Le Corbusier a Nantes
In occasione dell’anniversario della nascita di Le Corbusier il 6 ottobre 1887, Archphoto dedica un approfondimento all’Unité d’habitation di Nantes, realizzata nel 1955 dal maestro svizzero nel sobborgo di Rezé.
Spazi ampi e confortevoli, luce naturale, vista panoramica: insomma ciò che banalmente definiamo “qualità della vita”. Così si presenta l’appartamento che Patricia Aldebert, una giovane mamma di origine maghrebina, separata con due figli, mi fa visitare appena arrivo a Rezé, quasi mi aspettasse all’ingresso dell’Unité d’habitation. Appena ho tirato fuori l’Hasselblad per fotografare si è avvicinata per raccontarmi la storia dell’edificio invitandomi a seguirla, con i due figli scalmanati, a visitare il suo appartamento. Un grande disordine multicolore mi ha accolto nella casa rimasta inalterata nella disposizione interna, dimostrando quanto sia ancora attuale il modello residenziale pensato da Le Corbusier. E’ il 1955 quando a Rezé, sobborgo di Nantes sulla sponda sinistra della Loira, oggi diventato Comune, viene inaugurata la seconda Unité d’habitation, dopo Marsiglia (1952), realizzata dagli architetti Le Corbusier e André Wogensky. Uno dei capolavori dell’architettura moderna che condizionerà lo sviluppo dei quartieri residenziali pubblici in tutta Europa, Italia inclusa. “Corbu lavora su più tematiche, una è quella dell’alloggio in una visione un po’ naif della società in cui non esistono classi sociali”, afferma lo storico dell’architettura Jean Louis Cohen che abbiamo incontrato nel suo studio nel Marais a Parigi.
Le Corbusier (Charles Edouard Jeanneret il vero nome) dopo la seconda guerra mondiale riprende un’intensa attività progettuale che lo porta a realizzare molte delle architetture che aveva disegnato nella sua ricerca teorica; prima della guerra sono le ville l’oggetto che costruisce con maggiore facilità, dopo, invece, si concentra sul tema dell’alloggio sociale collettivo fino alla sua morte avvenuta
nell’agosto del ’65 durante un bagno nell’acqua azzurra di Roquebrune-Cap Martin.
Fu per merito delle buone relazioni con Eugène Claudius-Petit, ministro della Ricostruzione e dell’Urbanistica, se Le Corbusier riesce a costruire sul territorio francese ben quattro unità d’abitazione (Marseille, Rezé, Briey en Forêt, Firminy). Petit diventa l’attore protagonista che apre la stagione delle committenze di residenze pubbliche in un territorio, quello francese, in cui 450mila abitazioni sono state distrutte dai bombardamenti. Si determina una contrapposizione tra coloro che vogliono ricostruire il patrimonio edilizio com’era (in una modalità nostalgica) e quelli che auspicano una “rivoluzione” culturale che concepisca nuove tipologie di alloggi.
Questa seconda ipotesi viene adottata da Petit che incarica Jean Prouvé del piano di ricostruzione di Havre e di Amiens mentre Le Corbusier si occupa di Saint Dié des Vosges e di La Palisse nei pressi della Rochelle. Petit si convince della necessità di costruire in serie per mantenere bassi i costi di costruzione migliorando il confort e la qualità architettonica, affida a titolo sperimentale a Le Corbusier la progettazione di una unité d’habitation a Marsiglia. L’idea consiste nello sviluppo verticale delle abitazioni in modo che aumenti lo spazio disponibile tra gli edifici destinato, a livello del suolo, al verde. Corbu progetta tipologie di alloggi che consentono una maggiore vivibilità in base sia alla distribuzione funzionale interna sia all’orientamento (non è un caso che le due facciate longitudinali siano, in ogni unité, esposte a est-ovest mentre le facciate trasversali sono sull’asse nord-sud) e con l’inserimento di rues intérieures attorno alle quali ruotano gli alloggi. Gli appartamenti sono pensati a doppia altezza e volumetricamente sono due L che si incastrano, in questo modo si concede, democraticamente, a tutti gli abitanti il doppio affaccio sul paesaggio lungo l’asse est-ovest.
