Emanuele Piccardo_La sperimentazione assente

Sejima

Dopo l’intervista a Yona Friedman e l’intervista di Hans Ulrich Obrist a Cedric Price, questo testo rappresenta un altro approfondimento sulla sperimentazione e la ricerca architettonica in previsione della prossima Biennale veneziana che ha messo in evidenza alcune contraddizioni teoriche. Aaron Betsky, già direttore del NAI, ha affermato che “l’architettura non è il costruire[…] l’architettura è qualcosa d’altro. È il modo di pensare e di parlare sugli edifici. È il modo di rappresentarli, di realizzarli: questo è architettura”.
Ma allora se l’architettura non è costruire, cos’è?
Oggi l’architettura è un fenomeno mediatico, spettacolare e sensuale come ci propongono Fuksas, Nouvel, Decq, Perrault, Koolhaas, Herzog+De Meuron, Gehry, l’assenza di sperimentazione non consente di costruire nulla, in questo ha ragione Betsky (sigh!). O forse la sperimentazione la potremo rintracciare nella sezione “Experimental architecture” curata da Emiliano Gandolfi, dove il 90% dei collettivi invitati non fa ricerca, non sperimenta e non costruisce nulla, né un immaginario né tantomeno un edificio? Basta leggere i nomi degli architetti e visitare i siti web per rendersi conto che la ricerca non esiste fatta eccezione per Lacaton&Vassal, Francois Roche, Topotek1, Nl architects, Didier Fuza Faustino, una piccola sacca di resistenza all’interno del mondo globalizzato dell’architettura. Nella maggioranza degli studi c’è una grande attenzione per la resa mediatica dei progetti, un affanno continuo alla pubblicazione sulla rivista di tendenza, con uno slittamento dal progetto di architettura all’installazione artistica, con l’intenzione di giocare a fare l’artista senza averne gli strumenti e senza conoscere la storia dell’arte e dell’architettura. Si vengono a creare situazioni ambigue in cui l’architetto è una figura indefinita incapace di confrontarsi all’interno del proprio ambito disciplinare. Questo atteggiamento è evidente nella generazione dei trenta-quarantenni e non riguarda solo l’Italia ma anche altre nazioni come Francia, Olanda, Spagna e Inghilterra. Il punto nodale rimane l’assenza di un progetto efficace e coerente, così si assiste a deja-vu mal realizzati che non riescono nemmeno a diventare “citazione” colta di ricerche artistico/architettoniche compiute precedentemente.

Come uscire dalla crisi?
L’unica soluzione a mio avviso percorribile rimane il ritorno alla ricerca, che significa la rilettura della storia dell’architettura, non in chiave postmoderna, ma partire dalle teorie già elaborate per costruirne varianti connesse ai problemi della contemporaneità come l’abitare che resta una delle problematiche più irrisolte a livello globale, tanto nel ricco occidente industrializzato quanto nei paesi emergenti come Cina e India. Individuare un tema, tipologico, funzionale o tecnologico che consenta una reale sperimentazione portata all’eccesso per dimostrarne la veridicità o la falsità; purchè si tentino nuove strade, non legate al formalismo fine a se stesso, ma attraverso l’individuazione di un’idea di architettura verificabile nella pratica costruttiva. Diversamente da ciò che invece accade, quando gli architetti, come nel caso del duo Purini-Thermes, non riescono a essere coerenti col proprio pensiero teorico quando fanno architettura. In questo particolare caso si evidenzia un’altra magagna dell’architetto contemporaneo: l’incapacità di fare autocritica; la sua assenza determina una inconsapevolezza di sé che non consente di vedere con una certa distanza l’opera prodotta.
I risultati di questa miopia sono evidenti, architetture sbagliate per dimensioni e volume, rapporto col contesto e incapacità nell’essere città.

Purini
Purini&Thermes, Centro Commerciale Euroma 2

Recentemente è stato pubblicato da Bollati Boringhieri “Contro l’architettura” un testo-manifesto scritto dall’architetto-sociologo Franco La Cecla che, in modo demagogico e per questo condivisibile ai più, spara a zero contro gli architetti senza risparmiare nessuno dei top-ten da Koolhaas a Herzog & De Meuron, da Nouvel a Gehry fino alla Sejima (senza dubbio la meno star del gruppo citato) uniche eccezioni Piano e Zumthor. Appare demagogica la posizione del sociologo siciliano quando afferma il valore negativo dell’architettura che si fa brand, logo, marchio come se la scoperta del fenomeno dovrebbe farci sobbalzare sulla sedia. Purtroppo non è così, non riesco a stupirmi di una modalità che riguarda il rapporto tra architettura e mercato in cui il ruolo dell’architetto è determinante nel convalidare il successo della marca o del potere politico come la Bejing Library o la sede della tv cinese opere di OMA.

