Umberto Cao_Walter Gropius:la casa per tutti
Se esiste ed esiste una dimensione “politica” dell’architettura, e cioè fortemente collegata alle istanze sociali e alle risposte del potere economico e politico, questa è leggibile attraverso le vicende che in Europa, nell’ultimo secolo, hanno scosso il problema della casa di abitazione: dalle case di affitto realizzate all’inizio del novecento nelle città europee ad opera delle prime società immobiliari, alla tensione socialista degli architetti del movimento moderno negli anni venti e trenta, alle periferie costruite negli anni precedenti la seconda guerra mondiale (di qualità in Olanda e nei Paesi scandinavi, di quantità in Francia, di segregazione in Germania, di emarginazione in Italia), al Piano INA-casa degli anni cinquanta in Italia, alle speculazioni edilizie degli anni del boom edilizio, ai nuovi quartieri di case popolari tra gli anni settanta e ottanta, sino al ritorno ad una dimensione individuale determinata dalle spinte di un mercato edilizio che oggi rifugge, soprattutto in Italia, da qualunque regola di carattere etico-sociale.
In questa lunga storia c’è stato però un momento nel quale il problema della casa è stato completamente ridefinito rispetto al passato: in poco più di 10 anni, in Germania tra il 1920 e il 1930, è stato sottratto alle logiche dello sviluppo urbano ottocentesco e rifondato a partire dai suoi presupposti sociali, con una straordinaria sperimentazione sul piano tipologico e figurativo, che avrebbe rinnovato il tema dell’abitare, molto più di quanto sarebbe stato realizzato negli ottanta anni successivi. Non è un caso che tutto partisse subito dopo la fondazione della Bauhaus, la Scuola che il trentaseienne Walter Gropius fondava a Weimar nel 1919, unificando due diversi istituti di istruzione tecnico-artistica. Nella cupa Germania del primo dopoguerra, Gropius fu portatore di un pragmatismo razionale che in breve sarebbe diventato la componente fondamentale di una rivoluzione di pensiero tutt’altro che ideologica, anzi profondamente borghese, portatrice di una consapevole e profetica solidarietà tra cultura e tecnica, tra creazione artistica e mondo del lavoro. Gropius, insieme ad Alexander Klein, rappresentò la componente più estrema di una razionalizzazione del processo edilizio che aveva come fine il “Minimalwohnung”, e cioè l’alloggio minimo. In uno scritto del ’29 il maestro berlinese ci spiega che questo concetto non vuole proporre il minimo per la sopravvivenza, bensì il massimo della qualità della vita compatibile per tutti (oggi diremmo “sostenibile”), ovvero “trovare le condizioni di spazio, di aria, di luce e di calore affinché il lavoratore e la sua famiglia potessero vivere al meglio, senza limitazioni o disagi” e senza danno per altri.
Seguendo l’insegnamento di Gropius, altri architetti, anche di diversa ispirazione figurativa, svilupparono in quegli anni una enorme quantità di studi sulla casa popolare, sia nella dimensione dell’alloggio che in quella dell’insediamento e del quartiere, privilegiando all’inizio la piccola dimensione (case a schiera di due piani, case ad appartamenti in linea di quattro piani) e, solo successivamente, dopo la crisi economica del ’29, case alte a torre. Queste esperienze portarono a ridisegnare completamente le periferie di molte città tedesche per poi svilupparsi in tutta Europa. Ma la novità più evidente fu la reinvenzione spaziale del concetto di alloggio che partiva dallo studio analitico, quasi maniacale, dei comportamenti e delle abitudini dell’uomo moderno. Pensate come erano state sino ad allora le case di tradizione ottocentesca: blocchi affacciati su cortili e illuminati spesso da chiostrine, grandi ingressi, corridoi, camere tutte uguali che spesso comunicavano l’una dentro l’altra, pochi spazi di servizio, piccoli balconi. L’architettura razionale invece considerò prioritaria l’esposizione ed il soleggiamento, propose spazi dimensionati secondo necessità, ridusse al minimo ingressi e corridoi, inventò il concetto, oggi abituale, di “soggiorno passante”, raddoppiò i servizi, propose logge e terrazze. Tutte cose che oggi sembrano scontate.
Ma l’architetto razionale andava oltre, si concentrava sulla pianta tipo dell’alloggio, ritenendo inutili le variazioni di forma e semmai proponendo flessibilità e ampli abilità secondo la numerosità del nucleo familiare; le dimensioni della cucina erano studiate secondo i moduli delle attrezzature di produzione industriale (lavello, macchina per cucinare, altri elettrodomestici), molti arredi erano forniti insieme alla costruzione, ebbe origine il concetto di “parete attrezzata”. Era una visione rigida, che negava ogni spreco, ogni inutile variazione, ogni casualità, perché, scriveva Gropius, “la maggior parte degli individui ha bisogni simili; è perciò logico e conforme alle esigenze dell’economia che questi bisogni simili vengano soddisfatti in modo unitario, non c’è alcuna giustificazione al fatto che ogni casa abbia una pianta diversa…”. Eppure Gropius, come detto, non era impegnato in politica, anzi i metodi e le finalità della sua Bauhaus lo misero spesso in conflitto sia con la sinistra che con la destra, anche se, più tardi, il Nazismo lo avrebbe obbligato a fuggire all’estero. Più che un obiettivo socialista, la “casa per tutti” era un convincimento culturale che non poneva fratture tra arte e tecnica e tra questa e il sociale; era la naturale conclusione di una vocazione maieutica che travalicava i limiti della “scuola” proponendosi come profezia della condizione metropolitana moderna. Eppure le case di Gropius e dei suoi allievi erano giuste, ma non erano belle. Meno belle, ad esempio, di quelle realizzate negli stessi anni da Bruno Taut a Berlino o da Ernst May a Francoforte, ancora oggi apprezzabili per la condizione insediativa ed ambientale di grande qualità nelle sempre più difficili periferie contemporanee.
Lo slogan di oggi sembra diverso: non più la “casa per tutti” secondo i propri bisogni, bensì la “casa per ciascuno” secondo i propri desideri. E la deriva è tenuta da un mercato che scalpita, stretto tra i vincoli normativi, la scarsità di suolo libero e l’incertezza di una domanda strozzata dalle nuove povertà.
Sono passati quasi cento anni. Le sperimentazioni di Gropius e degli altri maestri del movimento moderno sulla prefabbricazione e l’industrializzazione della casa in serie, sembrano oggi maldestri tentativi per rinnovare una industria edilizia allora ancora fondata sul piccone e la carriola. Perché oggi le macchine a controllo numerico costruiscono le carpenterie di costruzioni che sfidano le leggi di gravità, perchè non esistono più limiti nell’impiego di materiali e di soluzioni formali innovative. Pensate cosa potrebbero essere le piante semplici e nitide delle case a schiera o in linea di Gropius realizzate con le tecnologie di oggi; come potrebbe essere razionalizzata l’idea della “flessibilità” e della “ampliabilità” senza bisogno di ricorrere ad invenzioni stravaganti che lasciano all’arbitrio individuale il pericoloso compito di modificare la forma e i carichi delle costruzioni esistenti; come potrebbero realmente essere accelerati i tempi di costruzione di alloggi popolari, ed abbattuti i costi realizzando non le “villes nouvelles”, ma le “case per tutti” senza attendere la tragedia di un terremoto.
La stessa versione è stata pubblicata sul quotidiano L’Altro