Nella parte superiore vengono collocate le camere e i servizi mentre al livello inferiore, alla quota della rue c’è la zona giorno. L’edificio è realizzato in cemento armato a vista e ricorda i bunker della costa atlantica, poggia su pilotis che lo sollevano da terra creando uno spazio di attraversamento alla sua base in cui, nell’esempio di Rezé, la presenza di uno stagno caratterizza il suolo. A Marsiglia invece Le Corbusier, disponendo di maggiori finanziamenti riesce a realizzare, seppur con grandi difficoltà, tutti i 5 punti della sua poetica (facciata libera, pianta libera, tettogiardino, finestra a nastro) compreso il tetto-giardino, in cui colloca l’asilo e la piscina per i residenti ma ancor di più concepisce con straordinaria sensibilità volumi puri in cemento che immergono l’abitante in un paesaggio fatto di luci, ombre e vedute magnifiche; vera esperienza spaziale del vivere il Mediterraneo, uno dei temi fondamentali della sua ricerca.
“Le Unité hanno una relazione con una certa idea del Mediterraneo - continua Cohen - che è l’idea dei volumi platonici della mediterraneità come luogo della geometria, in cui viene idealizzata la nave, e, a questo proposito, i disegnatori dello studio di Corbu usavano come riferimento per la sezione trasversale delle Unité la sezione trasversale della nave Ile de France”. A Rezé la scarsità di risorse economiche ha comportato sul tetto la realizzazione della sola scuola materna come se ci fosse un costante “dimagrimento” della struttura architettonica contemporaneo alla marginalizzazione nell’ubicazione delle Unité sul territorio. Se a Marsiglia l’edificio è dentro la città come a Rezé nelle altre città, a Briey en Forêt e Firminy infatti si allontana sempre più dal centro. Si vengono così a creare quartieri ghetto non dissimili da quelli realizzati in Italia negli anni Settanta.
L’Unité di Réze, composta di 294 appartamenti (la superficie varia da 30 a 96 mq) contro i 330 del modello marsigliese, viene costruita in soli diciotto mesi dall’ottobre ‘53 all’aprile ’55. E’ alta cinquanta metri, lunga centodieci e larga venti, al suo interno sono collocate sei rues intérieures. Nantes viene dichiarata nel 1943 città sinistrata dai bombardamenti e quindi soggetta a un vasto piano urbanistico che due anni dopo viene affidato all’architetto conservatore Michel Roux-Spitz non certo avvezzo ai principi del movimento moderno. Entra allora in gioco Gabriel Chéreau, avvocato del foro nantese che
aveva già lavorato con Corbu ad una proposta progettuale per ricostruire Nantes nel ’44: è lui che chiama il maestro svizzero per conto di una piccola cooperativa di costruzione di alloggi a buon mercato (Habitations a Bonne Marché sostituiti nel 1950 da Habitations a Loyer Modéré), la “Maison Familiale”.
La “Maison Familiale”, fondata nel 1911 da un gruppo di sindacalisti cristiani, nel 1949 individua un terreno dove poter realizzare nuove residenze, così viene comprato un appezzamento di tre ettari nel borgo di Rezé. L’entusiasmo che circonda gli amministratori della cooperativa di ritorno dal viaggio nel cantiere di Marsiglia li convince definitivamente che deve essere Le Corbusier a realizzare i nuovi alloggi. La prima proposta dello studio Le Corbusier è considerata troppo onerosa, molti progetti vengono presentati ma la Maison non riesce ad ottenere l’aiuto finanziario necessario. Anche il Conseil General (l’equivalente del Consiglio Regionale) si rifiuta di prestare i soldi a ciò che il suo presidente definisce “un nido di comunisti”.
