Andrea Botto_Arles 2002
La 33ª edizione dei Rencontres de la Photographie di Arles offre, agli appassionati di fotografia provenienti da tutto il mondo, un programma di 30 mostre, 8 proiezioni notturne nello splendido scenario dell’Anfiteatro romano, 7 premi internazionali, 20 workshop, visioni portfoli, conferenze e dibattiti.
Un’edizione notevolmente riveduta, corretta ed ampliata, segnata dalla precisa intenzione del presidente Francois Barrè di riportare il Festival di Arles tra gli appuntamenti più importanti nel mondo della fotografia, anche con l’istituzione di un Grand Prix al pari, a suo dire, di ciò che la Palma d’Oro di Cannes è per il cinema.
La direzione artistica è affidata a Francois Hebel, ex direttore di Magnum Photo e uomo di provata esperienza.
Per la prima volta la scelta di non individuare un tema che legasse le esposizioni, ha permesso una maggiore libertà al curatore, che ha potuto così proporre una selezione di lavori molto eterogenei, in grado di accontentare i diversi gusti del variegato pubblico che affolla ogni estate la cittadina provenzale.
Forse ci si poteva attendere scelte un po’ più coraggiose visto che nell’introduzione al catalogo da lui firmata dal titolo “Rencontres 2002, nouveau format”, così afferma: “L’exploration de la photographie se libère. Des albums de famille, des archives d’entreprises, sont l’objet d’attention au même titre que des photographes plasticiens, documentaires ou d’autres artistes qui utilisent la photographie dans leur crèation…
Les Rencontres s’interessent, sans distinction de genre, ce qui émerge et qui, tôt ou tard, pourrait marquer une étape de l’histoire de la photographie”.
Pezzo forte dell’esposizione è la grande retrospettiva dedicata a Josef Koudelka, fotografo cecoslovacco dell’Agenzia Magnum, che ha segnato in modo determinante la fotografia di reportage degli ultimi trent’anni.
Dai primi scatti dedicati al mondo dei Gitani, in mostra all’Espace Van Gogh, attraverso il lavoro che lo ha reso celebre su Praga ‘68 ed Exils nell’Eglise des Trinitaires, fino a Chaos all’Eglise de Frérs, il cui allestimento varrebbe da sé una visita nella cittadina provenzale.
Con un sottofondo di pioggia e temporali lontani, le immagini in bianco e nero di grandi dimensioni sembrano nascere dal buio stesso dello splendido spazio gotico, animato dalle ombre dei visitatori proiettate sulle pareti e sulle opere: silhouette allungate ed indefinite, ideali abitanti degli spazi irreali costruiti da Koudelka.
Interessante e particolare è la collettiva “Il corpo come territorio”, che riunisce i lavori di tre artiste arabe, Zneb Sedira, Raeda Saodeh e Jananne Al-Ani, le quali affrontano il tema dell’identità femminile nella cultura islamica.
Il corpo è visto di volta in volta come territorio dello “spaesamento”, della “occupazione” o dello “sdoppiamento”, attraverso performances di cui le autrici sono protagoniste in prima persona.
Per gli amanti della fotografia di paesaggio, oltre alle panoramiche di Koudelka, si possono ammirare le stampe a colori di grandi dimensioni del fotografo inglese Jem Southam, dal titolo “La forma del tempo” nelle quali l’autore segue, a scadenze regolari, i cambiamenti del territorio naturale: scogliere sotto l’effetto dell’erosione, coste, maree, stagni.
Praticamente sconosciuto in Italia, Southam è uno dei più importanti fotografi inglesi contemporanei, insieme a Paul Graham e Peter Fraser e lo scorso anno ha ricevuto il City Bank Prize, prestigioso premio britannico in ambito fotografico.
I cultori della stampa “fine art” come il sottoscritto, non mancheranno di emozionarsi davanti alle sempre splendide immagini del maestro Edward Weston, provenienti dalla collezione del Musee Reattù ed all’ottima qualità del lavoro di Alexey Titarenko sulla città di Sanpietroburgo.
Forse qualche perplessità si potrebbe avere sull’italiano Antonio Biasucci, non certo sul lavoro “Vacche” di cui è nota la qualità, quanto piuttosto sull’allestimento e sulla collocazione, apparsi quantomeno infelici e non all’altezza delle opere, visto che ad Arles non mancano certo gli spazi.
Infatti, quello che più colpisce dell’organizzazione francese è la capacità di convertire ed adattare qualsiasi spazio ad un’esposizione di fotografie.
Era successo qualche anno fa con un’officina meccanica, lo scorso anno con un cortile in disuso adibito a rimessa e quest’anno con l’ex stazione ferroviaria dove, non a caso, sono allestite, tra le altre, due mostre che hanno come protagonisti i treni.
