Emanuele Piccardo_L’architettura del fare

Superstudio

Cari Aureli e Mastrigli,
leggo nelle pagine di Arch’it la presa di posizione in merito all’architettura e al suo divenire contemporaneo e mi permetto di fare alcune considerazioni a partire dai vostri pensieri.
La crisi in cui l’architettura è caduta negli ultimi dieci-quindici anni e che permane tutt’ora dimostra ancora una volta l’inesistenza della critica architettonica, passata e recente in cui tutti noi siamo intrappolati. Le colpe di chi ha preceduto la nostra generazione di trentenni è stata l’incapacità a rifondare l’architettura a partire dall’era post-moderna. Ciò ha generato una estremizzazione del conflitto ideologico, tra i post-modernisti (Ungers, Graves, Meier, Venturi, Portoghesi…) che in Italia hanno generato un’architettura di “regime” fortemente politicizzata (Rossi, Gregotti, Natalini) e gli hi-tech(Renzo Piano, Norman Foster, Nicholas Grimshaw, Richard Rogers…) che hanno privilegiato, fin dalle origini, sulle orme degli Archigram, l’avanguardia tecnologica come risolutrice dei mali dell’architettura nell’intento di individuare nuovi linguaggi, caratterizzando il dibattito negli anni settanta e precisamente dalla costruzione del Beaubourg. Per poi nel decennio successivo veder proliferare il decostruttivismo con Tschumi, Eisenman, Libeskind, Hadid, Gehry .

Così, nel momento in cui la “nuova era” quella digitale è apparsa, molti tra architetti e critici, si sono lasciati coinvolgere pensando di individuare in essa il “nuovo mondo”. In questo senso l’assenza della critica non ha determinato una nouvelle vague dell’architettura e come voi avete ben descritto Architettura=Informazione, questa equivalenza “ha portato in breve a legittimare e promuovere l’architettura senza il ricorso a prospettive teoriche e realmente critiche, ma confidando in definizioni sempre più semplicistiche e stereotipate” prevalendo su Architettura = Idea di mondo. Sono sorpreso che abbiate usato le pagine della rivista generalista Arch’it, colpevole di aver alimentato il processo che voi criticate, spingendo architetti e critici a entrare nella scena mediatica dell’architettura, il cui contributo teorico è inesistente.

L’architettura non può prescindere dall’esprimere un pensiero teorico che definisca un’idea di città, regione, stato, pochi sono gli architetti che oggi riescono a definire una propria idea di città o di architettura. L’espressione di un pensiero teorico deve poi tramutarsi in ARCHITETTURA e non rimanere teoria astratta.
Pensate a Le Corbusier ha ricercato tutta la vita la sua teoria immaginando di poterla costruire.Oggi non ci arriviamo neanche a pensare alla teoria che sta dietro una scelta progettuale, l’importante è la forma non la teoria che l’ha generata oppure pensiamo di applicare la teoria solo successivamente ad architettura realizzata.

Questa è la condizione dell’architettura contemporanea, esistono architetti che elaborano teorie risultato di anni di ricerche che sono evidenti nei progetti, basta avere la curiosità di andarli a cercare, attraverso il web, visitando gli studi, studiando le loro opere e parlando con loro. Questo è il critico!
Non rimanere fermo dietro la scrivania a riflettere sui mali dell’architettura senza mettersi in gioco, smettiamola con le analisi dello status quo dobbiamo passare alla fase propositiva, progettuale anche se non si vuole costruire nessuna architettura e vogliamo fare i critici altrimenti sporchiamoci le mani nella malta.

Oggi si assiste con insistenza alla costruzione di singoli oggetti che non dialogano con il contesto, architetti senza una visione globale della città, progettano il grande segno reso evidente dalla recente Casa da Musica di Koolhaas, volutamente sproporzionata rispetto al contesto così come avvenuto per il progetto della Bejing Library.
E’ indubbio che il ruolo svolto dal mercato induce gli architetti a prodigarsi da una parte all’altra del globo a costruire città omologhe, senza identità e carattere ma formalmente fini a se stesse, questo è il risultato del cattivo governo del mercato.

Città senza differenze dove sono sempre gli stessi nomi a firmare le architetture dagli esiti formali uguali (Herzog e De Meuron e Oma in Cina). Quanto incidono percentualmente quelle architetture sul cambiamento/miglioramento della società contemporanea in termini di qualità dell’abitare un territorio?Nulla,infatti in Italia abbiamo costruttori-speculatori che edificano la città dove l’architetto è un attore marginale.

Qual è il ruolo dell’architetto?Progettare installazioni effimere segno di una mancata assunzione di responsabilità oppure ritornare a fare architettura avendo un sogno, un’utopia concreta di città?E con quali strumenti? Gli strumenti dell’architettura che possano definire un progetto fatto di molteplicità di approcci disciplinari (arti visive, sociologia, antropologia, scienza…)?

Non vendiamo le installazioni effimere come il padiglione di Otterlo quale nouvelle vague dell’architettura, quando architetti negli anni sessanta come UFO, Superstudio o Archizoom hanno lottato per un ideale, per il cambiamento della società e della disciplina architettonica sperimentando nuovi linguaggi come si riscontra nel monumento continuo o la reflected architecture di Superstudio.

L’architetto deve riconquistare la capacità di immaginare gli scenari futuri, così come avveniva con il Plan Voisin, la città vivente, Arcosanti e Monumento Continuo. Come vivremo tra 50 anni? Quando avverrà la glaciazione o la desertificazione come cambierà il nostro modo di abitare? La scienza sperimenta ogni giorno nuovi ipotesi di come sarà fatto l’essere umano , saremo come in Blade Runner replicanti in città iper-hi tech oppure torneremo all’arcaico paesaggio di Dune di David Lynch?

La ricetta per l’architettura non è così semplice, non basta applicare bene una teoria occorre fare esperienza, sperimentare la veridicità dei propri teoremi altrimenti sono parole nel vuoto, occorre cambiare molto dentro la nostra disciplina.

Sono gli architetti i primi che devono ripensare all’apporto che l’architettura può dare alla società, sono gli architetti che devono dialogare con la politica e l’imprenditoria ma non gli archi-star, gli architetti di tutti i giorni quelli che modificano con il loro operare, i contesti che abitiamo. Sono gli architetti che dobbiamo formare affinché possano infondere una cultura architettonica ai cittadini, fruitori dell’architettura. Solo in questo modo potremo, forse, considerare il progetto di architettura come valore culturale aggiunto per l’evoluzione di uno stato.

[Emanuele Piccardo]