filantropa, e che tali imprese
avevano “forse” qualche piccolo vantaggio di ordine istituzionale; si insomma, molte imprese erano americane perché il governo fantoccio cubano favoriva i rapporti commerciali con gli Stati Uniti. Tant’è: certo che se si torna indietro alla notte dei tempi con queste analisi – cosa era di chi, chi ne ha diritto ora, ecc. ecc. – non se ne caverebbe un ragno da un buco, e ne sono testimoni tanti conflitti nel mondo, ad iniziare da quello fra Palestinesi ed Israeliani.
Una riflessione ulteriore che mi sembra importante, e riguarda un pregiudizio. Prima di partire mi ero fatto l’idea che avrei visto un Paese simile, per architettura e cultura, a quelli della cortina di ferro, alla Germania Est, alla Polonia o all’Ungheria. Stessi edifici mal progettati letteralmente “buttati” all’interno del tessuto storico o smarginati in campagna a formare periferie deprimenti. Ambienti interni molto freddi e male organizzati, con una malinconia di fondo propria dei paesi autoritari. Con mia grande sorpresa mi sono dovuto ricredere. Il sole tropicale e una radicata cultura musicale
hanno cucinato un comunismo dalla faccia più accogliente, meno rigorosa, più domestica. La stessa propaganda politica che si manifesta in ogni luogo, in particolare lungo le vie di accesso alle città ed ai villaggi, è stata rappresentata con una grafica del tutto autonoma, che ha conciliato il marxismo-leninismo con una matrice locale fatta di ruralità e buonumore. Quasi mai il regime si rappresenta con delle fotografie di persone e di cose, piuttosto con dei disegni che esprimono la fisionomia di eroi che potrebbero essere dei vicini di casa o dei contadini intenti ad impartire ordini gutturali a dei buoi (certo con il mitra in spalla!). Colori vivi, primari, gesti semplici, barbone lunghe o baffi scolpiti
su volti alla Tex Willer, sono parte del paesaggio stradale cubano e dei muri delle case; mai un commento da parte di qualcuno, probabilmente a loro fanno lo stesso effetto della pubblicità commerciale per noi, acqua fresca! Questa grafica elementare ha ingentilito il volto del regime e lo ha avvicinato ai cubani, facendolo immedesimare nei sogni nazionali di un popolo che oggi appare molto differente, nei modi e nei costumi estremamente civilizzati, dai cugini dell’America Latina.
In ultimo, parliamo di natura. Già in un precedente mio articolo ho analizzato l’autorità della Natura del continente americano (“America! Nord e Sud. Architettura vs Natura”, pubblicato su queste colonne qualche anno fa). Nel nord America, negli Stati Uniti, le città diventano “schegge tecnologiche” che presidiano il territorio, nel sud America, in Brasile, le città si devono difendere dalla rapacità di una natura violentemente rigogliosa. Qui, a Cuba, la natura è civile come i suoi cittadini. Si presenta con delicatezza, come nella valle di Viñales, con armonia e regolarità geometrica, per esempio come nelle piantagioni di Santiago de Cuba. E’ una natura tropicale che nasce naturalmente controllata, e che le imprese statali agropecuarie hanno contribuito ad antropizzare; le palme segnano il ritmo e misurano il territorio, oltre ad esotizzare un panorama che, soprattutto in collina, ha scorci di una bellezza rasserenante. Solo gli uragani riescono a sconvolgere questo ecosistema così ben regolato; la loro frequenza nel periodo tardo estivo è diventata ormai una ricorrenza abituale, e come tale non si potrà più parlare di eventi occasionali ma di protagonisti dell’ambiente umano e naturale cubano e caraibico.
Forse è da essi - dal minacciato cambiamento del clima - che potrà nascere un argomento comune fra due nasoni non disposti a baciarsi; come sempre occorre arrivare sulla soglia di una catastrofe mondiale per ricominciare a dialogare, forse un fenomeno così lontano e diverso dal “mondo delle idee” (e delle ideologie) potrà riconciliare due universi così testardamente auto-dichiaratisi antitetici.
Le fotografie sono di Linda Spada