Fabrizio Violante_New York: l’immagine della città

“L’aria sarebbe anche buona, se non fosse viziata dai nostri fiati in concorrenza fra loro e dal monossido dell’invidia. Le finestre sono sprangate, lavoriamo nell’aria filtrata dai climatizzatori in una specie di serra dai pilastri di cemento, in cui gli architetti hanno inteso realizzare il loro ideale di trasparenza del potere.” (Christine Grän)

La protagonista del romanzo Bastarda di Christine Grän si muove all’interno della redazione di un giornale ‘chiusa’ in un moderno edificio di Monaco, ma le sue parole potrebbero descrivere la claustrofobia di una qualsiasi delle cosiddette fabbriche burocratiche che si ergono nella loro presuntuosa verticalità nelle metropoli di tutto il mondo.
Sebbene oggi il grattacielo sia una tipologia architettonica diffusa ovunque, e particolarmente nelle nuove capitali economiche dell’Asia, esso è essenzialmente legato alla storia e all’immagine della città americana, rappresentando - tra le varie simbologie che nella sua esistenza ormai più che secolare gli sono state attribuite - innanzitutto il gesto più eclatante del sogno americano, per cui ogni cosa è possibile: “Nelle sue linee verticali riconosciamo il vero simbolo di un popolo strenuo e avventuroso. Un popolo che non conosce requie, volonteroso e fiducioso nella propria forza e nel proprio potere” (Cass Gilbert, 1928).

Non vi è dubbio che l’architettura di questi ‘inferni di cristallo’ sia dominata dal commercialismo: celebrati all’inizio come il simbolo della creatività americana, i grattacieli sono in realtà figli naturali del capitalismo immobiliare. Nati sulle ceneri della città di Chicago distrutta dall’incendio del 1871 - e dalle intuizioni pionieristiche dei vari Jenney, Richardson, Sullivan (e tutti gli altri ingegneri e architetti che fecero la storia di quella che è stata poi definita la ’scuola di Chicago’), che seppero coniugare ricerca formale ed evoluzione tecnica -, i grattacieli con il loro sviluppo multipiano sempre più spinto risolvono essenzialmente l’esigenza degli speculatori di sfruttare al massimo le aree centrali.

Louis Sullivan, nella sua Autobiografia di un’idea del 1926, scriveva infatti che: “L’alto edificio commerciale sorse dalla pressione dei valori terrieri, i valori terrieri dalla pressione della popolazione, la pressione della popolazione dalla pressione esterna […]. Ma era insito nel tipo di costruzione in muratura di fissare a sua volta un limite in altezza, poiché le sue mura, che andavano sempre più ingrossandosi, divoravano spazio e terreno di sempre maggior valore”, così che fu adottata: “un’armatura in acciaio che avrebbe sopportato tutto il carico […]. Una volta fatto il gioco, rapidamente prese corpo qualcosa di nuovo sotto il sole”. La nascita del grattacielo quindi: “Fu questione di una visione dell’arte di vendere basata sull’immaginazione e sulla tecnica ingegneristica”…

Ben presto i grattacieli di Chicago furono superati, in altezza e spettacolarità, dalle torri di Manhattan, che diedero forza all’immagine di New York città moderna per eccellenza, il “mito metropolitano del ventesimo secolo”, la ’shock city’ dove “tutto può accadere e può accadere proprio adesso”, “il luogo dove un bambino incontra sempre quello che vuole diventare da grande” (Louis Kahn).

New York è la città del Woolworth Building di Cass Gilbert, che fu definito ‘la Cattedrale del Commercio’; del Chrysler Building, capolavoro dell’Art Déco; dell’Empire State Building, ‘il grattacielo di King Kong’; del RocKefeller Center, che Koolhaas ha definito “capolavoro senza genio”; del Palazzo delle Nazioni Unite, il grattacielo ‘mancato’ di Le Corbusier; del Seagram Building di Mies van der Rohe, rarefatto prisma di metallo e vetro, punto d’arrivo dell’astrazione miesiana, modello ripetuto e ‘banalizzato’ fino agli anni settanta; delle Twin Towers di Yamasaki e Roth, che con i loro 411 metri d’altezza avevano superato l’Empire, ritornato ad essere l’edificio più alto della città dopo l’11 settembre; dell’AT&T Building di Johnson, immagine simbolo del grattacielo postmoderno; dell’attesa, e per molti versi deludente, Freedom Tower di Libeskind, presentata come “un punto esclamativo” nello skyline della città.

Tutta l’architettura verticale che si alza prepotente dalla griglia ortogonale delle strade di Manhattan ha contribuito a creare il mito di New York; mito al quale ha dato grandemente corpo il mondo dei media, cosicché l’immagine della città non è fatta solo del paesaggio fisico creato dalle sue architetture vertiginose, ma soprattutto del paesaggio mentale evocato dalla musica, dalla letteratura, dalla fotografia, dal cinema.
Se è vero che “la realtà sorge nello spettacolo, e lo spettacolo è reale” (Guy Debord), allora l’immagine più reale di New York è quella impressa nei milioni di fotogrammi degli innumerevoli film che vi sono stati girati. È così vera l’immagine della città che il cinema ha creato, che si può girare un film a New York senza essere a New York: Stanley Kubrick, ad esempio, ha ambientato il suo Eyes Wide Shut a Manhattan, ma girandone gli esterni in una Londra ‘riadattata’.

