Umberto Cao_L’architettura è potere?
Ambrogio Lorenzetti, Allegoria del Buon e Cattivo Governo
La comunità architettonica italiana – se così è giusto chiamarla – è oggi al centro delle attenzioni dei media non più per il successo delle opere progettate e realizzate dagli architetti, ma per i preoccupanti segnali di sintonia con il degrado della politica e con i segnali di malaffare che invadono tutti i livelli del potere. D’altra parte un paese che affida la carica di primo ministro all’uomo più ricco e compromesso d’Italia e al suo “partito azienda” non poteva che identificarsi in una dimensione civile fondata sull’individualismo e sulla sopraffazione, completamente estranea ad ogni ragione etica.
Questi segnali riguardano l’intero campo dell’Architettura, quello professionale come quello universitario. I concorsi, per l’assegnazione degli incarichi nel primo caso, e per il reclutamento dei docenti di ruolo nel secondo caso, appaiono gestiti in modo personalistico se non addirittura illegale. Un fenomeno nuovo? Assolutamente no, è stata una pratica sempre accettata, accompagnata dal facile slogan “lo fanno gli altri, io lo devo fare per difendermi”.
Intendiamoci: portare a compimento una valutazione concorsuale non è un mestiere facile ed in tanti casi il risultato non premia i migliori. Vale per gli altri campi della cultura, da quello letterario a quello cinematografico, da quello artistico a quello musicale. Solo che in questi casi possono sbagliare le persone incaricate del giudizio, e comunque possono avere interessi marginali o legami occasionali. Quello che preoccupa nel caso dell’architettura è che il malaffare diventa sistema.
Per quanto riguarda i concorsi di progettazione si possono trovare soluzioni: ad esempio non consentire che chi partecipa ad una commissione di giudizio possa per due o tre anni partecipare come candidato a competizioni concorsuali (vedrete come passerà l’entusiasmo per la carica di commissario!); vigilare meglio sui rapporti professionali (o di amicizia o di parentela o di relazione accademica) in atto o intercorsi tra giurati o candidati; definire criteri certi per la compatibilità tra professione e docenza; cercare di favorire i giovani e i talenti meno accreditati. Altre se ne potrebbero trovare per i concorsi universitari: mettere in atto la riforma della Moratti che prevedeva una idoneità nazionale e quindi la libera scelta degli Atenei; va bene l’estrazione e sorte dei commissari, credo meno al coinvolgimento di commissari stranieri; distinguere tra “reclutamento di nuovi docenti” e “progressioni di carriera”.
Ma la soluzione del “problema morale” non può rimanere in ambito esclusivamente normativo e tecnico. Riguarda anche i contenuti di un mestiere che negli ultimi anni è cambiato radicalmente: non più camici bianchi al tecnigrafo, ma studi-azienda che hanno bisogno di risorse e investimenti; non più una disciplina governata da regole e statuti, ma una pratica creativa fondata sulla fantasia e sulla comunicazione; non più il progetto lento e meditato costruito su fondamenti rigorosi, ma la risposta veloce e immediata costruita sul concept e sul mercato.
E’ necessario tornare al pensiero teorico, restituendo senso politico al progetto di architettura. E’ un problema di contenuti. Se è vero che non è possibile oggi ridefinire l’architettura come “disciplina”, si può invece ragionare sul “senso” dell’opera di Architettura, definito da un asse concettuale teso in una direzione e da un verso che ne definisce il programma. Insieme a Franco Purini penso anche io che oggi la ricerca architettonica sia vittima di un doppio equivoco: da una parte non è più sospinta da avanguardie oppositive al pensiero dominante (come lo era nei primi decenni del Novecento), ma da gruppi che si allineano alle novità per gestirle; dall’altra questa ricerca tende a “militarizzare” la dialettica, aprendo confronti per affermare supremazie e non per costruire un pensiero forte. Così si formano lobbies e non linee di ricerca. Lo scontro allora resta tale e non comporta risultati tangibili.
Dobbiamo invece risolvere ancora molte questioni: il carattere”scientifico” della ricerca architettonica e, all’opposto, il dubbio se il progetto abbia o meno la valenza di ricerca; il rapporto tra tradizione e modernità, quasi abbandonato dopo l’overdose degli anni settanta; la definizione e lo studio del paesaggio, sempre più spesso delegato ad ambientalisti di altre discipline; il rapporto tra urbanistica ed architettura; il rapporto tra ingegneria ed architettura; il rapporto tra arte ed architettura; il senso dell’insegnamento in un paese che conta già 140.000 architetti e la difficoltà nel transito alla professione considerata una “cosa diversa”: è forse normale che oltre il 50% dei laureati candidati all’esame di stato venga respinto?
E’ancora valida l’affermazione che Hannes Meier fece avendo concluso sia l’esperienza alla direzione del Bauhaus che quella più politica nella Russia sovietica: “L’architetto è stato sempre intimamente legato al suo contesto sociale. Egli è uno degli strumenti umani posti al servizio del potere dominante, ha il mandato di consolidare le posizioni. L’architettura, oltre ad assolvere ad una sua diretta funzione, ha sempre avuto il compito di mantenere il potere … L’architettura non è un fatto autonomo, come certe prime donne del disegno ci vogliono far credere; l’architettura nasce e si forma nel grembo della società, è il prodotto di una età specifica, di un epoca definita.” Serve un pensiero che non si fermi alla descrizione/interpretazione dell’opera costruita ma la elabori criticamente come progetto sociale, ne proietti il significato nel tempo, ne valuti il potenziale di adattamento/modificazione rispetto all’ambiente. Opere di architettura di altissima qualità, come Corviale a Roma, le Vele a Napoli e lo Zen a Palermo, sono state causa di degrado e malessere perché la politica non era in sintonia con il pensiero che le aveva generate, o forse perché l’architetto non si era calato nella realtà politica. Si dice che l’Architettura sbagliata è talvolta la causa di dissesti sociali. Ma è possibile il contrario? Può la giusta Architettura essere lo strumento di un nuovo assetto sociale? Può l’Architettura tornare ad essere “politica”? Tornare ad essere non vassalla del potere, ma essa stessa “potere”?
Non credete che rispondere a queste domande possa significare anche rifondare l’etica del nostro mestiere?
Umberto Cao, architetto, è Preside della Facoltà di Architettura di Ascoli Piceno dell’Università di Camerino