Koolhaas

Ciò che mi lascia perplesso nell’analisi di La Cecla è l’assenza di una tesi alternativa al sistema, citando come una delle poche esperienze di resistenza il lavoro del collettivo Stalker. Ormai in declino da un paio d’anni, il gruppo romano non è in grado di porsi come alternativo alla tendenza dell’architettura odierna, per il semplice motivo che il loro operato è ambiguo, né artistico né architettonico, ma sospeso a metà e lontano dalla loro prima esperienza, marcatamente situazionista, sperimentato nel 1995 con l’attraversamento di Roma a piedi; e comunque successivo alle esperienze degli artisti Emilio Fantin, Cesare Pietroiusti, Luca Vitone e Allen Ruppersberg che hanno “inaugurato” la stagione degli attraversamenti dei territori a piedi.

La Cecla afferma l’inutilità dell’architettura contemporanea più attenta ad autorappresentarsi che a costruire tessuto urbano e in questo mi trovo d’accordo ma è sbagliato pensare che solo attraverso l’architettura partecipata si possano migliorare le nostre città.
In questi casi l’esempio che viene sempre citato è Giancarlo De Carlo, il quale in uno dei suoi progetti migliori, il villaggio Matteotti a Terni, è riuscito a lavorare con gli abitanti realizzando un’architettura che ha saputo interpretare i desideri dei fruitori ma che non ha delegato ai cittadini la progettazione e così deve essere sempre! L’architettura si fonda sul progetto ed è compito dell’architetto attuarlo, certo comprendere le esigenze dell’abitante è importante affinché il progetto sia migliore se la finalità del fare architettura è l’innalzamento delle condizioni di vita. Ma ancora più importante dovrebbe essere l’etica del fare, come ci hanno insegnato gli Smithson e il New Brutalism!

La Cecla non fa un buon servizio all’architettura sparando a raffica, in questo modo confonde e allontana sempre più la società civile dall’architettura, vanificando il lavoro di molti che, come la nostra rivista, lotta per costruire un fabbisogno di architettura nella società e conseguentemente la formazione di una cultura contemporanea attraverso azioni sul territorio. Concentrare l’attenzione solo sulle star, peraltro poco incidenti sulla totalità del costruito a fronte dei battaglioni di geometri, ingegneri e architetti che hanno distrutto il territorio attraverso architetture abusive e speculative, determina un macroscopico errore di visione del problema. L’unico architetto salvato da La Cecla non a caso è Renzo Piano, uno dei più sensibili, invitato a progettare l’ampliamento della Columbia University nel quartiere nero di Harlem. Infatti l’architetto genovese è riuscito a scardinare una procedura rigida nel dialogo tra committente e progettista pretendendo il dialogo tra l’ente universitario e il quartiere; si è costruito così uno strumento attivo nel processo progettuale che si pone come alternativo alla prassi consueta applicata dalla stragrande maggioranza degli architetti.
Questa parte del libro di La Cecla è quella migliore perchè descrive il lavoro svolto dal sociologo siciliano sul campo, mentre nelle altre parti si perde nella banale constatazione dello status quo senza darne una sua personale interpretazione.

Caro La Cecla,
ciò che avviene nelle periferie italiane con i nuovi quartieri di Caltagirone a Roma non sono peggio e più dannose delle architetture da lei descritte nel libro?
E ancora le nuove enclave/gated community ben raccontate nel film “La Zona” di Rodrigo Plá non meritano una riflessione sulla deriva della società?

La Zona
Forse bisognerebbe riformare completamente il mestiere a partire dall’Università evitando di laureare migliaia di giovani che infoltiscono le casse degli ordini professionali. Sarebbe necessario selezionare con maggiore forza gli architetti del futuro, per evitare di avere delle figure professionali incapaci di gestire un progetto di architettura, eliminando la conquista sessantottina dell’Università per tutti che ha determinato solo generazioni di laureati inadeguati alla progettazione che poi entrano negli uffici tecnici comunali a gestire le trasformazioni delle nostre città! Ciò che emerge nel complesso di “Contro l’architettura” è una certa superficialità nell’affrontare un tema così complesso e stratificato come la deriva attuale dell’architettura, nella quale va rimarcata, accanto all’architetto, un’altra figura fondamentale: la committenza, pubblica e privata. Non ha fornito strumenti e strade alternative, ha paragonato la ricerca delicata e minimale della Sejima alla non ricerca di Gehry o Nouvel, non ha evidenziato il buon lavoro svolto da Tschumi, uno dei più lucidi teorici e architetti attenti alle problematiche della società. Ha dimenticato Zumthor, e non si è accanito contro il sistema accademico dei vari Monestiroli, Grassi, Gregotti, Botta il cui operato ha contribuito a rendere sempre più opaca l’università italiana; non ha neanche scritto del progetto delirante di Pier Vittorio Aureli che copia la no-stop city di Archizoom.
Insomma parafrasando un suo illustre collega, si aggira un fantasma nella metropoli è l’architetto-sociologo!

La Zona

[Emanuele Piccardo]