Molti i registi che si sono mossi tra le strade e le storie di New York, tra questi sicuramente Woody Allen e Martin Scorsese, che vi hanno ambientato la maggior parte della propria filmografia.
Newyorchesi entrambi, incarnano e raccontano anime e mondi diversi della città: Allen è il tipico intellettuale ebreo che abita Manhattan, cita Freud, Groucho Marx, Bergman e la ’sophisticated comedy’; Scorsese invece, cresciuto a Little Italy, vive la città notturna, la ‘mela marcia’, descrive la follia metropolitana con uno stile allucinato e anticlassico, lontano da quello della vecchia Hollywood.

Allen ha più volte dichiarato il suo amore per la città: “New York comincia a mancarmi non appena lascio Manhattan”, e la sua personale Symphonie einer Grosstadt è sicuramente Manhattan, capolavoro del 1979 per il quale la critica americana lo definì ‘il fidanzato di New York’.
In questo film il regista celebra non tanto la città fisica, dove si muovono i personaggi tipici delle sue storie, ma quella dell’anima (non a caso filmata in bianco e nero), il luogo intimo della memoria, della paura, delle nevrosi, dell’amore e della morte. Il ‘pedinamento’ del protagonista genera uno sguardo soggettivo, lontano dalla narrazione oggettiva del neorealismo italiano, che pure è tra i riferimenti dell’autore: la Manhattan di Allen esiste nei suoi film, come la Rimini di Fellini completamente ricostruita in studio nel film Amarcord.
Allen, il più ‘europeo’ dei registi americani, ama la sua città intellettuale, e in tante battute dei suoi film la contrappone alla fisicità sguaiata di Hollywood: “Amo Antonioni, Bergman, Mahler e Wagner, come potrei amare la California?”.

L’incipit di Manhattan costituisce uno dei più bei film su New York della storia del cinema, una sorta di reportage interiore: i grattacieli, le insegne luminose, il traffico, gli operai al lavoro, il porto, Park Avenue, la Quinta Strada, il Guggenheim, Broadway, lo Yankee Stadium, lo skyline notturno illuminato dai fuochi d’artificio per la festa del 4 luglio, fotografati in un bellissimo bianco e nero carico di chiaroscuri, al suono della Rhapsody in Blue di Gershwin, mentre il monologo fuori campo si conclude con le parole: “New York era la sua città e lo sarebbe sempre stata”…

Anche Scorsese ama la sua città, ma ne racconta soprattutto il lato oscuro: “Odio la violenza. Ma essa è in me, in voi, in ognuno di noi, ed io voglio esplorarla”. I suoi personaggi sono spesso violenti e al tempo stesso in cerca di redenzione, secondo l’immagine più consueta degli italoamericani, figli di due patrie, la mafia e la chiesa: “Sono cresciuto con loro, i gangster e i preti. Ecco tutto”.
Scorsese descrive la fine del sogno americano, e in questo senso la sua dichiarazione d’intenti è chiara sin dal celebre corto del 1967, The Big Shave: filmando un anonimo personaggio intento a radersi in un bagno immacolato che alla fine riempie del suo sangue tagliandosi la gola col rasoio, urla l’orrore della guerra, che allora era quella in Vietnam e oggi la guerra permanente seguita all’11 settembre.

Il regista nei suoi film, salvo poche eccezioni, narra l’altra storia dell’America, e di New York in particolare: dalla rivolta di Five Points descritta in Gangs of New York, uscito nel 2001, alla torbida e insicura metropoli dei primi anni novanta che si vede in Al di là della vita, film del 1999, che sembra tradurre in immagini le parole di Henry Miller: “A notte le strade di New York riflettono la crocifissione e la morte di Cristo” (Tropico del Capricorno, 1939).
La Manhattan di Scorsese, notturna e allucinata, è un inferno metropolitano: cresciuto in un quartiere che descrive come “un mondo in cui la paura era eretta a modo di vivere, di sopravvivere”, nella scena finale di Gangs of New York, con la città che cresce dalle lapidi, via via fino all’ultimo fotogramma con le Twin Towers, ci consegna l’immagine di una New York amorale, rappresentazione della cattiva coscienza del mondo occidentale.

La geometria verticale dello skyline newyorchese celebra l’aristocrazia del denaro, ed è figlia di un’architettura che, nel momento in cui sceglie di spettacolarizzarsi, perde ogni significato ideale. Così l’immagine del Worl Trade Center, tempio del capitalismo impazzito, è rappresentata dalle Twin Towers: due monoliti speculari, due prismi puri, parto gemellare di quest’architettura ai limiti dell’incomunicabilità, che scarnifica la forma riducendola alla pura funzione.