Non manca una collettiva di gallerie, quest’anno dedicata all’Olanda, nella quale però, al di fuori dei lavori di Koos Breukel e Désirée Dolron, che onorano la grande tradizione olandese del ritratto, si fatica a trovare opere altrettanto convincenti e, anzi scopriamo, non senza una punta di orgoglio nazionale, qualche citazione non troppo velata al nostro Olivo Barbieri, dimostrando almeno per una volta, eccezione che conferma la regola, che cercare “ispirazione” all’estero non sia solo una prerogativa italiana.
Ed a proposito di Italia, chi volesse dedicarsi alla ricerca di qualche esponente di casa nostra, oltre al “nascosto” Biasucci”, dovrà farsi una bella gita alla Abbaje de Montmajour, a circa 5 km da Arles, posta su una collina che domina la pianura del basso Rodano e teatro nell’antichità di capitoli importanti della storia francese.
L’aria densa di tradizione non deve però aver fatto troppo bene al nostro Gabriele Basilico, al quale è toccato l’incarico di documentare le testimonianze storiche della provincia provenzale. Forse troppo avvezzo a muoversi nelle periferie delle grandi metropoli, Basilico si trova qui un po’ in difficoltà nel trasferire sulla sua fida pellicola in B/N, la forte identità dei luoghi.
Ma l’esperienza è tanta e permette al nostro “maestro” di uscirne indenne, anche se i nostalgici rimpiangeranno non poco le immagini fatte negli stessi luoghi, qualche anno prima, da Mimmo Jodice.
Crediamo comunque che il lavoro, che sicuramente conta molte più immagini di quelle esposte, avrebbe meritato un allestimento diverso, più corposo e meno anonimo, che comprendesse anche le ottime immagini riprodotte sul catalogo, inspiegabilmente assenti in mostra.
Tutto ciò è però sintomatico di quella che è la considerazione che l’estero nutre per la fotografia italiana; se questo è il trattamento che viene riservato a Basilico, che in Francia ha da sempre trovato una seconda patria, figuriamoci agli altri.
Dobbiamo tornare indietro di almeno quattro anni, quando la direzione artistica del festival fu affidata a Giovanna Calvenzi, per trovare una buona rappresentanza di fotografi italiani.
Bisogna dire, però, che già una parte delle risposte ai nostri interrogativi ci viene fornita indirettamente quando entriamo nelle librerie che si occupano di fotografia ad Arles: qui, tranne qualche libro di Basilico, Berengo Gardin ed alcuni editi da Contrasto, probabilmente consegnati personalmente da Roberto Koch nei giorni dell’inaugurazione, di volumi italiani non vi è traccia.
Ad ognuno le proprie conclusioni…
Il proposito del festival “della Grande Svolta” è ambizioso e non sempre viene rispettato.
Quello che voleva essere il cambiamento raramente convince, la “novità” non regge il confronto con il passato e le cose più interessanti restano quelle più classiche.
Nemmeno le proiezioni notturne del Festival Off, che di “off” ha però solo il nome, riescono a rinfrancarci sul futuro della fotografia.
Vediamo molto interesse ed entusiasmo da parte dei giovani, voglia di fare che raramente riesce a trovare una possibilità di espressione, senza piegarsi alle regole del “mercato”. Tanti lavori di qualità e coerenza, affogati e spodestati da troppi lavori “già visti”, “già pensati” e “già cestinati”, che sfioriscono con le prime piogge d’autunno.
La “fotografia” deve ricominciare a discutere di sé stessa e soprattutto ad “essere sé stessa”, confrontandosi e dialogando con i nuovi mezzi e le possibilità che essi offrono, senza però perdere la propria identità.
La strada per ritornare tra la gente “comune”, dopo anni di sterile autoreferenzialità ed autocelebrazione, è lunga e piena di ostacoli e di pericoli nascosti.
Assumere la direzione di un Festival come quello di Arles, dalla trentennale tradizione, e pensare di invertirne la rotta in un solo anno è cosa da dimenticare.
Le basi sono state gettate, una nuova stagione si affaccia all’orizzonte, la discussione è aperta.
Sarà interessante vederne il seguito e sentire le reazioni a livello internazionale.
Staccarsi dalla tradizione è difficile e controproducente, soprattutto quando essa continua a rivelarsi la parte migliore.
Uscendo da Arles ci sentiamo un po’ come quel personaggio del Gattopardo di T. di Lampedusa e, con un pizzico di amarezza, ci rendiamo conto che, come nella migliore tradizione letteraria, “tutto è cambiato per non cambiare niente”.
[Andrea Botto]