Gli amministratori della cooperativa decidono di coinvolgere il comune di Rezé e con sorpresa il sindaco, Georges Bénézet, sostiene il progetto corbusierano garantendo il reperimento di 900 milioni di franchi. Ancora una volta è il ministro Petit che autorizza la costruzione dell’immobile a titolo sperimentale. La Maison Familiale ottiene così un prestito dallo Stato per l’85% della spesa mentre il resto viene preso in carico dagli abitanti che diventano azionisti della cooperativa; un appartamento tipo situato al primo piano viene adibito alle visite dei possibili proprietari e affittuari.
Questo sistema responsabilizza gli abitanti verso l’architettura che realmente diviene un patrimonio comune. Nel 1971, come evidenzia una ricerca condotta da un gruppo di sociologhe francesi (Sylvette Denèfle, Sabrina Bresson, Annie Dussuet, Nicole Roux) dal titolo- Habiter Le Corbusier. Pratique sociales et théorie architecturale- la legge Chalandon annulla il sistema di affittuario-socio cooperativo e impone agli abitanti della Maison Radieuse (www.maisonradieuse.org), l’appellativo dell’Unité, di diventare proprietari o affittuari di una società ad affitto moderato (HLM); solo il 12 % degli abitanti decide di comprare il proprio appartamento gli altri diventano affittuari o semplicemente abbandonano l’alloggio.
Allo stato attuale la società anonima di affittuari è la Loire-Atlantique Habitation che detiene il 56% degli alloggi. Nel 1965 il Ministro della Cultura André Malraux fa iscrivere nella lista dei Monumenti Storici francesi la facciata e il tetto della Maison radieuse che diventa patrimonio nazionale. Anche questo ulteriore riconoscimento contribuisce a rafforzare il senso dell’abitare l’Unité. All’inizio gli occupanti dell’Unité sono per il 39,8% impiegati, il 36,5% professionisti e il 22,7% operai. “I piani inferiori sono occupati dagli operai e dagli impiegati -afferma la ricerca sociologica di Chombart de Lauwe realizzata nel 1957- mentre ai piani alti si stabilisce la classe borghese”.
La popolazione all’inizio è molto giovane e compresa tra i 32 e i 34 anni successivamente negli anni si determina a fronte di un nucleo “storico” di abitanti un continuo cambiamento, gli abitanti stessi denunciano l’invecchiamento dell’edificio e quindi una inadeguatezza anche di impianti e tecnologie a norma, questa situazione porta al restauro dell’immobile nel 1988 (2,6 MF per la sicurezza, 9,4 MF per la ristrutturazione, gli onorari …) Dal 1995 al 1999 saranno le facciate l’oggetto di un grande progetto di restauro che ripara il degrado del cemento e ripristina i colori originali delle logge.
Il modello Unité
L’Unité d’habitation diventa un archetipo per i progettisti che si apprestano a ricostruire le città dopo la seconda guerra mondiale, l’Italia nel 1949 approva la Legge per l’incremento e l’occupazione operaia meglio nota come Piano Fanfani in cui viene istituita l’Ina-casa.
Il piano Fanfani, allora ministro del lavoro del governo De Gasperi, voleva rimediare alla situazione dei disoccupati alla fine della guerra, attraverso piani di insediamenti residenziali atti a risollevare l’economia italiana. ” Reputai utile -afferma Fanfani- rivolgere il mio sguardo alle costruzioni edilizie, visto che… esse sono le più capaci a fungere da volano nel sistema economico”. L’Ina-Casa nasce all’inizio dall’Istituto Nazionale delle Assicurazioni, e la copertura finanziaria dei piani è fornita dallo Stato, dai datori di lavoro e dai dipendenti attraverso una trattenuta del salario, una specie di fondo sociale solidale con i disoccupati. Si venivano così a formare gli elenchi dei professionisti, in gran parte giovani e alle prime esperienze, che da subito potevano confrontarsi con la progettazione dell’alloggio-tipo.