Jean Baudrillard, in La violenza del globale, conferenza tenuta all’Insitut du Monde Arabe di Parigi, afferma: “il fatto che ce ne siano due significa la fine di ogni riferimento originale […]: solo il raddoppio del segno mette veramente fine a ciò che esso designa. […] Non resta più che una sorta di scatola nera, una serie conclusa con il numero due, come se l’architettura, ad immagine del sistema, procedesse ormai soltanto dalla clonazione o da un codice genetico immutabile”.

Se, quindi, le Twin Towers, e l’insieme delle architetture verticali di Manhattan, rappresentano il sistema dei valori occidentali, la loro distruzione l’11 settembre 2001 ha significato anche un attacco a questo tipo di architettura e al “sistema mondiale che essa incarna. Nella loro pura modellizzazione informatica, bancaria, finanziaria, contabile e numerica, esse ne erano in qualche modo il cervello e, colpendo là, i terroristi hanno colpito al cervello, al centro nevralgico del sistema”.

Poiché, dunque, la città fisica è il riflesso della città sociale e dei suoi valori, la contestazione violenta del modello capitalistico passa anche attraverso la distruzione dell’architettura che lo rappresenta.
Per Baudrillard il fallimento di questa architettura è tale da fargli dire che: “lo sgomento, per le quattromila vittime, di morire in quelle torri è inseparabile dallo sgomento di viverci - lo sgomento di vivere e di lavorare in quei sarcofagi di calcestruzzo e di acciaio”. In più la gemellarità dei grattacieli del WTC aggiunge ulteriore significato all’evento terroristico: “duplice aggressione a pochi minuti di intervallo. Suspense tra i due impatti.

Dopo il primo, si può ancora credere a un incidente. Solo il secondo impatto firma l’atto terroristico. […] Il crollo delle torri è l’evento simbolico principale. Immaginate che non siano crollate o che ne sia crollata una sola: l’effetto non sarebbe stato lo stesso. La prova eclatante della fragilità della superpotenza mondiale non sarebbe stata la stessa”.

Nell’impero mediatico l’immagine si sostituisce all’evento. Eppure il cinema americano, che si è nutrito abbondantemente di situazioni catastrofiche, all’indomani dell’11 settembre, con scelta unanime delle major, rinuncia a questo remunerativo processo di sostituzione, cancellando l’immagine delle Twin Towers da tutti i film in uscita nelle sale: la singolarità dell’evento reale si è imposta sui tragici scenari virtuali creati dagli effetti speciali dell’industria hollywoodiana.
Alcuni commentatori hanno sottolineato come il presidente Bush abbia dovuto paragonare l’11settembre all’attacco di Pearl Harbour, per riportare lo spettatore, assuefatto a film in cui la paura e la morte sono ovunque, ad un piano di realtà ormai perduta. E per Hollywood l’unico modo di dare senso a questa nuova realtà è stato quello di bandirla.

Ancora oggi, a quasi quattro anni di distanza, sono pochissimi i film che raccontano la New York colpita al cuore l’11 settembre.
La caduta delle due torri, o meglio la sua ombra, si vede soltanto nel bellissimo episodio di Sean Penn nel film collettivo 11-9-2001, che si chiude con l’inquadratura di una piantina avvizzita che rifiorisce quando il crollo le restituisce finalmente la luce del sole.
Ma è La 25ª ora di Spike Lee la più dolente e appassionata riflessione di un newyorchese sulla sua città sopravvissuta all’attacco terroristico.
Il segno della tragedia e il senso di precarietà pervade ogni scena, ogni ambiente, ogni personaggio: sin dall’incipit con le immagini di Ground Zero e dei due fasci di luce che si alzano al cielo al posto delle due torri, graffiando la notte newyorkese. Un segno eclatante eppure evanescente, che conferma il vuoto più che evocare i grattacieli perduti.

Edward Norton interpreta il protagonista principale, un cristo sbagliato, condannato a sette anni di prigione per spaccio di droga, nelle ultime ventiquattro ore di libertà, una personale via crucis durante la quale incontrerà gli amici, le storie, gli amori della sua città lacerata.
Cupo e disilluso, il film ha la sua scena madre nel dialogo tra i due amici del protagonista, un insegnante di inglese e un broker di Wall Street, inquadrati davanti a una finestra che si apre sullo spaventoso vuoto di Ground Zero, decine di metri più in basso: “la cinepresa resta come impietrita di fronte a questo palco privilegiato sull’orrore. Tragedia privata (nel dialogo) e universale (nell’immagine) si conciliano in un infinito piano fisso che sembra annichilire il tempo” (Dante Albanesi).
La città di Spike Lee, che cerca di recuperare la propria verità tra le macerie, è molto diversa dalla Manhattan di Woody Allen, eppure anche questo film è una dichiarazione d’amore a New York, alla città contemporanea che vive il sogno di una ‘25ª ora’ in cui tutto potrebbe essere diverso…
[Fabrizio Violante]

©copyright archphoto-Fabrizio Violante