L’Ina-casa pubblica dei manuali di progettazione, sotto la supervisione di Adalberto Libera, dove sono indicati le tipologie e le regole alle quali i progettisti si devono attenere, inoltre, per agevolare la partecipazione della maggior parte di lavoratori, viene favorita la manodopera a scapito della meccanizzazione così l’organizzazione dei cantieri e le tecniche di costruzione privilegiate sono di tipo tradizionale. La differenza tecnologica nel confronto con la Francia non inficia però l’opera dei maestri dell’architettura italiana che riescono a costruire veri e propri capolavori, come accade a Milano nel quartiere di via Harar progettato da Luigi Figini e Gino Pollini (1951-55) e a Genova dove Luigi Carlo Daneri realizza, insieme a un gruppo di una trentina di architetti, il “biscione”(1956-68) una struttura abitativa lunga 500 metri che segue le curve di livello, solo per citare alcuni tra gli esempi più vicini al modello corbusierano.
Ma è nel decennio successivo, tra la fine dei Sessanta e i Settanta, in pieno boom speculativo che il modello Unité viene replicato sul nostro territorio, ma soprattutto in territorio francese (basta vedere gli insediamenti realizzati in costa azzurra attorno a Nizza e nelle aree metropolitane delle grandi città) con scarso successo, ad eccezioni di alcuni esempi come il quartiere di Vigne Nuove a Roma (1972), opera di Alfredo Lambertucci. E ancora il Corviale opera di Mario Fiorentino (realizzato dal 1973 al 1981 dallo IACP), in cui l’architetto aveva proposto un modello di città autonomo con servizi e spazi collettivi (occupati abusivamente nel tempo e diventati parti di alloggi) collocati nella “rue interieure” proprio nella stessa ottica dell’Unité, talmente all’avanguardia come idea di comunità da non essere compreso ancora una volta dalla politica per cui era importante costruire alloggi e basta!
L’insuccesso italiano è dovuto a due fattori: l’assenza della politica nel sostenere con servizi sociali e finanziamenti adeguati la trasformazione della società e dall’altra parte pensare che la molteplicità di cittadini (spacciatori, prostitute, anziani, handicappati, famiglie, studenti) possono essere una comunità integrata e non conflittuale. In questo senso si pone il problema delle assegnazioni degli alloggi ma anche il controllo e la manutenzione che, come il caso di Rezé evidenzia, è fondamentale nel costruire un senso di appartenenza al luogo. Non possiamo affermare che il modello dell’unità di abitazione sia fallito dal punto di vista architettonico, ma da quello sociale si. In questo senso ciò che è accaduto in Francia negli anni settanta è sintomatico di come il modello corbusierano sia stato violentato in tutti i suoi principi. Non è un caso che nel 2004 la Direction de l’architecture del Ministero della Cultura affida agli architetti Anne Lacaton e Jean Philippe Vassal uno studio per migliorare le periferie con l’inserimento di nuove funzioni non previste che tengono in considerazione il cambiamento delle esigenze degli abitanti e il mutamento etnico.
Oggi in alcune aree di trasformazione delle metropoli, Roma ad esempio, si costruisce senza progetto al di fuori del Grande Raccordo (vedi speciale sull’architettura Liberazione 3 sett. 06) isolando i futuri abitanti nella campagna senza infrastrutture e servizi. Questo deterioramento culturale è iniziato quando lo Stato ha dismesso il suo ruolo di committente di residenze pubbliche delegando completamente il progetto politico di città ai privati. Si creano così vere periferie-ghetto in cui la politica, soprattutto quella di sinistra, rimane invischiata senza speranza.
Il testo è stato scritto per il quotidiano Liberazione il 30 settembre 2007